Gabriel Cacho Millet: L'introduzione al Carteggio (1903-1931)
Prologo
Da: Dino Campana, Lettere di un povero diavolo, Carteggio (1903-1931)
A cura di Gabriel Cacho Millet
Edizioni Polistampa, Firenze, 2011
Ricostruire un carteggio è come edificare un tempio: pietra su pietra. È un'opera che richiede tempo e pazienza. Si diventa detective e si insegue la preda, come i cacciatori, cercando tracce, annusando, fiutando. Ian Gibson, il biografo di Federico Garçia Lorca, scrive che non puoi mandare nessuno al posto tuo, perché ciò che potresti scoprire non sarebbe visto dall'altro come lo vedi tu. E quando trovi il pezzo che cercavi, la lettera che mancava, quella che ti permette di completare, almeno in parte, il tuo puzzle, è quasi un'estasi. E se così non fosse, non si continuerebbe a cercare: invece ogni giorno ci riserva un'avventura, piccola o grande che sia. Personalmente, ho finito per mettere Dino Campana nei miei sogni. E ciò da quando, nel lontano 1978, pubblicai con Vanni Scheiwiller Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, primo carteggio del poeta di Marradi con gli uomini del suo tempo. Cercai allora, e cerco ancora oggi, di fare in modo che ogni lettera possa essere letta nei suoi minimi particolari, chiarificando, fin dove mi è possibile, ogni dubbio, perché è mia intenzione, al di là della "confusione di spirito" dello scrittore, che il lettore possa leggerlo come se si trattasse di un classico. Sono i lettori che decidono quando un poeta è, o no, un classico.
Eugenio Montale: Sulla poesia di Campana
da: L'Italia che scrive, 1942
[...] Campana poeta visivo o poeta veggente? L'impressione che ci ha lasciato una recente rilettura dei Canti Orfici — voglio anticiparla fin d'ora — è che le corna di questo dilemma siano tutt'altro che inconciliabili: se è vero che anche i critici di Campana meno inclini a misticismo e irrazionalismo gli concedono « illuminazioni spinte fino al mito » (Gargiulo) e negano che per lui si possa parlare di semplice impressionismo (Contini); mentre d'altro lato il migliore interprete dell' « infrenabile notte » del poeta (Carlo Bo) si è espresso in frasi e immagini (« una poesia che non ha avuto il tempo dei fiori o l'ha avuto con il soccorso anticipato e crudele dei frutti ») che lasciano trasparire almeno un limite di questa poesia. L'osservazione, facile a farsi anche se non fosse confermata da ricordi personali, che Campana fu presto tenuto d'occhio dagl'intendenti, non deve far pensare che gli intonarumori del momento (futuristi, lacerbiani, ecc.) abbiano prestato molta attenzione all'autore dei Canti Orfici. Lo tennero per uno dei loro, forse, ma a debita distanza; e Campana stesso non li ricambiò di grande simpatia.

(Paolo Pianigiani)
PREFAZIONE AL CODICE GELLI
C'è nella mia Livorno una chiesina piccina
piccina, che sorge a pochi metri di distanza dalla
cattedrale grande grande. Nel contrasto, la
chiesina, che è intitolata a Santa Giulia sembra
ancor più modesta: e i livornesi, quando vogliono
giudicar d'una cosa contraria alla logica, e
stravagante, come sarebbe d'un debole che
offrisse con aria pretensionosa il suo soccorso ad
un forte, o d'un sonatore d'ocarina che
presumesse d'insegnare armonia e contrappunto
a Mascagni dicono: « È Santa Giulia che fa l'elemosina
al Duomo ».
Gigino Bandini, l'amico di Marradi
da Meridiano di Roma, 17 aprile 1938
Le interessanti lettere di Campana pubblicate in Omnibus (19 febbraio u.s.) contengono la rivelazione di un suo aspetto che ignoravo: il suo credersi perseguitato dai compaesani. Non esito ad indicare come maniaca questa sua persuasione. Ovunque possono essere anime abbiette; e gente capace di basse persecuzioni, con delazioni od altro, può ben esserci nel mio paese: ma chi mai poteva avere un interesse a far ciò nei riguardi di Dino? Chi mai si occupava seriamente di lui? A meno che non ci sia stato di mezzo un odio verso i suoi. Ma anche questo mi pare da escludere: la famiglia era delle più benvolute in paese. Non odio, non persecuzione; l'atteggiamento dell'ambiente verso di lui era bensì un senso di scandalo, quasi di costernazione, per le sue abitudini, e di imbarazzo e di timore in sua presenza, perché lo ritenevo matto; ad ogni sua ricomparsa, alla notizia di qualche sua nuova impresa, era magari un gran dire: "eh, povera famiglia; eh, che disgrazia!", ma nessuno gli muoveva vero rimprovero, appunto perché lo consideravano irresponsabile.
DINO CAMPANA
TACCUINO
A cura di Franco Matacotta
EDIZIONI AMICI DELLA POESIA
Edizioni Amici della Poesia 1949
Corso Cavour 9 – Fermo (Marche)
PREMESSA
Qualche lettore sprovvisto, sfogliando le pagine di questo libriccino, potrà chiedersi quali motivi m’abbiano indotto a raccogliere questi minuti frammenti Campaniani, dato che, forse, nulla aggiungono alla maggiore comprensione del poeta e alla sua fama: specialmente dopo la pubblicazione degli “ Inediti ” fatta da Enrico Falqui, coll' amore e la perizia di cui bisogna, ogni volta, rendergli grazie. Ed effettivamente, pure ragioni critiche non esistono. Debbo perciò chiarire le mie intenzioni, perchè non sorgano equivoci di sorta.
Un pacco di libri
di Bino Binazzi
Bologna, 14 Luglio 1915
Non si può esimerci – anche oggi che pure ci son tante cose da fare e da pensare - dal parlar di libri. Ne nascano tanti; ed è impossibile che fra tanti qualcuno non richiami la nostra attenzione o perché porta un nome d’amico o perchè nuovo parto di qualche scrittore già prediletto o-anche- perché giuntoci per posta con tanto di dedica a noi.... “illustri” ... Oh Dio! – il giovincello furbo sa che noi, volendo potremmo dar mano al soffietto su per le colonne di un giornale ove si esplica la nostra – non precisamente « illustre » – fatica quotidiana. Quanti libri anche durante questo periodo in cui il turbamento dei classici « otia » non potrebbe esser maggiore! E non intendo di mettere in conto tutti quelli occasionali sulla Dalmazia qui, sulla barbarie là, sul Belgio sotto, sul Trentino sopra ecc.ecc. Si intende parlare di libri di pura fantasia.
Antonio Tabucchi
Vagabondaggio
1.
A volte cominciava così, con un rumore impercettibile, come una piccola musica; e anche con un colore, una macchia che nasceva dentro gli occhi e si allargava sul paesaggio, e poi invadeva di nuovo gli occhi e da essi passava all’anima: l’indaco, per esempio. L’indaco aveva un suono di oboe, a volte di danno, nei giorni più felici. Il giallo Invece aveva suono di organo.
Guardava i filari dei pioppi che emergevano dal materasso di nebbia come canne di un organo e su di loro vide la musica gialla del tramonto, con qualche nota dorata. Il treno correva nella campagna, l’orizzonte era un filo incerto che appariva e scompariva fra le ondate di nebbia. Schiacciò il naso contro il finestrino, poi con l’indice scrisse sul vapore condensato del vetro: indaco, nel viola della notte. Qualcuno lo toccò su una spalla e lui sobbalzò.
“Le ho fatto paura?, disse un uomo. Era un anziano signore corpulento, con una catena d’oro sul gilet. Aveva un’aria stupita e insieme dispiaciuta.
“Mi scusi, non credevo…
“Oh niente”, disse lui, e con la mano cancellò in fretta le parole sul vetro.
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