Introduzione al Taccuinetto faentino

 

di Enrico Falqui

 

Vallecchi, 1960

 

 

Un nuovo, inaspettato e forse ultimo capitolo si aggiunge alla disgraziata e avventurosa storia del testo dei Canti orfici di Dino Campana, con la pubblicazione del Taccuinetto faentino, giusta la scrupolosa trascrizione operatane da Domenico De Robertis, venendo a capo di difficoltà non comuni, senza lasciare all'acume il sopravvento sulla cautela e sulla discrezione.

E siccome il diminutivo del titolo ha in sé qualcosa di vezzeggiativo che mal s'accorda con l'indole dell'Autore, va subito chiarito che, se si è ritenuto di dover intitolare Taccuinetto faentino le ottanta paginette del taccuino inedito rimessoci dal fratello del Poeta e recante il timbro di una cartoleria di Faenza, è stato, oltre che per evitare cacofonia, anche perchè non si confondessero con quelle del Taccuino, fatto conoscere dal Matacotta nel '49 ma costituito unicamente dalla riunione di un gruppetto di stralci e di appunti ricavati da documenti sparsi, appartenenti all'Aleramo.

Il Taccuinetto faentino è invece un autentico  « quadernuccio per appunti di piccolo formato, del tipo di quelli sui quali i clienti si fanno segnare dal bottegaio i debiti della spesa giornaliera; di carta a quadretti piccoli del tipo protocollo, dagli angoli arrotondati, rivestito di tela cerata nera, ora assai logora in costola, e dal taglio tinto di rosso ».

Dobbiamo inoltre precisare che il quadernetto, dal quale risultano asportate una ventina di pagine, era in nostre mani da qualche tempo; e non solo a causa delle mille scoraggianti asperità insite nella trascrizione, considerato il sovrapporsi e l'interrompersi, il riallacciarsi e l'intersecarsi delle notazioni, cui De Robertis (a differenza del Li Gotti, che, pur avendo potuto disporre del taccuino nel '45, si limitò a prelevarne e illustrarne le tre successive redazioni di uno stesso Frammento ricollegantesi a un altro posteriore frammento e riecheggiante alcuni tratti dei Canti orfici) è tuttavia riuscito a impartire quasi un po' d'ordine, se d'ordine si può parlare per il deciframento di un simile ingarbugliatissimo brogliaccio.


Nota dalla Bibliografia del Verdenelli - LI GOTTI Ettore, Ancora su un frammento di Campana, in «Accademia», a. I, n° 11-12, 1945, p. 20. [Si tratta di alcuni versi che Li Gotti afferma di aver trovato scritti a lapis in duplice copia e poi copiati a penna in un taccuino inedito acquistato da Campana a Faenza. Versi che l’autore riconduce ai seguenti componimenti campaniani: Oscar Wilde a S. Miniato, Notturno teppista, Genova. Si tratterebbe comunque sia di tre variazioni sullo stesso tema, quello cioè della descrizione di città.]


In vero si voleva schivare il rischio di attrarre sul Campana la risaputa malevolenza dei censori accademici, al cospetto di un testo stravolto e smozzicato e spezzettato, meritevole, a parer loro, d'essere registrato nel novero degli  « scartafacci » e così accantonato tra la roba inutile. Con l'aggravante della taccia di fanatici per i responsabili della trascrizione e della diffusione.

E inedito, il Taccuinetto, sarebbe forse continuato a rimanere per un pezzo se, a risolverci di darlo alle stampe, non fosse sopraggiunta l'occasione di dover provvedere ad una ristampa dei Canti orfici, cui nella maggioranza si riallacciano le annotazioni e le prove, gli appunti e gli abbozzi del commovente libretto al quale Campana, pur in maniera discontinua, aveva affidato molti barlumi e molti lampi dei suoi canti in prosa e in verso, nonchè qualche accenno del loro progettato raggruppamento e ordinamento in volume, a volte così netto e deciso da sembrare riferito a testi già compiuti, già esistenti.

Né meno rivelatori, per acutezza d'immagini e per intensità d'accordi, nonostante le interruzioni e le riprese, sono i richiami a molti tra i più celebrati Canti orfici, dal primo all'ultimo. Essi sono così forti e testuali da far risultare quei frammenti, più che abbozzi, quasi varianti o riassunti del testo definitivo; e quindi tali da poter magari insinuare incertezza a riguardo della loro datazione.

E’ infatti da ricordare che, consegnatane al Papini e da questi trasmessane al Soffici la lezione esatta, o comunque autorizzata, per un giudizio impegnativo, il testo originale dei Canti orfici andò smarrito e, stando alle rimostranze dell'Autore, fu dovuto ricomporre, a mente e in fretta, per passarlo alla stampa.

Ma tutti sanno, per la documentazione rilasciatane anche dai clinici, quanto lacrimevole fosse lo stato mentale del Campana; e tutti possono facilmente immaginare quanto disperante debba essergli riuscito lo sforzo di una tale fatica. Lettere e testimonianze ancora rimbombano delle grida d'indignazione che eruppero dal petto di Campana, agitandolo furiosamente.

La ricostruzione di quell'unico testo, nel quale aveva riposto ogni onore ed ogni salvezza, non potette, quantunque riscavata e risillabata dal profondo, che approssimarsi alla lezione primitiva: e più o meno lasciò sempre insoddisfatto l'Autore, costringendolo a lamentarsi sempre che si lasciò persuadere a rileggerla. Alcunché d'incerto e di riecheggiato vi s'insinuò fatalmente e non pochi sono i tratti in cui s'avverte qualche incompiutezza e insufficienza. L'arrovellante ricomposizione, per quanto di forzosamente alterato o difettoso coinvolse nei confronti della stesura originale, fu sacrosanto motivo di esasperazione per il povero Campana.

Ma non staremo a ripetere considerazioni da noi e da altri già avanzate. Ci limiteremo ad aggiungere che, riaccertata, attraverso l'ulteriore revisione del testo imposta dalla nuova ristampa, la drammaticità delle vicissitudini subite dai Canti orfici, non abbiamo voluto più ritardare la opportunità di certificarla meglio mediante gli appunti e gli abbozzi del Taccuinetto faentino. Resta, tuttavia, da stabilire se essi furono, in tutto o in parte, precedenti o susseguenti alla composizione o alla ricomposizione dei Canti orfici, o se l'accompagnarono.

Non rappresentano forse una specie di solfeggio intorno ad alcuni essenziali motivi rincorrentisi nell'insieme dell'opera? E non si estendono forse da La notte a Genova, con particolare riferimento a composizioni quali Faenza, il Canto della tenebra, Notturno teppista, la Sera di fiera, oltre alle già citate e ad altre, appartenenti a periodi vari della sua vita ?

La loro raggrumata presenza, a volte fulminea e a volte rimbalzante, fa sì che sorga e permanga qualche incertezza circa la datazione da impartire a un materiale così frantumato e scheggiato; tuttavia accompagnato da indicazioni di progetti riguardanti la sistemazione in volume di tutti i Canti orfici. Già compiuti ? O in programma? Se la lezione di alcuni componimenti compresi nel cosiddetto Quaderno è tale da potersi supporre antecedente a quella dei Canti orfici, gli abbozzi del Taccuinetto debbono, a loro volta, essere considerati precedenti alla corrispondente e più progredita, più assestata lezione del Quaderno.

Ma, mentre questa constatazione indurrebbe a collocare il Taccuinetto prima del Quaderno nella cronistoria dei Canti orfici, la molteplicità dei richiami, estesi all'intera serie dei canti, e l'esattezza dei quattro o cinque accenni di progetto per l'ordinamento della materia lasciano nel contempo immaginare compiuto e disponibile l'insieme dei Canti orfici. O ancor solo architettato ?

D'altro lato la presenza, nel vivo groviglio di appunti e di abbozzi, anche di annotazioni quali per esempio: « Perché scrivo queste impressioni non so » oppure: « Un'idea mia. Se la Notte di Michelangelo portasse panni... », induce a riconoscere l'immediatezza di quegli appunti e di quegli abbozzi, troppo irruenti per non essere di primo getto, ma altresì mescolati a riflessioni critiche e a notazioni diaristiche che solo più tardi dovevano trovare giusta espressione in immagini e in sentenze più concise e più appropriate alle esigenze artistiche del componimento.

Ma, come il Taccuinetto non ha un principio e neppure una fine — nel senso che, essendo scritto nelle due opposte direzioni, comincia, senza terminare, dai due estremi e l'uno s'intreccia e si confonde con l'altro —, così ben può ammettersi, anche date le differenti maniere in cui è scritto (a lapis e a penna, alla svelta e con calma, alla rinfusa e con ordine), che sia stato preso e lasciato, ritrovato e ripreso, interrotto e proseguito in periodi vari, a distanza di tempo. Nel qual caso, la sua sopravvivenza, in una vita così turbinosa, lo renderebbe ancor più singolare.

In ogni modo, quale che sia la datazione, indubbia risulta l'importanza del Taccuinetto per lo spiraglio improvviso che dischiude sulla fase germinativa più intima dell'espressione poetica campaniana. Ad esempio, la numerosa successione di frammenti e di abbozzi, rintracciata e riordinata lungo l'intero quadernino e posta sotto il titolo Faenza, e, al riguardo, di un estremo interesse, se confrontata alla suite omonima.

E sicuramente appunti come quello su « Il più bel quadro » risultano depositari di prime impressioni e riflessioni, per poco che vengano messi a riscontro con l'orchestrata pienezza dei componimenti ai quali diedero avvio: ne costituiscono l'intelaiatura critica. A differenza di altri, come quello « Un gorgo di fremiti sordi », che ne rappresentano invece le prime incalzanti modulazioni poetiche. Ma non è qui il luogo per soffermarsi in esami comparativi.

E neppure per distendersi ad illustrare lo spicco o la risonanza che certe parole e frasi isolate, certi accenni e spunti appena colti ma già nitidi ottengono in un libretto della pregnante qualità di quello campaniano: dove molte sono le notazioni e le prove trasportate e utilizzate quasi senza modifica nella lezione dei Canti orfici. Senza che però manchino i frammenti e gli abbozzi sottoposti invece a varianti e a rifacimenti di forte rilievo a mano a mano che dalla notazione prosastica passavano alla modulazione poetica e la memoria vi esercitava il suo incanto.

Se non i segreti, perché questi sono incomunicabili nell'ineffabilità della loro essenza fantastica e tecnica, almeno alcuni momenti della fase creativa più intima di Dino Campana sono, dunque, adesso a nostra conoscenza attraverso esempi, che ci riconfermano quanto lungo e minuzioso e accanito e cosciente sia stato il lavoro di Campana.

Della ventina di righe di cui si compone la prosa Arabesco-Olimpia sapevamo già, per averlo l'Autore palesato al medico Pariani, che gli erano costate un mese di fatica e che, dopo averne consentita l'anticipazione in un giornaletto pistoiese, insistette col Novaro perché fossero ripubblicate nella Riviera ligure, stimandole una delle sue prose più belle: un lavoro « dei migliori che io abbia mai fatto ».

Né meno lento dovette essere il processo di composizione attestato da appunti e abbozzi per poesie, quali Genova e Canto proletario italo-francese, che pur non raggiunsero l'agognata sistemazione. In realtà nel continuo riproporsi dei Canti orfici alla nostra indagine, c'è qualcosa di sorprendente e di affascinante.

Il loro risulta certo uno dei testi più drammatici e più mitici della poesia italiana del Novecento. Di lettura in lettura, di analisi in analisi par quasi che chieda e cerchi e aspetti e aneli di trovare e godere presso di noi il perfezionamento ideale. Ed è perciò che questi « scartafacci » ci sono cari e preziosi.