Da: Inediti, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi 1941
Nota di Paolo Pianigiani
Come è noto il "Quaderno" di Dino Campana fu ritrovato dal fratello Manlio dentro un cassone in soffitta, nella casa di Marradi. Giunto in originale nelle mani di Enrico Falqui fu trascritto, con insormontabili difficoltà di interpretazione, dovute al fatto che si trattava di appunti, che solo l'Autore avrebbe potuto e saputo interpretare.
Il "Quaderno" andò perso, nessuno sa come e perchè. Restano alcune pagine fotografate inserite come esempio nel bel volume degli Inediti, edito da Vallecchi nel 1942.
Falqui fece del suo meglio, per rendere il testo utilizzabile per l'edizione a stampa.
Di certo si è perso il mistero, tutto campaniano, della pagina scritta, dei pensieri sciolti, geniali, accumulati. Che solo alcune pagine fotografate continuano a far brillare.
La lettera che pubblichiamo è una delle ultime scritte da Campana (l'ultima tra quelle indirizzate a Aldo Orlandi) prima di essere rinchiuso definitivamente in manicomio. E' stata spedita da Lastra a Signa (Firenze) il (9 novembre 1917. Campana non ha più nulla da chiedere né agli amici né alla vita, si sente «il più tristo fanciullo della terra che tutte le sue mamme hanno abbandonato». A tratti il discorso sembra perdere lucidità, ma ne acquista in vigore. Campana cerca di recuperare una propria italianità (la cui mancanza gli era stata più volle rimproverata): Guglielmo II diventa così Guglielmone, ma d'Annunzio rimane il vate buffone. Sente che per lui è finita: "Sono felice di vivere queste poche ore che mi restano», ma chiudendo la lettera ha un ultimo guizzo ironico e graffiante per Amalia Guglielminetti.
Il “mate”, a cui si riferisce Campana in questo brano dei Canti Orfici, è una bevanda del Sud America che si prende di solito calda, e si offre a chi condivide un gruppo di persone in riposo, in un momento di pausa, sia di lavoro, sia soltanto un momento sociale, popolare, familiare.
È la bevanda tipica che si consuma in famiglia, tra amici, e spesso anche al lavoro, quando il clima non è troppo formale.
Nella chiesa di Badia a Settimo (Firenze) è sepolto il poeta Dino Campana (1895 - 1932). Raffaello nel Pantheon, Mozart disperso in una fossa comune, gli altri imperatori di ricchezze (non tutti) che ubriacano il mondo: manco un fruscìo che li ricordi. Così è la morte: privilegia chi vuole malgrado la brusca faccenda de la vita.
Dino Campana poeta d’incomparabile sofferenza, scosso dal suo genio e dal valore tragico della sua umana vicenda, riposa come un santo, mentre intorno a lui si celebra il divino Ufficio, il Sacrificio della Messa. Quel sacrificio che lui volle fuggire per inventarsene uno proprio.
Il pellegrinaggio poetico di Dino Campana alla Verna
Silvio Ramat
A settembre farà un secolo esatto da quando un giovane di venticinque anni, Dino Campana, si mosse dal suo paese, Marradi (nella «Romagna Toscana», diceva lui), alla volta del santuario della Verna, la «fortezza dello spirito» edificata da Francesco d' Assisi, che secondo tradizione vi ricevette le stigmate nel 1224, due anni prima di morire. Viaggio, anzi «pellegrinaggio», stando allo stesso Campana: il quale forse nel 1910 non era un «poeta» nel senso effettivo del termine, avendo messo su carta ben poco del materiale confluito poi nel suo unico libro, Canti Orfici (1914).
Libro ricomposto in drammatica frenesia dopo lo smarrimento del manoscritto che - intitolato Il più lungo giorno - Dino aveva messo nelle mani di due lettori prestigiosi: Papini e Soffici.