Fiorenza Ceragioli
«OSCAR WILDE A S. MINIATO»
DI DINO CAMPANA
Fiorenza Ceragioli
da Belfagor, vol. 42, no. 1, 1987, pp. 15–27.
Ringrazio Fiorenza Ceragioli per avermi permesso di pubblicare questo suo articolo e Andreina Mancini per l'aiuto a trascriverlo. (p.p.)
Già dalla prima pubblicazione di Oscar Wilde a S. Miniato, che Falqui diede alle stampe nel 1942 insieme ad altri inediti campaniani, il titolo della lirica ha sempre segnalato la presenza, in un luogo ben definito, di un personaggio, Oscar Wilde appunto, che non è invece rintracciabile nel testo vulgato dal Falqui.
Per comodità del lettore riproduco la poesia come appare in quella edizione, con i lievi ritocchi che sono stati apportati nelle successive:
- 1 O città fantastica piena di suoni sordi...
- 2 Mentre sulle scalee lontano io salivo davanti
- 3 A te infuocata in linee lambenti di fuoco
- 4 Nella sera gravida, tra i cipressi.
- 5 Salivo con un'amica giovane grave
- 6 Che sacrificava dai primi anni
- 7 All'amore malinconico e suicida dell'uomo:
- 8 Ridevano giù per le scale
- 9 Ragazzi accaniti briachi di beffa
- 10 Sopra un circolo attorno ad un soldo invisibile.
- 11 Il fiume mostruoso luceva torpido come un serpente a squame;
- 12 Salivamo, essa oppressa e anelante,
- 13 Io cogli occhi rivolti alla funebre febbre incendiaria
- 14 Che bruciava te, o nero alberato naviglio
- 13 Nell'ultime febbri dei tempi o città:
Ruggero Jacobbi, L'esilio e la visione
Ruggero Jacobbi
Ruggero Jacobbi
L'ESILIO E LA VISIONE
Intervento "a braccio" al convegno fiorentino organizzato dal Gabinetto Vieusseux
Pubblicato su "Dino Campana oggi", Vallecchi 1973
Sono veramente imbarazzato dalla circostanza di dovervi ammannire la mia eloquenza « a braccio » dopo i testi scritti, meditati e letti, di coloro che mi hanno preceduto. Non ho nulla di scritto. Cercherò brevissimamente di vedere in Campana e soprattutto nei « viaggi » di Campana (viaggi reali e immaginari), per piccoli esempi, l'incontro fra due temi di fondo, che non sono soltanto suoi ma di tutta una zona della poesia fra i due secoli: il tema dell'esilio ed il tema della visione. Anche in Campana si è manifestato, nella fattispecie di una Pampa e di un Sudamerica divenuti mito, quel desiderio di un libro da « negro », di un libro da « pagano », di un libro da noneuropeo, che Rimbaud espresse proprio in questi termini. Allo stesso tempo (come cercherò di dire, non di dimostrare; si dimostra con un apparato erudito, non con improvvisazioni) questa volontà di mettersi in esilio, di andare a cercare un altro spazio, o ciò che oggi chiamiamo Terzo Mondo, coincide — in quanto non sempre legato ad una realtà sperimentata, ma più spesso a memoria e fantasia — con la capacità visionaria di Campana. Basta guardare sulla pagina i passi dei Canti orfici e degli Inediti che si riferiscono all'Argentina.
Domenico de Robertis
PER UN PIÙ LUNGO GIORNO
Quando Dino Campana affidò a Papini e a Soffici, l'inverno del 1913, il manoscritto di quella raccolta di poesie e di prose che oggi sappiamo s'intitolava II più lungo giorno, senza volerlo si era premunito per una lunga latitanza del suo libro; e, in un certo senso, aveva cooperato alla sua sparizione. Il manoscritto era nato per durare e sopravvivere (è, oggi, il meglio conservato degli autografi di Campana); e per durare e sopravvivere più a lungo di quanto non sia rimasto sepolto tra le carte di Soffici aveva, se così si può dire, la vocazione dell'oblio. A quella data per noi abbastanza remota, un anno avanti la prima guerra mondiale, il libretto su cui Campana aveva trascritto il nucleo fondamentale di quelli che saranno i Canti orfici poteva avere forse due secoli! Dopo la notizia della sua ricomparsa, e l'emozione di ritrovarci davanti questo libro amato e perduto, proprio perdutamente amato, è stata questa, almeno per me, la sorpresa più grossa del vivo incontro col manoscritto del Più lungo giorno.
IL “QUADERNO” DI DINO CAMPANA
di Silvano Salvadori
I Canti Orfici hanno costituito il prevalente terreno di caccia della critica letteraria. Forse di nessun poeta possiamo seguire un’evoluzione di testi poetici tanto sofferta e per di più testimoniata
Se fu avventurosa la vicenda del manoscritto dei Canti, non meno lo è stata quella dl Quaderno. Ritrovato dal fratello Manlio e contenente 43 composizioni, fu consegnato ad Enrico Falqui che ne curò la pubblicazione nel 1942 con la riproduzione fotografica di cinque pagine; il Falqui indicò a margine le varianti dei vari versi, senza fare una dettagliata ricostruzione delle sovrapposizioni nella stesura, densa appunto di ripensamenti e correzioni. Solo per la lirica “Oscar Wilde a San Miniato” la Ceragioli, in Belfagor, fece una trascrizione diplomatica che rivelò l’intenso lavoro di riscrittura tipico del poeta di Marradi.
Gianfranco Contini
Gianfranco Contini: Campana poeta visivo
Letteratura, Firenze 1937
Ma Campana non è un veggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa. («Che le corna di questo dilemma siano tutt’altro che inconciliabili», ha poi inteso di mostrare Eugenio Montale (Sulla poesia di Campana, nell’Italia che scrive di settembre-ottobre 1942), acutamente insistendo sulla dilatazione linguistica che Campana volle germanicamente conferire all’italiano). «Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: la porpora del treno morde la notte»: quell’ansito sottinteso, quando giunge al silenzio, e a un «silenzio occhiuto di fuoco», si scioglie in una visione ardente. Si dice: un visivo, e s’intende qui un temperamento così esclusivo da assorbire e fondere in quella categoria d’impressioni ogni altra; com’è dello sparo di mezzogiorno calato nella «verde» campagna: «gli ultimi soffii di riflessi caldi e lontani nella grande chiarità abbagliante e uguale quando per l’arco della porta mi inoltrai nel verde e il cannone tonò mezzogiorno». E’ facile osservare come nel momento in cui la fantasia di Campana tocca la regione emiliana dai contorni netti e dalle tinte sicuramente campite, Bologna o Faenza, la sua potenza dl rappresentazione visuale si sfreni. Luogo ideale di Campana, che accoglie il lettore già dalla soglia dei Canti orfici: La Notte.
Gabriel Cacho Millet: Sul "male" di Dino Campana
Sul "male" di Dino Campana
RITRATTI CRITICI DI CONTEMPORANEI
DINO CAMPANA
di Fulvio Longobardi
Da Belfagor , Vol. 2, n. 1, 15 gennaio 1947
pp. 68-74
(Trascrizione di Andreina Mancini e Paolo Pianigiani)
Son mancante, stracciato, ebben guardate
s’è brutto quello che trasparirà;
il cuore dei poeti è ben talvolta
bello già da sé stesso e voi potreste
ben saperlo se solo voi credeste
o aveste un pochettin d'umanità.
Dino Campana
La poesia di Dino Campana ha subìto una strana sorte: i Canti Orfici pubblicati nel 1914 suscitarono appena qualche recensione (De Robertis, Cecchi) sui quotidiani, mentre nelle riviste letterarie l'avvenimento fu quasi ignorato. Vi fu l'articolo di Giovanni Boine sulla «Riviera Ligure» ma di notevole nient'altro. Le parole del Boine delineano con agrodolce franchezza l'ambiente da cui erano usciti e venivano a cadere propizi i Canti Orfici:
C’è in giro per l'arte contemporanea un fermento d'esaltazione, un'aria di novità e di anarchia, un tremore di angoscia che cerca sfogo. Ma c'è anche, e assai più, la preoccupazione di metterlo in mostra e di affermare la propria modernità spregiudicata colla rettorica dell'espressione. La ansiosa modernità di certa gente comincia al di fuori e resta al di fuori. C'è infine gente che finge la libertà essendone nell'intimo sprovvista; e poi che è persuasa dell'ovvia verità che la poesia è dei pazzi più pazzi, si finge dunque pazza e lo fa con scioltezza. Ma questo Campana, per lo stesso impaccio del suo parlare, quello che di elementare e ingenuo la cultura ha lasciato in lui, è, seDio vuole, un pazzo sul serio. Epperciò Te Deum.
Pagina 2 di 3