Corrispondenti di Dino Campana
di Franco Matacotta
La Fiera Letteraria, domenica 31 Luglio 1949
Una quarantina di lettere di gente nota e ignota che, insieme con i documenti di un duello preparato ma non più avvenuto, sono anche la testimonianza dello sforzo compiuto da quasi tutti gli amici per alleviare le sofferenze del poeta.
Voce
di DinoCampana
di
Francesco Monterosso
Paese Sera 18 Luglio1952
Ringrazio l'amico Paolo Magnani di avermi inviato questo rarissimo documento, scritto da Franco Matacotta nel 1952 con lo pseudonimo di Francesco Monterosso.
(p.p.)
AI PRIMI DI GENNAIO 1918, Il poeta Dino Campana, il vagabondo, il ribelle, il cosidetto folle, esaurite tutte le possibilità di resistenza alla drammatica battaglia della sua vita e della sua poesia, entrava nel manicomio di Castelpulci, a trentatrè anni di età. Mai s'era dato ancora nella storia delle nostre lettere un destino tanto tragico e tanto precocemente concluso. La nostra letteratura è stata sempre di solare equilibrio. Nemmeno la rapinosa e voluttuosa follia del Tasso valse a spezzare questa fatalità olimpica del nostro orizzonte poetico. Campana è stato, davvero, il primo ingresso delle ombre e delle Furie nei giardini chiari e sereni delle nostre lettere.
Silvio Ramat
Campana nella tradizione novecentesca
Intervento al Convegno tenutosi al Vieusseux nel 1973
di Silvio Ramat
Dino Campana oggi, atti del Convegno tenutosi al Gabinetto Vieusseux, a Firenze, il 18 e 19 marzo 1973
Per quanto possa sembrare di una banalità assoluta, il rilievo preliminare s'impone: a voler impostare cioè un discorso su Campana nella tradizione novecentesca, è necessario che rendiamo conto dell'esistenza dell'uno e dell'altra. Dino Campana: quale possiamo proporlo, vivo di là dai termini di una meccanica registrazione d'anagrafe che, del resto, non fu pacifica né senza margine d'errore, se Papini e Pancrazi, ancora nella seconda edizione — 1925 — del loro repertorio Poeti d'oggi, facevano risalire la nascita dell'autore dei Canti orfici, — già segregato, come si leggeva, nel manicomio di «Castel Pucci», — al 1889, anziché al 1885; dimodoché Campana si trovava antologizzato fra i Baldini e i Fracchia, invece che tra i suoi effettivi coetanei Moretti, Palazzeschi, Onofri e Rebora. (Magari a proposito dello sbaglio di datazione, suggerisce qualcosa, tra fatalità e coincidenza, il fatto che quel 1889 è lo stesso anno in cui aveva preso a manifestarsi la pazzia nel grande precursore, la pazzia di Nietzsche).
Giuseppe Ravegnani
La Poesia e la Pazzia di Campana
di Giuseppe Ravegnani
da La Stampa, sabato 4 agosto 1928
Quando, sul principio del ‘14, per i rozzi tipi del Ravagli di Marradi uscirono i Canti Orfici di Dino Campana, grande e chiassosa fu l’entusiastica meraviglia, specialmente nei gruppi dei giovani dediti alle lettere. Dei critici di fama, soltanto Emilio Cecchi ne parlò, in un colonnino della Tribuna. Gli altri, silenzio e noncuranza. Così, il nome di Dino Campana, poeta antico, passò, dopo una felice giornata di gloria. Infatti, chi mai ancora oggi ricorda la sgraziata «brochure» giallina, simile più a un lunario paesano che a un libro di canti?
Il 30 giugno 1916, Cloche, come Campana soleva talvolta scherzosamente chiamarsi, scriveva da Rifredo di Mugello a una sua ammiratrice che gli aveva espresso il desiderio di incontrarlo: "Je ne saurais jamais vous três agréable à Marradi. C’est un pays où j’ai trop souffert et quelque peu de mon sang est resté collé aux rocker de là haut. Mais ca ne vois que pour moi et vous pouvez voir ça mieux dans les couchants étranges de mes poésies". "Couchants étranges de mes poésies".
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Nel 1916 Dino Campana s'infatuò di una profetessa scozzese stabilitasi in Toscana: le chiese per cartolina di poter avere un figlio con lei
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Chi abbia familiarità con l'opera poetica di Dino Campana e con quel tanto di notizie che faticosamente la critica ha potuto raccogliere della sua tumultuosa esistenza non puo rinunciare a riconoscere un consapevole contenuto "messianico" in quella poesia e in quella vita. Del resto, a sollecitare nel poeta il sogno di redimere l'umanità, di trasformare, come egli stesso dice, il "miasme humanin", in un mondo di "creature pure", contribuirono non soltanto la sua particolare natura, tutta istinto ed esaltazione, ma anche l'atmosfera di cultura nella quale egli compì la sua formazione. Se è vero che egli ha il suo debito con Poe, Villon e Rimbaud, e perfino con Jean Rictus, e che tutta la sua storia di pellegrino in patria e di emigrante d'oltralpe sia da considerare nient'altro che una delle tante "fughe" letterarie di cui la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento sono pieni, altrettanto vero è che egli ebbe debiti grandi colla cultura crepuscolare e post-crepuscolare del suo paese. Non per nulla il Boine, che nel secondo decennio del secolo andava disperatamente in cerca di "nuove Americhe da scoprire", lo riconobbe ben presto come "fratello", dopo la "gran febbre d'esaltazione ricevuta dalla lettura dei Canti Orfici".
Giosuè Carducci
Walter Mauro: Il rapporto fra Giosuè Carducci e Dino Campana
Dal primo numero del 2007 della rivista, "Pagine della Dante", della Società Dante Alighieri
Nella notte del 16 febbraio del 1907, esattamente cento anni fa, moriva Giosué Carducci, a settantadue anni, e con lui scompariva la prima figura rappresentativa di quel secondo Ottocento che ha rappresentato per la poesia italiana l’avvio di un dettato poetico nuovo e diverso, dopo la grande triade del preromanticismo e dell’idealismo che con Foscolo, Manzoni e Leopardi aveva rappresentato un momento di intensa e incomparabile tensione poetica, i cui riflessi, del resto, non mancheranno di illuminare anche la parola e il lavoro letterario della seconda parte del secolo, fino al primo Ottocento. Due giorni dopo quel 16 di febbraio, si svolsero i funerali: dietro il feretro, da Mura Mazzini fino al cimitero della Certosa, a Bologna, c’erano autorità politiche, Filippo Turati fra gli altri, Alfredo Oriani, e soprattutto, come presenze non soltanto simboliche, Giovanni Pascoli dalla pace di Barga, e Gabriele D’Annunzio.