M.Del Serra Campana

 

 

Maura Del Serra su Dino Campana

 

da "Dino Campana",   Il Castoro, 1974  

                       

di Maura Del Serra

                   
Versione  

Opere di Dino Campana

Canti orfici, Marradi, Tipografia Ravagli, 1914. Marradi, Tipografia Ravagli, 1914.

Canti orfici e altre liriche, a cura di Bino Binazzi, Firenze, Vallecchi, 1928, a cura di Bino Binazzi, Firenze, Vallecchi, 1928.

Canti orfici, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1941.

Inediti, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1942 (raccolgono il Quaderno e parte dei Taccuini).

Taccuino, a cura di Franco Matacotta, Fermo, Edizione Amici della Poesia, 1949 (raccoglie parte dei Taccuini).

Canti Orfici e altri scritti, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1952 (l'edizione raccoglie tutta la produzione campaniana precedente, compresi frammenti pubblicati successivamente in riviste).

Lettere. Carteggio con Sibilla Aleramo, a cura di Niccolo Gallo, prefazione di Mario Luzi, Firenze, Vallecchi, 1958.

Canti Orfici e altri scritti, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, I960.

Taccuinetto faentino, a cura di Domenico De Robertis, prefazione di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1960.

Canti Orfici e altri scritti, Firenze, Vallecchi, 1962.

Canti Orfici e altri scritti, nota biografica a cura di Enricoi Falqui, nota critica e commento di Silvio Ramat, Firenze, Vallecchi, 1966 (prima edizione economica).

Canti Orfici e altri scritti, introduzione di Carlo Bo, con cronologia della vita di Campana e dei suoi tempi, antologia critica e bibliografia a cura dell'editore, Milano, Mondadori, 1972 (seconda edizione economica).

Fascicolo Marradese Inedito, a cura di Federico Ravagli, Firenze, Giunti, 1972.

Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1973 (raccoglie tutti i testi precedenti e le note critiche di Giuseppe De Robertis, Mario Luzi e Silvio Ramat).

La principale traduzione dell'opera di Campana è quella antologica di J. L. Salomon (Orfic Songs, New York, 1968) che ha modificato, nella scelta, l'ordine originario delle sezioni e delle liriche.

 

SCRITTI SU DINO CAMPANA 

1. Dal corso tormentato delle vicende biografiche di Campana non è difficile intuire l'inevitabilità del nascere e del tramandarsi, nella critica, di un « mito Campana », nel quale il poeta è contemplato nella luce di infelice di genio e di nomade visitato dal raptus dionisiaco. La prima recensione dedicata, in ordine di tempo, al poeta, quella di G. De Robertis su «La Voce» del 31 dicembre 1914, non sembra per la verità introdurre né avallare questo mito, articolata com'è su un Campana in nuce, carducciamente sano e antidecadente, con un canto fatto di «armonie semplici» e di «note larghe»; ma appena l'anno dopo quella di G. Boine (in «Riviera Ligure», agosto 1915), dopo sarcastici elogi ad illustri psichiatri, si esalta ed esalta: «È qui infatti una poesia allucinata non sai di che fatta, che se ti ci chiudi dentro entri in un'atmosfera d'ansia, sei a balzi via trascinato... chissà dove per disperazioni d'irrealtà» — e conclude il suo Te Deum per l'autenticità ed aletterarietà della pazzia di Campana intro-ducendo il concetto, ambiguamente centrale nella critica successiva, del viaggio come «spirituale categoria di perdizione e di disradicamento»: il mito si è creato.

Cominciano, nello stesso 1915, gli interventi critici di E. Cecchi (ne «La Tribuna», 13 febbraio 1915; ibidem, 21 maggio 1916; ne «L'Italia letteraria», 17 giugno 1928; ne «II nuovo corriere», 28 dicembre 1950) di tutt'altra temperie stilistica e psicologica, ma sostanzialmente affini come giudizio sull'uomo e sul poeta Campana. Dopo alcuni anni privi di interventi di rilievo, si giunge alla celebre prefazione del Binazzi alla seconda edizione accresciuta dei Canti Orfici (Firenze, Vallecchi, 1928); nella quale è attribuita al poeta appunto la qualifica di «infelice di genio» (al che Campana, già da lungo tempo internato a Castel Pulci, ma non privo di lucidità, replicò: «Io no, signore, non sono infelice») e l'altra definizione di «meteora dalle miriadi di colori sotto i cicli alquanto grigi del futurismo prebellico».

Le uniche conferme date dal poeta sono quelle sul suo nomadismo, le sue stramberie, i vari mestieri affrontati nei vagabondaggi, là sua follia («Sissignore, divenni pazzo completamente») la prigione, il manicomio e le frequenti liti con letterati, precisando che erano specialmente i futuristi a irritarlo («li trovavo vuoti... avevo della nevrastenia forte»); ma si oppone alle esagerazioni di epiteti come «anarcoide e imperialista» («non vanno d'accordo») al paragone con Shelley sulla base di una sua presunta passione per la chimica (che afferma di aver scelto per errore su consiglio di uno zio) a quello con Verlaine per la supposta somiglianzà fisica, ed alla qualifica di « poeta grandissimo» (« sono esagerazioni») la cui «angoscia non ha limiti» («io vivo tranquillo, sono frasi giornalistiche») chiuso nel «tragico asilo» di Castel Pulci («No. Macché. È un luogo tranquillo dove si sta benissimo»).

Parole che E. Falqui, più sobrio interprete-editore di Campana — e il cui primo intervento critico, in Scrittori nuovi, Lanciano, Carabba, 1930, è di poco posteriore a quello del Binazzi — definisce «non si sa se più dure o più sagge» verso se stesso; «nel suo desiderio d'isolamento e di silenzio, non conosceva soste né mezzi termini», aggiunge nella Nota al testo della terza edizione degli Orfici (Firenze, Vallecchi, 1941; poi confluita in Per una cronistoria dei Canti Orfici, Firenze, Vallecchi, I960). Ma la critica prosegue in maggioranza l'elaborazione del mito Campana con immedesimazione tanto coerente da rasentare la compassione per la sorte del «povero Dino». L'appellativo è di S. Solmi, che nel suo articolo dello stesso 1928' (« I Canti Orfici, ne «La Fiera Letteraria», 28 agosto; ora in Scrittori negli anni, Milano, II Saggiatore, 1963) vede il poeta «desolato volgersi, sulle soglie estreme della pazzia, a un ideale mondo di salute e di forza», e sottolinea con insistenza l'affinità fra Rimbaud e Campana, accostando le Illuminations agli Orfici: «La follia di Campana, come l'estasi visionaria di Rimbaud... rappresentano, per questi due ' hors la loi ', il sistema per raggiungere lo stato di grazia... la misteriosa alchimia del verbo, che, smarrendo il suo carico di significati culturali... torna a convertirsi in ebbra musica o in ermetico simbolo».

Smarrimento che non ci pare riscontrabile, in nessuno dei due poeti, se non nella misura in cui può identificarsi col superamento creativo di quegli stessi significati; e anche il successivo accostamento a « un altro glorioso folle, il grande Holderlin» si annulla da sé per bocca dello stesso Solmi, che soggiunge subito; «seppure nella sua opera non ci è dato incontrare né il dramma culturale né l'irrompente ansia religiosa di un Holderlin». Manca fin qui una vera messa a fuoco storica sulla poesia ed umanità campaniana; e i commossi ricordi genovesi di C. Sbarbaro (in Liquidazione, Torino, Ribet, 1928) aggiungono qualcosa solo alla causa di quest'ultima. Il primo intervento successivo di un certo rilievo, quello di A. Gargiulo (Dino Campana, ne «L'Italia letteraria », 26 febbraio 1933; ora in Letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1940) cerca di realizzare tale messa a fuoco condannando l'eccessiva tipizzazione della figura di Campana, operata «da una parte con l'esagerazione della grandezza, dall'altra con la esagerazione dello squilibrio», dall'altra ancora con la semplicistica reazione alle idee di malattia creatrice e di decadentismo, in nome di una sostanziale «sanità» che il piccolo memoriale campaniano di A. Soffici (Dino Campana a Firenze, in Ricordi di vita artistica e letteraria, Firenze, Vallecchi, 1931) e la critica solare di De Robertis (Sulla poesia di Campana, «Quaderni di Poesia», Milano, Mondadori, 1947) avevano rivendicato e rivendicheranno alla poesia di Campana.

Il Gargiulo, nella sua nota sobria, si limita a preferire le prose alle poesie, a scagionarlo da «laidezze lacerbiane», da bozzettismo alla Soffici e da influssi futuristi, rilevando peraltro in lui una inclinazione all'estetismo di marca dannunziana, e rifiutando di scorgere nella sua opera «illuminazioni» o «sintesi fino al mito» di qualsiasi sorta; parla però di una nostalgia di sapore mitico e di «trasfiguratrici 'visioni'». Ecco affiorare il problema di Campana visivo o veggente, che ossessionerà, quando non verrà eluso come inesistente, quasi tutta la critica successiva. Il Gargiulo conclude scindendo il mito poesia-pazzia con una saggia epochè: «nulla ci autorizza, sulla pagina, a deduzioni biografiche circa l'origine di questo difetto: sulla pagina lo faremo risalire... soltanto alla profondità o 'ineffabilità' stessa dell'ispirazione». Il mito del poeta che è tale perché è pazzo mostra già le crepe sulla sua verniciatura romantica.

 

2. Il 1937 è la data che segna la differenziazione e la scissione definitiva fra la critica sostenitrice del Campana orfico, biograficamente ancorato al mistero, e quella contraria, aliena dallo psicologismo e legata alla verifica stilistica: la prima è rappresentata ora da C. Bo, la seconda da G. Contini. Non si può immaginare discordia più assoluta fra due Weltanschauungen critiche: la prima tutta tesa a decifrare la musica dell'inesprimibile (impotenza come arricchimento suggestivo); la seconda appuntata all'articolarsi contraddittorio delle rese stilistiche del poeta, che, in quanto non giungono a definirsi in legge, sono giudicate molto al di sotto del livello di «visioni» o «miti».

Bo insiste infatti, nel suo saggio Dell'infrenabile notte (ne «Il Frontespizio», dicembre 1937; ora in Otto studi, Firenze, Vallecchi, 1940) sulla «natura assolutamente spontanea e primitiva del poeta»: il che significa riconsacrare la sua aletterarietà, che è, secondo Bo, una chiave ben più risolutiva della sua cultura. E precisa: «... lo sostiene la sua sincerità e quella mancanza che gli riconosciamo senza dubbi d'una qualunque abilità letteraria», spiegando «con questa cifra... la distanza che il titolo [degli Orfici] ha con il testo»: la cifra è il messaggio della voce superiore premente in Campana, « che spiega benissimo l'assoluta necessità della parola in lui, una parola estremamente gonfia e mai definita. Il sostantivo «Canti» ha la stessa origine: urgenza irruente di libertà «che tradisce certamente un'altra presenza di origine superiore»; ed ecco ricomparire, riabilitato, il «fauno nel senso aperto della sua avventura dui colori rimbaldini».

Questa è la zona del dover essere di Campana; quanto u quella dell'essere effettivo, Bo la separa dall'altra dichiarando che «proprio al momento di confessarsi s'è taciuto... non sappiamo nulla del suo messaggio»; ed aggiunge, sorprendendo il lettore con tanta improvvisa prudenza: «si può supporre che dietro all'urgenza delle sue gonfie parole ci fosse [il messaggio], in realtà fin dove scrive non pretende nulla di più, non sottintende una chiave e un altro vocabolario»: e qui la precisazione sfiora la contraddizione. Insiste poi sulla «sorda lotta notturna... che è l'estremo limite a cui batte Campana», e in ultimo così definisce la musicalità del poeta: «la sua musica... è la sua aria terrena. Non ha altra soluzione di vita»; ed assegna alle ripetizioni il compito di «impedire il punto morto della melodia, la sospensione che minaccia un Chopin». I massimi risultati di Campana sono individuati da Bo rispettivamente nel Viaggio a Montevideo per la poesia e in Piazza Sarzano per la prosa, dove «gli oggetti sono in una condizione eterna». Dopo di ciò si comprende come il Campana della famosa quarta strofa di Genova per Bo sia il «Campana che non riesce più a parlare, che sente sfaldarsi le parole in un'ansia maggiore, in una ricerca sconosciuta e tremenda», il Campana per cui « s'avvicina l'ora della morte totale dell'io», quasi travolto ormai dalla «sua infrenabile notte».

Al contrario, il Contini (Dino Campana, in «Letteratura», ottobre 1937; ora in Esercizi di lettura, Firenze, Le Monnier, 1947) dichiara fin da principio: «Campana non è un veggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa», e spiega: «... s'intende qui [per visivo] un temperamento così esclusivo da assorbire e fondere in quella categoria d'impressioni ogni altra»; e cita le vive descrizioni di Bologna, di Faenza, delle Alpi e della Verna. Per Contini è «la riflessione sullo spettacolo, singolarmente viva in Campana» a formare «un'aura di stupore, quasi di mistero»: questa è la via per cui «il visivo Campana, fin qui nel giusto, giunge a credersi un veggente» e ad attribuire «un significato solido di simbolo a quello che è semplice luogo di evocazione». Anche la «brevità delle sue notazioni... che sembrerebbe stare a prova del carattere visionario di Campana» consegue semplicemente «a quella particolare intensità e concentrazione dello spettacolo, il quale è un'effettiva rievocazione di viaggiatore», al contrario che nel Rimbaud delle Illuminations.

Il Contini aggiunge poi che «come non è un visionario, così Campana non è un autentico frammentista», e che si salva rompendo il frammento «con un ricorso a un nesso lirico più intimo; ma quando non riesce a dar vita a una «visione asciutta ed estremamente chiara», Campana rivela le sue pecche: «egli è rimasto ingannato dalle sue doti di 'rapidità', e le ha introdotte, ancora primitive, in un complesso invalido», nel suo «tentativo di captare l'ideale, magari attraverso l'assurdità verbale». La conclusione giunge quasi a giustificare il mito Campana in nome — ancora una volta — dell'incompiutezza della sua poesia: «Se ci si chiede oggi che cosa resta di Campana, l'istanza più valida rimane quella della sua 'fede'», cioè il messaggio di libertà che emanava da lui: «... s'intese la libertà di Campana, non le leggi della sua lirica, ch'egli stesso non riuscì a formulare in uno stile».

Del 1938 sono un excursus di testimonianze «dal vivo» della Cecchi Pieraccini (Apparizioni di Campana, in «Omnibus», 19 febbraio 1938) ed il libro di C. Pariani (Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze, Vallecchi, 1938), di ambigua ma non eliminabile rilevanza biografico-psicologica; il resoconto dei colloqui del medico con Campana comprende infatti le spiegazioni che il poeta stesso forniva via via di passi e motivi delle sue poesie; anche se tali resoconti sono inframmezzati a giudizi moralistici (ad es. sugli «amori assurdi e pugnaci » del paziente-poeta) o peregrini (ad es. sull'«originaria indole aspra e sopraffattrice» di Rimbaud, da cui Campana si distingue perché, «nonostante abitudini nuove e randagie, ebbe della poesia un concetto severo; non si diede a bagordi e a droghe deleterie per liberare le forze del genio»). È qui che incontriamo le toccanti dichiarazioni di impotenza e i riconoscimenti della propria pazzia da parte di Campana, come pure i suoi delirii di influssi a distanza per mezzo del magnetismo e della suggestione telepatica; ed è qui che Campana dichiara di aver voluto creare «una poesia europea musicale colorita» e di aver recato «il senso dei colori, che prima non c'era, nella poesia italiana»; o che rievoca i dissensi coi futuristi o la scelta sbagliata della chimica, fra un commento e l'altro del medico-biografo. Nel 1942 appare l'importante articolo di E. Montale (Sulla poesia di Campana, ne «L'Italia che scrive», ottobre) che segna forse il tentativo finora più riuscito e personale di conciliazione sintetica fra le due correnti critiche, l'orfico-veggente e la visiva; Montale individua infatti, in ogni rappresentante delle due tesi, l'elemento comune ai sostenitori dell'altra; e, dopo aver rilevato le componenti e le suggestioni marinettiane, buzziane, luciniane e dannunziane del Quaderno, allora da poco ritrovato, sintetizza così la posizione di Campana: « Riportò per conto suo, nell'arte e nella vita, un fatto di stile a un fatto di coscienza... Uno dei fascini della poesia di Campana è dato certo dall'oscurità, tutt'altro che intenzionale che la malattia del poeta protesse e favorì », rilevando la differenza fra il clima del «momento lirico» ungarettiano e il clima testimoniale di Campana, nelle cui «oscure intenzioni» è avvertibile «una demiurgia, una ritualità di sollecitatore della poesia che forse mai avrebbero potuto appagarsi sul piano della lirica pura».

Segue il celebre giudizio: «È una poesia in fuga, la sua, che si disfa sempre sul punto di concludere: imprevedibili, a dir poco, ne sarebbero stati gli sviluppi. Perché l'idea di una sua arte successiva..., di un Campana posteriore e diverso, ha qualcosa d'impensabile...». La sintesi fra le due posizioni critiche si fa evidente nella ricostruzione dell'iter lirico di Campana, che «dalle poesie più lacerbiane... passando vicino all'esperienza ritmica palazzeschiana... voleva giungere a una completa dissoluzione coloristico-musicale del discorso poetico... esperimentava la sua poesia come atto indifferenziato di natura estetica e insieme volontaristica, morale». E dialetticamente aggiunge: «Ma è poco... perché si possa cercarvi qualcosa come un 'pensiero' di Campana... Poco o nulla seppe probabilmente di George, e il Rilke orfico è posteriore al suo libro; della Grecia di Holderlin ebbe forse qualche notizia, di Nietzsche una conoscenza sicura e spesso ossessiva »; e riepiloga, concludendo con equanime umanità: «È vero: il suo messaggio di voyant può lasciarci increduli, cosi indefinito com'è... un lirico in senso esclusivo... egli non fu. Scarso è in lui il senso del limite e dell'ostacolo; fu conteso, visitato da troppe possibilità astratte... Se non ripugnasse ridurre a brandelli un'anima che tese a un'espressione totale... noi ci sentiremmo di ridurre l'opera già cosi breve di Campana a poche pagine incorruttibili... In lui nulla fu di mediocre; i suoi stessi errori noi non li chiameremo errori, ma inevitabili urti contro gli spigoli che lo attesero ad ogni passo... I veggenti, anche se per avventura visivi... sono irrimediabilmente, su questa terra, gli esseri più sprovveduti, più ciechi ».

Nello stesso 1942 appare il libro di ricordi di F. Ravagli (Dino Campana e i goliardi del suo tempo, Firenze, Marzocco) dedicato agli anni del soggiorno di Campana fra i goliardi bolognesi (1911-1914); riporta testimonianze sul carattere, le abitudini, i discorsi e gli umori del poeta, unendovi un giudizio idealistico-elogiativo della sua cultura ed uno apollineo della sua poesia, anche se depreca la «leggenda Campana». Dello stesso tipo i ricordi di C. Carrà (Le stanzette di Via Vivaio, ne La mia vita, Milano, Rizzoli, 1945) ricchi però di testimonianze epistolari fino allora inedite.

Nel 1947 compaiono la stroncatura di F. Longobardi (Dino Campana, in «Belfagor», gennaio) che accusa Campana di «maledettismo di maniera» e la sua poesia di essere un «compromesso d'una risoluzione melodica»; e il saggio di G. De Robertis, che già abbiamo citato e che oscilla, fra fini sfumature stilistiche, dal Campana visionario a quello visivo; il primo caso segnerebbe la riuscita piena, l'innalzamento, il secondo la distrazione dalla visione, la divagazione; la sintesi è raggiunta attraverso la memoria creatrice, che placa il titanismo e il «balbettio frenetico».

Ancor più sfuggente è il breve saggio, pur stilisticamente denso di fascino, di E. Cecchi (Dino Campana, ne « L'Europeo », 24 maggio 1952; ora in Di giorno in giorno, Milano, Garzanti, 1954); il critico si limita infatti a ribadire, per quel che riguarda la figura del poeta, l'immagine sofficiana di un Campana faunesco («un fauno insaccato in quei miseri panni di fustagno, o un altro essere così, tra divino e ferino») e quella aulico-berensoniana di « italiano dello stipite di Giotto, di Masaccio e l'Andrea del Castagno»; e, per quel che riguarda la poesia, a lumeggiare il suo «esempio di poesia testimoniata davvero col sangue» 120 che pure «non gli precludeva l'ispirazione, e in parte il cammino, verso una forma classica della vita e dell'arte» (è chiara l'eco della «scrittura dorata, classicheggiante» di De Robertis).

Il saggio di A. Parronchi (Genova e il 'senso dei colori' nella poesia di Campana, in «Paragone», dicembre 1953; ora in Artisti toscani del primo '900, Firenze, Sansoni, 1958) è invece una suggestiva indagine psicologico-coloristica del tessuto lirico e del substrato culturale di Genova e di Arabesco-Olimpia, che egli giudica tra le cose più riuscite di Campana alla luce di una considerazione nettamente opposta a quella della critica precedente, e cioè che «nella poesia di Campana, il senso di vertigine vien dato quasi più da un indugiare che da un correre delle parole... una scansione lenta... nella quale contano gli indugi ancora più dei suoni». Una considerazione analoga è svolta per la prosa («le parole, cariche di colore e di musica, liricamente inarcate... peccano piuttosto di lentezza che di fretta») e verificata con un'analisi degli Orfici che respinge la tesi della pazzia e del balbettio come causa della frantumazione del senso logico; il Parronchi nota poi come, a ribadire la sua sostanziale distanza dal futurismo, Campana «non approfitti di una soluzione tipografica che agevoli questi suoi tentativi di scomposizione» e conservi l'armonia metrica dell'endecasillabo. La contemporanea monografia del Bonalumi (Cultura e poesia di Campana, Firenze, Vallecchi, 1953) torna, dopo un excursus delle posizioni critiche precedenti, a proporre un Campana visivo, negando validità all'«assoluto» e all'«orfismo» del poeta, che resta una pura intenzione di origine primitivistico-romantica, perché «la 'fede' di veggente non è altro che la voce di chi più non vede ». Ritorna la tesi visionaria del balbettio, ma al negativo, e il fallimento delle velleità del poeta è dichiarato senza litoti. Nei suoi due articoli M. Costanzo (ne «La Fiera letteraria», 14 giugno 1953; in «Stagione», 1954; ambedue ora in Studi crìtici, Roma, Bardi, 1955) riprende invece il problema della cultura filosofica di Campana, vista nello scorcio del dilemma «ulissismo o orfismo?», rimasto poi irrisolto dal critico, ed incanalatesi nell'altra querelle di una confluenza di una linea orfica e di una simbolista negli Orfici; mentre alle testimonianze e ai contributi biografici si aggiunge l'inchiesta svolta a Marradi e a Castel Pulci da S. Zavoli tra familiari, conoscenti o concittadini del poeta (Campana Oriani Fanzini Serra. Testimonianze raccolte in Romagna, Bologna, Cappelli, 1959). Nel 1955 esce la monografia di G. Gerola (Dino Campana, Firenze, Sansoni) centrata soprattutto sul profilo biografico del poeta, accuratamente ricostruito, ma non priva di interesse anche dal punto di vista psicologico, specialmente per un tentativo di inquadramento del problema degli scarsi interessi sociali di Campana, fatti risalire ad una adolescenziale immaturità di tipo irrazionalistico-egocentrico. Riguardo al dilemma visività-veggenza, il Gerola situa Campana in una posizione intermedia, e ribadisce il valore di simboli, distinti dai Leitmotive wagneriani o leopardiani, dei temi e delle figure ricorrenti negli Orfici; mentre G. F. Vene (La parentesi futurista, in Letteratura e capitalismo in Italia dal 700 a oggi, Milano, Sugar, 1963) esamina la posizione ambigua di Campana rispetto ai miti di potenza della società paelotecnologica.

 

3. Il saggio di P. Bigongiari, del 1960 (in Poesia italiana del Novecento, Firenze, Vallecchi), è articolato in due parti: La congiuntura Carducci-Campana e La materia plastica di Dina Campana (anche W. Mauro aveva intitolato Carducci e Campana la sua breve analisi tematica [in Leopardi e la luna, Roma, Canicci, 1959]). Nella prima parte il critico approfondisce l'analisi delle rispondenze già in parte (rilevate dal De Robertis; poi abbozza un profilo dell'orfismo novecentesco, della «restituzione orfica delle proprie energie incontrollate al farsi dell'universo», in cui Campana rimane coinvolto «in un senso sacrificale e misterico:... La sua testimonianza si risolve, per immedesimazione, letteralmente in martyría». Sul piano stilistico è posto l'accento sul «reimpasto totale di tutte le possibilità espressive», che conduce ad un superamento quasi espressionistico di ogni ordine razionale e della stessa cosmologia simbolista.

Bigongiari proclama perciò inesistente l'alternativa tra veggente e visivo, in quanto riassorbe il secondo termine (la realtà) nel primo (il disegno orfico del mondo, la sua perpetua circolarità): è la «memoria prenatale» al di fuori della storia, vista nella prospettiva mallarmeana di «explication orphique de la terre», che, fallendo il suo scopo, conduce il poeta ad una «nausea d'infinito» di tipo esistenzialista-novecentesco. Campana assurge cosi a coscienza emblematica della crisi di passaggio dall'Otto al Novecento, che «si trova a fronteggiare insieme 'sanità' e 'malattia', condanna e riscatto... Carducci e Ungaretti».

Astraendo dal riduttivismo un po' astioso — e cronogicamente antecedente — del giudizio di Papini (II poeta pazzo, in Autoritratti e ritratti, Milano, Mondadori, 1962) si può notare, a partire dall'inizio dell'ultimo decennio, un superamento, da parte della critica, delle posizioni continiane o di derivazione continiana, e un tentativo di inquadramento storico del « fenomeno Campana » nell'arco filosofico, cronologico e psicologico del simbolismo, decadentismo, nietzschianesimo e orfismo propri dell'Europa del primo Novecento; in particolare, acquista sempre maggior rilevanza il peso della componente dionisiaco-nietzschiana. Su di essa è infatti centrato il corposo studio di N. Bonifazi (Dino Campana, Roma, Ed. dell'Ateneo, 1964). Per il Bonifazi sono illegittime tutte le etichette (in particolare quella di «visivo») apposte a Campana per salvarlo dal decadentismo e dal misticismo irrazionalistico, poiché egli si è impegnato a «dare un'idea, anzi un ricordo dell'esistenza», ed ha fondato, con una «poesia metafisica...l'unica possibile realtà dell'illusione e della fede», la «consacrazione all'eterno ritorno». Ma la poesia campaniana, lungi dall'essere dispersa, è «organizzata intorno a un'ontologia» tesa a redimere l'incubo della realtà nel ritmo della natura, della morte-rinascita nietzschiana. Il Nietzsche di Campana non è quello dannunziano, razzista e fautore della volontà di potenza, ma quello postromantico della Nascita della tragedia, dal quale deriva anche, in ultima analisi, l'orfismo del poeta, che è insieme «ideologia e religione, fede e letteratura»; su questa base il Bonifazi sviluppa tutta una serie di corrispondenze fra Campana e i protagonisti del romanticismo e del decadentismo (più o meno misteriosofico): Schuré, Nerval, Novalis, Rimbaud, Verlaine, Whitman, Verhaeren, ed accentua il tema, centrale in tutti, del ciclo partenza^viaggio-ritorno, dispersione-unificazione, viaggio-ricordo. Nega però la presenza, in Campana, di un qualsiasi «dérèglement» rimbaudiano, in quanto contrastante con la sua tesi di un Campana quasi trasumato, asceticamente intento alla «consacrazione di forme intellettuali» come la memoria e la fantasia. Sotto il segno dell'iter ciclico prima ricordato sono esaminati i Canti Orfici, come progressione da una «serie nera della sensibilità» a un «impressionismo metafisico», fino alla liberazione dell'«ultimo ritorno»; dove, logicamente, il balbettio non è indice di follia né di dramma, bensì dell'approssimarsi della grazia, di «ansia d'estasi». Le tesi del Bonifazi rappresentano certo un caso limite di sincretismo fra estetica, filosofia! e critica letteraria, e come tali occupano un posto a parte, non discutibile né trascurabile, ma nemmeno limpidamente risolutivo, nella storia dell'esegesi campaniana.

Con maggiore equilibrio sono articolati il saggio di G. Pozzi (Dino Campana, ne La poesìa italiana del '900, Torino, Einaudi, 1965) centrato su un esame stilistico-linguistico delle fonti e delle corrispondenze otto-novecentesche di Campana, da Carducci all'ermetismo (a cui lo legherebbe la scelta comune del «canto puro»); e soprattutto la monografia di C. Galimberti (Dino Campana, Milano, Mursia, 1967), imperniata sul rapporto fra l'avventura umana, quella poetica e le influenze culturali del mondo campaniano. Questa linea di sviluppo è già accennata nella premessa, che comprende anche un rapido excursus biografico ed un accenno ai nuclei della vita interiore del poeta, cioè i temi «del viaggio e della follia», «dell'amore come momento di vita sociale», e «della poesia come immediata espressione di vita». Il primo capitolo (Nel clima dannunziano) prende in esame il primo tema, accostandolo alle suggesioni dantesche accolte da Campana nella concezione del suo libro, che si articola appunto come «poesia di movimento» plasmata secondo il ritmo di un viaggio fisico-psicologico; lo stesso capitolo analizza le influenze dannunziane, sempre in relazione ni i cimi del viaggio — influenze che, rivissute e personalizzate dalla poetica campaniana, non hanno più ragione di essere né sminuite né sopravvalutate dalla critica. Riguardo al secondo tema, il Galimberti rileva giustamente che Campana, a differenza di D'Annunzio, «si tuffa inerme nel flusso dell'eros vivendone fino in fondo la elementare dialettica di impulso e annullamento», poiché parte « da una interpretazione letterale... dell'equazione vita-poesia... che D'Annunzio aveva abilissimamente sublimato, anche proprio nel senso freudiano del termine».

Nel secondo capitolo (Consensi e contrasti coi gruppi culturali) Galimberti afferma che ben difficilmente tali gruppi possono aver influito sulla problematica intcriore del poeta, e tanto meno avergli indicato una soluzione, quando, «nello sforzo di una sintesi fra Kultur e civiltà latina, fra tradizione e democrazia... si arrestò disperato davanti alla catastrofe» che la guerra mondiale rappresentò per tali sforzi, anche in senso strettamente politico; giustamente è poi distinto in Campana «il mito, presentato come tale e in effetto kitsch» dalle «immagini elementari che... serbano invece un'eco di conoscenza originaria » (una delle possibili indicazioni per superare la formula montaliana degli «abbozzi di mito»). Nel terzo capitolo (Suggestioni ottocentesche) sono esaminate le influenze di scrittori come Nerval, Schuré, Mereskowskij, Péladan (ossia i rappresentanti dell'orfismo estetico e letterario tardo-ottoeentesco) o come il Wagner simbolista (filtrato attraverso Poe, la «Révue Wagnerienne» e D'Annunzio); e il capitolo seguente (Poesia in fuga) reinterpreta la definizione montaliana come « fuga dalla tradizione, e, in definitiva, da se stessa » che si rivela nella poesia campaniana via via che questa scopre impossibile «il supremo tentativo di un discorso di sintesi »; riuscendo tuttavia, attraverso questa disintegrazione vertiginosa, a raggiungere una «unità ulteriore», un nuovo incipit fondato sull'« analogia universale». La Conclusione interpreta infine la follia del poeta come sbocco inevitabile di un'esperienza iniziatico-dionisiaca, condotta senza guida «sul taglientissimo filo della lama che divide la contemplazione mistica dalla follia»; (per cui Campana non potè, e non volle, salvarsi nella vita, ma solo nella poesia (resta all'analisi da verificare la dimensione e la natura, nonché la misura conoscitiva, di questa «scelta» dell'arte come vita).

Infine, nella Introduzione (1972) alla penultima edizione degli Orfici, Carlo Bo ribadisce la propria posizione critica, che vede nella « voce » di Campana «un fatto irripetibile di vocazione e di conquista immediata», una poesia «nata per accidente» ed «esclusivamente concentrata nell'atto della vocazione», per cui «chi legge non è più raggiunto dal bisogno di verificare» i risultati stilistici e i dati comunicativi di una tale «poesia catastrofica», alogica e frammentariamente fantasticata; si riafferma, cioè, la cifra catartica del poeta puro, distrutto dalla (propria vocazione prometeica. E Mario Luzi (in Al di qua e al di là dell'elegia, intervento al Convegno di studi su Dino Campana, tenutosi presso il Gabinetto Vieusseux di Fkenze il 18-19 marzo 1973) sottolinea come la natura degli Orfici sia quella di una «grande metafora della onnipresenza umile e solenne della vita» e come la sua istanza di antidogmatismo perenne proponga «la completa integrazione dell'uomo nella vicissitudine del mondo» ossia «la religione dell'avvenimento del mondo in cui tutto è coinvolto», il testimone e il fenomeno testimoniato: un'istanza, quindi, di libertà alternativa all'«egocentrismo frustrato» della coscienza novecentesca post-baudelairiana e post-leopardiana.

 

NOTIZIE BIOGRAFICHE

Dino Campana nacque a Marradi (nella valle del Lamone, presso Faenza) il 20 agosto 1885, da Giovanni, maestro elementare, e da Fanny Luti. Il padre fu sempre affettuoso con lui; la madre, benché se ne dica altrettanto, era una donna nevrotica spesso in preda alla stessa mania di vagabondaggio che sarà propria del figlio, sia pure nella forma meno clamorosa dì una silenziosa protesta nevrotica: spariva, semplicemente, per brevi periodi, per poi fare regolarmente ritorno; il poeta non la senti mai veramente vicina, e nutrì probabilmente nei suoi confronti una forma di intenso odio-amore, che 'sfogava 'in frequenti atti di aggressività.

Dopo aver frequentato il Convitto salesiano di Faenza (1897-98) e il locale Ginnasio-Liceo «Torricelli» (1899-1901) comincia a dar prova di aggressività morbosa in famiglia, secondo quanto riferì il padre al professor Brugia (direttore del manicomio di Imola) già nel 1900; per questi stessi atti, presumibilmente, dopo aver frequentato il liceo «D'Azeglio» di Torino e il collegio «Breglio» di Carmagnola, dove ottiene la licenza, viene incarcerato a Parma per un breve periodo.

Si iscrive, nel 1903, alla Facoltà di Chimica pura di Bologna; l'anno dopo (1904-1905) passa a Chimica farmaceutica e si trasferisce a Firenze, all'Istituto di Studi superiori; al quarto anno torna (1906-7) a Chimica pura. Probabilmente inizia in questo periodo i tentativi letterari, ora perduti, anteriori ai Notturni; ricompare la nevrastenia: a Bologna si fa visitare dal prof. Vitali, acconsentendo alle preghiere del padre; nel settembre di quello stesso anno (1906) viene ricoverato nel manicomio di Imola, «per toglierlo» precisa la cartella clinica «dai gravi pericoli del suo stato impulsivamente irritabile e per la sua vita errabonda che lo potrebbe esporre a gravi pericoli»; ma dopo poco meno di due mesi viene rilasciato su responsabilità paterna, contro il parere medico. Nel 1907 risulta migliorato ad un controllo sanitario di Marradi; nello stesso anno interrompe gli studi di Chimica pura e compie un improvviso viaggio in Francia.

Della primavera-estate successiva (1908) è il viaggio in America latina (Buenos Aires, Bahia Bianca, Montevideo, Rosario, Mendoza, ecc.) che lascerà tracce importanti nei Canti orfici (cfr. Viaggio a Montevideo, Immagini del viaggio e della montagna) per le sue esperienze di « natura vergine »; al ritorno il poeta viene imprigionato a Bruxelles per tre mesi, e poi a S. Gilles, per vagabondaggio, e nel manicomio di Tournay, per le sue stravaganze. L'anno successivo, dopo un ulteriore breve soggiorno in una clinica fio-126 rcntina, si reca a piedi alla Verna attraverso la Falterona. È questo il momento in cui accantona i suoi primi esperimenti poetici, raccolti nel Quaderno, ed inizia — presumibilmente nel 1912 — la stesura dei Canti Orfici; frequenta intanto le lezioni del prof. Galletti a Bologna, e torna ad iscriversi alla Facoltà bolognese di Chimica pura. L'8 dicembre 1912 pubblica nel «Papiro», foglio goliardico bolognese, La Chimera, Le cafard e Dualismo; nel febbraio pubblica sul «Goliardo», altro foglio universitario bolognese, Torre rossa - Scorcio, prima stesura degli otto capitoli iniziali de La Notte; a Genova frequenta le lezioni di chimica, poi si trasferisce a La Spezia e compie un viaggio in Sardegna, che lascerà anch'esso tracce negli Orfici (cfr. Prosa in poesia, Davanti alle cose...).

Ultima la composizione del libro e nel dicembre 1913 va a Firenze, presentandolo per un giudizio a Papini e a Soffici, allora direttori di «Lacerba»; dovrà poi 'riscrivere l'intero testo a memoria, con grandissima usura mentale, 'perché in un trasloco Soffici smarrisce il manoscritto affidategli da Papini (ritrovato dai familiari del primo, nel giugno 1971, e di prossima pubblicazione). Fa la spola fra l'ambiente artistico-letterario fiorentino e quello di Marradi, dove nel giugno 1914 combina con il tipografo locale 'Bruno Ravagli la stampa dei Canti Orfici; nell'estate torna a Firenze e comincia a smerciarlo avventurosamente nei caffè letterari (Giubbe Rosse, Pazskowsky) e nei ritrovi goliardici. Nell'autunno compone il Canto proletario italo-francese, che appare nel foglio goliardico bolognese « II cannone » di novembre. La prima ristampa degli Orfici, ben presto esauriti nell'avara prima edizione, si avrà solo nel 1928 a cura di Bino Binazzi. Nel frattempo, dopo altri viaggi (a Torino, Domodossola e Ginevra, dove lavora come operaio straordinario presso il Comitato delle Società italiane) torna a Marradi, e nel luglio 1915, scoppiata la guerra, spera di potersi arruolare volontario, ma viene riformato all'Ospedale militare, e poi ricoverato nuovamente in clinica.

Rilasciato, soggiorna a Firenze e pubblica Toscanità sulla « Riviera Ligure »; trasferitesi nell'aprile 1916 e nell'estate successiva a Lastra a Signa e nei dintorni (Marina di Pisa, Rifredo di Mugello) conosce e comincia ad amare, ricambiato, Sibilla Aleramo; la passione dura, con alterne vicende, fino alla fine dell'anno seguente (1917); ne resta documento nel volumetto delle Lettere. Viene imprigionato a Novara (cfr. La dolce Lombardia coi suoi giardini) e liberato dalPAleramo; nell'inverno rompe la relazione, e nel gennaio 1918, per le sue condizioni mentali ormai più che precarie, viene mandato in osservazione a Firenze e di lì trasferito all'Ospedale Psichiatrico di Castel Pulci, presso Badia a Settimo, dove alterna periodi di lucidità a ricadute, e vive, per lo più, dimentico della sua poesia; qui muore, dopo un'agonia di sei ore, il 1° marzo 1932, per setticemia acuta contratta improvvisamente scavalcando un filo spinato.

Viene sepolto prima a S. Colombano, poi nella chiesa di Badia.