Bruciate le mie lettere

 

di Franco Matacotta

 

da: Successo, del 11 Gennaio 1959

 

 

Pubblichiamo oggi l’inedita e forse più straziante lettera che Dino Campana, poeta folle, inviò a Sibilla Aleramo nel 1917 prima che le porte del manicomio si chiudessero dietro di lui.

 

Violata, l’anno scorso, con la pubblicazione dell'epistolario d'amore tra Dino Campana e Sibilla Aleramo l'esplicita disposizione di Campana stesso, di bruciare le sue lettere, diviene legittimo, ora, dare alle stampe nella sua interezza questo eccezionale documento.

Stabilirne la data, non è facile. La sola cosa certa è che appartiene al momento più drammatico della storia d'amore tra il folle poeta e l'Aleramo: forse l'inizio del '17. Campana è a Livorno. Siamo nel mese successivo alla famosa "rottura": dopo il lungo incontro dei due amanti nella casetta di Tiara a Fiorenzuola, durante il quale la passione, la tenerezza, la devozione, e uno stato di grazia quasi fanciullesco, si mescolarono in Campana con i più gelosi tormenti, le violenze, nel tentativo disperato di salvarsi. In uno dei suoi accessi più furibondi, Dino aveva picchiato la sua donna. «Folle, si percoteva e mi percoteva, s'è distrutto, e stava per distruggermi. Ma nessuno, nessuno m'ha amata mai con pari impeto, m'ha al par di lui avvolta per una stagione nel velo attraverso il quale tutte le cose eterne vibrano e sorridono... » scriverà più tardi, Sibilla in Amo, dunque sono, rievocando quei giorni.

Sgomenta, lei era fuggita. Leonetta Cecchi, informata di quanto era avvenuto, l'aveva messa in guardia sui rischi che una simile vicenda ormai comportava. Ma di questa storia, tranne i radi barlumi dell'epistolario e quelli, ancor più reticenti, della protagonista, altro non sappiamo. Nè Sibilla, che intorno agli anni 1938-40, dopo aver scritto il D'Annunzio fraterno per la Nuova Antologia, e raccontato nelle più belle pagine del suo Diario la vicenda dell'amore per Giovanni Cena, pensò di completare il disegno di un "trittico" con la rievocazione del suo amore per Campana, ha voluto spezzare finora il suo riserbo.

Da Fiorenzuola l'Aleramo si rifugiò dapprima a Roma, poi in un sito più sicuro, a Capo di Sorrento. Frattanto, Campana era corso a Settignano, per chiedere soccorso alla signorina Astrid-Anhfelt, una giornalista svedese, amica di Sibilla. E unendo il suo nome a quello dell'amica svedese, invia a Sibilla un telegramma. Sibilla riprende il treno, dirigendosi a Firenze, ospite della contessa Castiglioni. Spera forse ancora una volta di poterlo placare. Sogna anzi di potersi ritrovare con lui addirittura a Marradi, per l'imminente Capodanno.

L'inizio del '17, trova Dino a Livorno. E' la città che lo attira e insieme lo respinge. Colà s'era imbarcato anni addietro per la Sardegna. Colà, nell'estate del '16, s'era svolta la vicenda col signor Takeda, una diffamazione, l'insolente risposta di Dino, la sfida al duello, poi fortunatamente composta. Dino vorrebbe fermarsi: nello stesso tempo partire per le Alpi, fisso nella sua idea di lasciare di nuovo, e definitivamente, l’Italia. Dal novembre, infatti, aspetta il rilascio del passaporto, per il quale anche la svedese s'era adoperata. Eppure, proprio in questo periodo le sue ultime resistenze paiono esaurirsi. Anche da questo nuovo incontro, Sibilla esce disperata. Da Livorno lo richiama perfino la madre. Ma Dino è ancora fisso al nord. Nel marzo è a Rubiana, in Piemonte. Poi ricomincia la serie ininterrotta di spostamenti, ritorni, partenze. « Sono troppo stanco e ammalato… Perdonami se non voglio essere più poeta... ». In maggio, lo ritroviamo a Firenze. In giugno, risale a Rubiana. L’8 agosto è a Marradi: dove « le vergini foreste » sembrano riaccendergli una estrema Illusione di ripresa e di giovinezza.

Ma ai primi di settembre, a Novara, viene arrestato. Sibilla accorsa al richiamo, riesce a trarlo fuori di prigione. «Uscii un giorno da un carcere, dove tra Ie sbarre un viso sciagurato m’invocava… Più tremenda la mia solitudine mi parve di quella stessa prigione dove si gemeva e dove almeno qualche carceriere assisteva… Alle mie spalle stava la mole della fortezza... Il fratello condannato si raccoglieva in un’irreale soavità, come ancora baciandomi le mani traverso le sbarre…» così ricorderà Sibilla in una pagina del suo romanzo II passaggio. Poi ancora di nuovo Dino è a Firenze. Poi a Marradi nella sua casa paterna per l’ultima volta a contatto con il mondo della sua infanzia. L’infanzia si è allontanata. Gli anni sono corsi, tumultuosi, una ridda d’esperienze. La sua eterna infanzia è ferma, come l'ha immobilizzata in questo frammento inedito che risale al 1° gennaio 1917: « L'infanzia nasce da un ritorno di se stessi giacché in uno strano eco s’immobilizza e s'allontana dai giorni; anzi nasce proprio da una cosa "specchiata" con le ridenti spighe gialle e con i campanili conoscenza eterna (di poco tempo) e sempre a sapersi da un tempo infinite come a stare sempre sulla riva di un giorno ». Questo frammento è il messaggio finale della sua poesia: quella « conoscenza eterna » di cui Dino ha posseduto tutti i segreti.

La sua vita si arresta qui, su questa illuminazione. E’ ormai solo. « Mi lasci qua nelle mani dei cani», scrive a Sibilla il 27 settembre. Alla fine dello stesso anno viene rinchiuso in manicomio.