L'ultimo «maledetto»: Dino Campana
da: Giulio Ferroni, Il Novecento, Einaudi Scuola, 1991
Disperata figura Del tutto atipica e solitaria fu l'esperienza di DINO CAMPANA, inauguratore mitiia della nuova lirica del Novecento e insieme ultima, disperata incarnazione della figura ottocentesca del «poeta maledetto ». Intorno alla sua biografia e alla sua poesia è nato del resto un vero e proprio mito, che ha avuto particolare risonanza in anni a noi piú vicini: un mito che ripropone, anche se in modi diversi e originali, quello di Rimbaud, il poeta «maledetto» per eccellenza, «scoperto» in Italia proprio all'inizio del secolo e che lo stesso Campana sentiva vicino. Nato a Marradi (Firenze), presso Faenza, il 20 agosto 1885 da un insegnante elementare, Dino Campana fu preda già dall'adolescenza di violenti turbamenti psichici; mentre studiava chimica a Bologna e a Firenze, compì vari viaggi e vagabondaggi in Italia e all'estero (raggiungendo l'Ucraina e la Francia, e spingendosi fino in Argentina e in Uruguay).
La Riviera, ideata da Mario Novaro, la migliore rivista di letteratura d'inizio secolo in Italia. Serviva da accompagnamento alle latte d'olio Sasso, indistruttibili, che venivano spedite in tutto il mondoin contenitori appositamente collaudati. Aveva la buona abitudine di retribuire i collaboratori. Una manna dal cielo per tanti, che si affacciavano al mondo della notorietà, con scarse risorse. Papini, che fu assiduo collaboratore, era pagato in natura, con stagne d'olio a discrezione dell'amico Mario. Per Dino fu il primo riconoscimento importante. Giovanni Boine gli recensì positivamente i Canti Orfici e fu il primo segnale in un vuoto che avrebbe spaventato chiunque. Ma non Dino, che continuò a scrivere poesia e a mandare a Novaro, e a Geribò le sue movimentete missive... Questa che pubblico, solo in parte, comprese due pagine iniziali di pubblicità, è la numero 51 del Marzo 1916. Da brividi...
Paolo Pianigiani
Da sinistra: personaggio non identificato, don Francesco Bosi, avv. Giacomo Mazzotti, Lamberto Caffarelli, Diego Babini, Dino Campana, don Stefano Bosi. Foto scattata da Achille Cattani il 3 gennaio 1912, presso la cascata dell'Acquacheta.
Dall'album dell'avvocato Giacomo Mazzotti. Proprietà famiglia Baùsi, Firenze.
ORFEO E IL FOTOGRAFO
(Foto perdute e ritrovate di Dino Campana)
di Stefano Drei
La cascata che il torrente Acquacheta forma presso San Benedetto in Alpe, non lontano da Marradi, deve la sua fama ad una citazione dantesca. Il fragore che l’acqua produce percorrendo quasi in un sol balzo un dislivello di settanta metri viene dal Poeta paragonato a quello del Flegetonte, fra il settimo e l’ottavo cerchio dell’Inferno.
"Il più lungo giorno" di Dino Campana
Ma qual è il rapporto fra il manoscritto del Il più lungo giorno e i Canti Orfici?
di Paolo Pianigiani
Quando l’ho visto, seminascosto fra i libri di un venditore ambulante, davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, non volevo crederci... Il più lungo giorno... Dino Campana. Subito l’ho sfogliato, ho riconosciuto la scrittura, le parole, e la musica delle parole. Era proprio quella una copia del testo famosissimo, scomparso e riapparso a distanza di sessanta anni. A pagina 40 ecco apparire il testo de La Chimera, forse la poesia più famosa.
Una copia anastatica, naturalmente, la numero 800, una delle 1000 stampate dalla casa editrice fiorentina Vallecchi, del "numero zero" dei Canti Orfici, il mitico manoscritto che Dino Campana aveva consegnato a Papini e a Soffici, per averne un parere e per sperare, forse, in una pubblicazione.
Primo Conti nel 1913
Intervista a Primo Conti su Dino Campana inclusa con alcune varianti nel volume P. Conti,La Gola del merlo, Memorie provocate da G. Cacho Millet, Sansoni, Firenze 1983. |
Pubblicato in: Dino Campana Fuorilegge, Edizioni Novecento 1985di Gabriel Cacho Millet |
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PRIMO CONTI - Ricordo Campana come una specie di spirito vagante sulla terra, una specie d'arcangelo che disse quello che doveva dire e poi sparì. Sembrava uno di quei girovaghi nordici, fisicamente splendido, scalzo, col bastone sulla spalla e appeso al bastone un sacchetto di tela dove teneva i libri, le camice e un paio di scarpe che spesso si infilava per la strada.
Qualche volta è venuto di sorpresa a trovarmi nello studio perché amava il senso popolaresco dei miei collages e non è a caso che Cesare Vivaldi e Luciano De Maria abbiano rilevato nei miei dipinti e nelle mie poesie di allora un segreto legame coi Canti Orfici.
Enrico Falqui
IL MANOSCRITTO RITROVATO
Ormai ci si era rassegnati a considerare chiusa per sempre, e nel peggiore dei modi, la storia del manoscritto originario dei Canti orfici. Triste e drammatica, se mai ve ne fu di somigliante presso di noi. All'ingrosso è più o meno risaputa da tutti coloro che s'interessano alle faccende della poesia; e da tutti è stata, fino ad oggi, compianta, tranne in fondo dai due ai quali è giocoforza attribuirne la responsabilità. Consegnato dal Campana a Papini e a Soffici affinché lo aiutassero a pubblicarlo, e da Papini a sua volta trasmesso a Soffici, nell'inverno del 1913, quel manoscritto fu perduto e quanto rovinoso sia stato per Campana lo smarrimento è documentato da lettere e testimonianze innumerevoli. Se volle, a sue spese, stampare i Canti orfici in una tipografia di Marradi nel 1914, dovette ricomporli e ricostruirli a memoria. Con quale sforzo e strazio si lascia immaginare.
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