Belfagor

 

 

RITRATTI CRITICI DI CONTEMPORANEI

DINO CAMPANA

di Fulvio Longobardi

Da Belfagor , Vol. 2, n. 1, 15 gennaio 1947

pp. 68-74

 

(Trascrizione di Andreina Mancini e Paolo Pianigiani)

Son mancante, stracciato, ebben guardate

s’è brutto quello che trasparirà;

il cuore dei poeti è ben talvolta

bello già da sé stesso e voi potreste

ben saperlo se solo voi credeste

o aveste un pochettin d'umanità.

Dino Campana

 

 

La poesia di Dino Campana ha subìto una strana sorte: i Canti Orfici pubblicati nel 1914 suscitarono appena qualche recensione (De Robertis, Cecchi) sui quotidiani, mentre nelle riviste letterarie l'avvenimento fu quasi ignorato. Vi fu l'articolo di Giovanni Boine sulla «Riviera Ligure» ma di notevole nient'altro. Le parole del Boine delineano con agrodolce franchezza l'ambiente da cui erano usciti e venivano a cadere propizi i Canti Orfici:

C’è in giro per l'arte contemporanea un fermento d'esaltazione, un'aria di novità e di anarchia, un tremore di angoscia che cerca sfogo. Ma c'è anche, e assai più, la preoccupazione di metterlo in mostra e di affermare la propria modernità spregiudicata colla rettorica dell'espressione. La ansiosa modernità di certa gente comincia al di fuori e resta al di fuori. C'è infine gente che finge la libertà essendone nell'intimo sprovvista; e poi che è persuasa dell'ovvia verità che la poesia è dei pazzi più pazzi, si finge dunque pazza e lo fa con scioltezza. Ma questo Campana, per lo stesso impaccio del suo parlare, quello che di elementare e ingenuo la cultura ha lasciato in lui, è, seDio vuole, un pazzo sul serio. Epperciò Te Deum.

Per quattordici anni poi fu intorno a Campana un quasi ininterrotto silenzio. Nel 1928, dieci anni dopo l'internamento definitivo del poeta nell'ospedale psichiatrico di Castel Pulci, alla seconda edizione curata dal Binazzi e preceduta da una sua esaltatoria prefazione (a leggerla Campana disse: «è un po' esagerato Bino Binazzi») seguì un assai maggiore accompagnamento di cronache letterarie. Soprattutto in questa seconda fase della fortuna di Campana si vide quello che distrattamente non si era scorto prima: nel poeta di Marradi la probabilità di un Rimbaud italiano: la presentazione di Rimbaud fatta da Soffici agli italiani del 1911, ma più tardivamente diede i suoi frutti. Ancora oggi si ripete lo stesso giudizio1. Quanto poté sulla fama di Campana la sua biografia cosi assiduamente diffusa dagli sproloqui del Binazzi («come il suo grande antenato Torquato Tasso, Dino Campana in una cella di manicomio scrive e scrive: e gli illustri psichiatri che capiscono di poesia sempre infinitamente meno di quello che i poeti capiscono di psichiatria » — nota, l'affermazione è sintomatica — «vietano a critici e ad artisti di esaminare le carte del pazzo sublime») è intuibile. E mentre molti critici soggiacquero alla suggestione, fu una maniera ingenua di reagirvi, di reagire a questo fascino romantico di pazzia quello di certi altri che appigliandosi a certe pagine più solide e solari scrissero di una «classicità» e «antichità» di Campana. Le quali definizioni risultano oggi ad un esame più pacato polemiche e contingenti; polemica è l'estensione di un giudizio che potrebbe — è da discutersi — essere opportuno per momenti sporadici del nostro poeta, ma non può assolutamente essere preso come giudizio complessivo e definitivo.

La terza fase s'inizia nel 1941 con la pubblicazione di settanta inediti a cura di Enrico Falqui. accompagnati da una terza edizione dei Canti Orfici riveduta sulla prima edizione. Questa volta l'eco fu vasta e a tutt'oggi continua. La pubblicazione degli Inediti, la cui data di composizione è quasi sempre anteriore agli Orfici, avendo palesato il criterio di scelta del nostro poeta fra tutti i suoi scritti (inediti in assoluto o pubblicati in riviste e rivistine) per la edizione in volume, può aver veramente aiutato il nostro giudizio; ma, insieme alla scoperta delle diverse stesure, ha illuminato più sulla poetica che sulla poesia, più su quello che Campana cercava che su quello che ottenne e che la sua poesia fu.

Cosi, oltre che dai fatti biografici, un giudizio un po' più meditato è stato impedito dai periodici ritorni di questo poeta di cui ogni tanto ci dimentichiamo e che sempre ci viene ripresentato come una scoperta. Questa terza volta gli applausi dei più tacitarono il dissenso di pochissimi. Di nuovo si parlò di «antichità veneranda», di «Trecento». Soprattutto si tenne a valutare i rapporti che lo legano all'ultimissima poesia italiana di cui fu proclamato presso a poco genitore.

Subito all'inizio dei Canti Orfici la prima prosa, «La Notte» con quell'attacco solenne tanto lodato («Ricordo una città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata....») colpisce pel senso vasto, la immobilità delle figurazioni: favola, mito, ma sono termini che, accettati con supino consenso dalla critica contemporanea, muovono la nostra diffidenza. Un critico: «intorno a questi oggetti isolati, ecco formarsi un'aura di stupore, quasi di mistero». Ciò accade veramente nelle pagine felici di Campana, ma la stessa «Notte» ha moltissimi punti in cui il tono scade e subentra la maniera. A questo proprio, il senso di stupore, di mistero, la lontananza nel tempo, la favola, mira costantemente Campana ed è la sua più scoperta ambizione. Se non che la assunzione totale del dato biografico in questa atmosfera statica è cosa rara e sporadica: solo in questi casi si può parlare di un classicismo di Campana, ma nella misura in cui è classico qualunque poeta distrugga nella espressione la contingenza del proprio sentire: allora la parola di Campana appare greve del carico di tutta la sua storia, dà una compattezza e densità alla pagina da obbligare a una lentissima lettura. Ma ripeto che questi sono rari eventi felici in quanto la « mitizzazione» a cui tende, è assai più spesso che necessità, poetica voglia e ambizione, anche inconsapevole, atteggiamento.

Allora il classicismo è un altro: è la classicità generica e estetizzante che era nell'aria (D'Annunzio), quella che come frutti migliori aveva dato Les Chercheuses de poux di Rimbaud, che darà La jeune parque di Valéry e i vari richiami all'ordine. «Leggevo qua e là — dirà Campana — Carducci mi piace molto ». Del Carducci ha l'icasticità di certe figure e la suntuosità di dubbio gusto. «Non vi pare che un cafonismo molto carducciano possa essere una base solida per i miei giochi di equilibrio ? » E continua : « Pascoli, D'Annunzio». D'Annunzio è il nume sempre presente in ogni suo concepimento poetico, del Pascoli ha certa disperata tenerezza («.... nel silenzio — Stanno le bianche statue a capo i ponti — volte: e le cose già non sono più»), ma soprattutto le oziosità musicali. Nella maggior parte dei casi dunque l'intento difermare le immagini nella intemporalità del mito forza in modo ingrato il discorso poetico, e il dato grezzo traspare dietro la sovrapposizione trasfiguratrice. In realtà trasfigurazione non è, ma solo immersione del dato biografico nella nebulosità, ove si scambia confusione con poesia. Versi «tutti sbagliati. Stranezze. Non ci capisco niente neanch'io ». Certe volte è il tentativo di recitare sé stesso su un tono alto. La suggestione che non riesce a crearsi naturalmente nel giro del periodo viene enunciata direttamente e con una insistenza, una perentorietà che rivelano l'impotenza espressiva.

Così nella Notte annuncia: «e del tempo fu sospeso il corso», dove la collocazione alla fine del discorso, in funzione di clausola, e la stessa disposizione delle parole sono segni della volontà di poesia e perciò tutt'altro che poesia. In questi casi la suggestione poetica invece di sorgere spontanea viene violentemente imposta, non l'uso di un linguaggio vasto, di movenze ieratiche, imperniato su dei termini e un'aggettivazione che costituivano il modulo letterario dell'epoca (ricorrono frequentissime le parole mito, mitico, mistero e le Sfingi, Chimere, l’Eterna Chimera, Ancelle, Ruffiane, sempre con l'iniziale maiuscola. Certe volte sembra di leggere non D'Annunzio, ma Da Verona e Giuseppe Brunati) — termini la cui semplice presenza nel tessuto del discorso, per virtù mnemonica, hanno il potere di richiamare automaticamente l'atmosfera che lo scrittore chiede. E della stessa natura, ugualmente indiretta e di secondo rimbalzo, è la suggestione che nasce dall'immagine esplicitamente atteggiata a figurazione marmorea. «Un'antica e opulenta matrona, dal profilo dì montone, coi capelli neri agilmente attorti sulla testa sculturale barbaramente decorata.. ». Non per niente ricorrono cosi frequenti i richiami a Leonardo, «Il lago leonardesco », la Gioconda («o sorriso — di lontananze ignote» sullo sfondo delle «bianche rocce»), Michelangelo, la Notte di Michelangelo («la regina barbara») e angioli e «trofei di gesso» delle chiese. II richiamo all'opera d'arte, già espressione poetica di una storia e di un mondo, e cioè il richiamo a valori poetici convenuti, èla maniera più facile e meno valida, con cui ci si sostiene quando si sente venir meno la possibilità dell'espressione diretta o personale. Certo, tali continui riferimenti — anche ad opere letterarie — sono imputabili alla cultura approssimativa e ingenua di Campana. Ma il fatto che versi e prose di altri autori siano inseriti proprio quando il tono tesissimo del discorso voleva far credere il poeta posseduto per intero dal demone orfico — dimostra al contrario come egli sia sempre presente a sè stesso, attento all'effetto che ha da produrre. Del resto l'attenzione critica è dimostrata in certi titoli («Sonetto perfido e focoso» ; «Prosa fetida»; «Poesia facile»; «Prosa in poesia» con cui Campana prevede e cautamente si difende in partenza dalle osservazioni più ovvie.

In realtà Campana è l'esempio più tipico del disfacimento romantico, più avanzato ancora dello stesso decadentismo che almeno ha un'ossatura etica e una legge sua propria, a cui è sempre fedele come al nucleo centripeto, mentre qui l'organismo letterario si decompone in un fermento di fantasie e di immagini («una fantasia che avevo» «una fantasia qualunque» «tutte fantasie» che germinano una dall'altra all'infinito, caoticamente, per la mancanza di una remora interna che poteva essere data solo dalla sincerità dell'ispirazione. Il dettame di Rimbaud: «le poète se fait voyant par un long, immense et déraisonné dérèglement de tous les sens» ha qui le deteriori conseguenze. In Rimbaud — malgrado l'asserto — è lucidissimo dominio della materia e addirittura geometria di immagini, mentre qui le immagini crescendo continuamente su sé stesse sono avvolte a spirale, contente di séstesse e senza alcuna intima necessità. Qui c'è soprattutto oziosità e malafede letteraria. Intendiamoci quando parlo di malafede letteraria: sebbene certe frasi dello stesso Campana pronunciate nell'Ospedale di Castel Pulci a commento della propria opera potrebbero autorizzare l'interpretazione più ovvia («Si scrivono per posa tante volte». Vedo malafede letteraria soprattutto quando, per fare un esempio — e lo prendo ancora dalla «Notte»; ma questa ha la doppia prerogativa di essere la composizione prima degli Orfici e di essere la più celebrata — dice : «salivano voci e canti di fanciulle e di lussuria», qui è insincerità, precisamente in quella biforcazione del genitivo.

L'astratto lussuria accoppiato al concretissimo fanciulle, qui suona falso perché senti che in esso il poeta, invece di ben altrimenti approfondire la propria intuizione, trova la via d'uscita verso un effetto gratuito di suggestione, eludendo l'impegno preso. Il gioco degli astratti appare evidente quando si confrontino certe prime stesure degli Inediti con le stesure definitive passate ai Canti Orfici, ove le impressioni vive sono caricate di sensi arcani e vaghi quando non addirittura di incredibili rimbalzi fonici. L'ammirata interrogazione posta da un critico, prima che si conoscessero gli Inediti, («chi sa quale visione rarefatta, dalla sua lucida attitudine di veggente, i suoi occhi vedevano, senza che la chiarezza del poeta potesse in qualche modo racchiuderla nei versi »?1 ) alla lettura dei seguenti versi : « Come nell'ali rosse dei fanali — Bianca e rossa nell'ombra del fanale — Che bianca e lieve tremula salì — Ora di già nel rosso del fanale — era già l'ombra faticosamente — Bianca quando nel rosso del fanale — Bianca lontana faticosamente — L'eco attonita rise un irreale — Riso e che l'eco faticosamente — E bianca e lieve e attonita salì....» oggi che sappiamo che essi non sono che il rilassamento fonico di pochi versi più rigorosi «Pei vichi fondi tra il palpito rosso — Dei fanali.... — Una grazia lombarda in alto sale — Ventoso dolce e querulo salia » — quell'interrogazione oggi appare perlomeno ingenua.

Ma se la dilatazione fantastica e verbale, il simbolismo vago e la musicalità enfatica, sono i fatti che distruggono la massima parte della poesia di Campana, d'altra parte, quando questi mancano, si dichiara l'insufficienza della parola: «Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume dolce e molle solo riempie del suo fremere di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l'acqua, l'elemento stesso.... ».

Su questi presupposti, l'antologia di Campana vien su tanto facile quanto necessaria. Avremo i punti migliori quando il poeta riesce a eludere il falso procedimento impostosi e a riacquistare la libertà dello sguardo che pareva essersi negata. Allora apparirà come la definizione di «poeta notturno» non ad altro valga che a indulgere all'aspetto falso del poeta, al suo « maledettismo» di maniera. E se è cosa abbastanza consueta all'esercizio della critica di dovere cercare la poesia in una determinata produzione letteraria mettendosi contro le intenzioni dell'autore, qui nel caso di Campana è l'unico procedimento legittimo. I momenti migliori di Campana vengono dal ritmo fervido della vita, e allora sono versi luminosi: « Genova in sogno tra il brusio confuso — Genova marinara che fa festa — Sotto la terra orientale — tra le terrazze viridi — Sulla lavagna cinerea...» Certo torna a proposito parlare di impressionismo e si è fatto più volte il nome di Soffici. (Sia detto di passaggio che qualunque analisi esercitata intorno a Campana — e ve ne è sufficiente abbondanza — s’è sempre riempita di nomi di contemporanei, i crepuscolari, Govoni, i futuristi, Palazzeschi, oltre tutti quelli che abbiamo detto; ed è sempre possibile aggiungerne altri, le cui tracce sono a volta talmente lampanti da disarmare ogni appunto critico). Ma degli impressionisti a Campana manca l'immediatezza, quel far centro al primo colpo che è loro prerogativa.

Negli esempi negativi le parole crescono l'una sull'altra — ma anche negli esempi felici, quando si posano necessarie, esse hanno bisogno di girare una labile danza intorno all'oggetto e, pur governate nell'armonia, procedono sempre da una lieve eccitazione fonica: «Ondulava sul passo verginale — Ondulava la chioma musicale — Nello splendore del tiepido sole — Eran tre vergini e una grazia sola — Ondulava sul passo verginale — Crespa e nera la chioma musicale — Eran tre vergini e una grazia sola — E sei piedini in marcia militare », versi toccati davvero dalla grazia, ove la materia è fatta senza più peso, consumata totalmente nella musicalità. E se gli impressionisti vanno avanti «a bottate», c'è sempre in Campana la volontà almeno di una coordinazione, sia pure su una conduzione semplicemente vocale. Spesso il discorso, dopo le innumerevoli dispersioni intermedie, torna donde era partito, con una tendenza alla chiusura, sia pure quella della ripresa alla fine delle immagini iniziali. Anche quando un secondo motivo si sovrappone alla prima ispirazione, il filo della coordinazione è tenuto scoperto. Questo naturalmente non depone a favore di una unità sostanziale della poesia di Campana, ch' anzi codesti accorgimenti compositivi tendenti ad una unità tutta estrinseca accusano proprio la mancanza d'un centro lirico. Lontanissimo è pure dalla gioia visiva degli impressionisti, da quella «furia policroma» che dice in una sua poesia. Le notazioni frammentarie che sono tanta parte della letteratura del primo Novecento, giornali, taccuini, si svolgono sempre in Campana su un registro più discreto, con una più accentuata rispondenza interna che vale a smorzare i colori: «Ho riposato nella limpidezza angelica dell'alta montagna addolcita di toni cupi per la pioggia recente, ingemmata nel cielo coi contorni nitidi e luminosi.... Son sceso per interminabili valli selvose e deserte con improvvisi sfondi di un paesaggio promesso, un castello isolato e lontano: e al fine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castelli sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo: la poesia toscana ancora viva nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo languido nella sera.» E veramente è presente in Campana un motivo più propriamente lirico: «O l'anima vivente delle cose — o poesia deh baciala deh chiudila ».

Ma ci sembra che oltre tale funzione negativa di tenere la poesia su un tono più intimo, un tono più sotto quello della «furia policroma » su cui agisce da remora costante, questo motivo non abbia uno svolgimento autonomo. La ricerca dell'«anima vivente delle cose» è ovviamente di ogni poesia, ma qui assunta la frase e limitata nei termini del linguaggio critico corrente è presa ad indicare in modo particolare quello spasimo dell'essenziale che è il carattere cospicuo della poesia contemporanea. In tal modo la poesia di Campana è stata posta a segnare il confine più lontano del «gusto contemporaneo della lirica» (cosi Luciano Anceschi in quella specie di codice poetico che è l'antologia dei «Lirici nuovi »). Ora a noi sembra che la sistemazione — se proprio di una sistemazione non si poteva fare a meno — era assai più appropriata nei «Poeti d'oggi» di Papini e Pancrazi, e non andava rimossa. Si potranno sì trovare in Campana dei motivi comuni ai «lirici nuovi», ma non saranno mai tali da giustificare una sistemazione accanto ad essi, meno che mai una paternità rispetto a loro.

Quello che manca a Campana sono proprio quei dati fisionomici per cui — sia pure per comodità scolastica — è sempre possibile segnare l'ultima poesia sotto un minimo denominatore comune, quell'«essenzialità», quella «densità» della parola che chiede l'isolamento degli spazi bianchi, insomma gli manca la « purezza»per essere imparentato ai «poeti puri» (usiamo questi termini — non sempre condividendoli — come ci vengono dati dal linguaggio corrente, fidando nel loro valore grosso modo indicativo di situazioni la cui definizione richiederebbe da parte nostra un impegno qui inopportuno). L'intento all'«anima vivente delle cose» in Campana viene disperso continuamente nel profondismo generico, nell'enfasi fantastica, nei vaneggiamenti fonici che bussano alla porta dell'espressione e, questa rimanendo chiusa, si rivoltano su sé stessi. Il problema dell'espressione viene eluso nel compromesso d'una risoluzione melodica. Si guardino quei versi: «Furibondo » degli Inediti. E’ l'impegno più fondo che Campana abbia mai preso. L'amante immerso nell'amplesso ode improvviso nella fantasia, «nella piena fantastica», condotto da un subito richiamo analogico,   «l'appello della morte». L'angoscia è espressa nei primi versi concitata e potente, poi si disperde ore rotundo in una figurazione priva del senso intimo che doveva legarla ai primi versi : « ....Ardendo disperatamente allora — raddoppiai le mie forze a quell'appello — fatidico e ansimando la dimora — varcai del nulla e dell'ebbrezza, fiero — penetrai, nel fervore alta la fronte — impugnando la gola della donna — vittorioso nel mistico maniero — nella mia patria antica del gran nulla».

A queste osservazioni siamo stati portati dall'intento di ristabilire un equilibrio che ci sembra turbato da ragioni estranee alla poesia.

 

Fulvio Longobardi

 

 


 Note

1 L. Nicastro, Il Novecento, Milano, Mondadori, 1940 p.690. «il Rimbaud d’Italia è Dino Campana »     

 

2 G. Ravegnani, Il Novecento letterario italiano. I contemporanei. Prima serie, Bologna,Testa, 1939, p. 294.