Mario Russo: "Ombrello"

 

Ricordo di Dino Campana

 

di Pietro Cimatti

 

da La Fiera Letteraria - XII - n. 11-17 Marzo1957

 

 

Marzo 1932 - marzo 1957: nozze d'argento di Dino Campana con la morte. E nessuna storia lo può ancora (o lo vuole) far capitolo, nessuna storia ancora intende fissarne l'ala che volò in quella mummificante collezione entomologica (farfalle d'oro infilzate allo stilo aguzzo del tempo) che è la storia dei poeti e della poesia.

Si continua a far della cronaca nera: l'occasione Dino Campana non può essere lasciata cadere: troppo poco avventurosa la storia dell'arte nostrana perchè possa permettersi questo lusso: in lui avviene il segreto recupero di secoli di poesia popolati di poeti cortigiani e professori di belle maniere, secoli di penne d'oro e di pergamene preziose, secoli di uomini che fuggivano solo con l'epistolario e qualche passione di donna, di poeti che se ne stavano al caldo.

D'Annunzio apri primo la porta di servizio della musa per farvi entrare reporters, fece suonare la cronaca col tamburo: ma poi, alle somme, non potè essere scusato della beffa che aveva ordito ai professionisti dell'elzeviro e ai cacciatori del mistero: D'Annunzio non aveva una « maledizione » ma Campana sì, e Campana deve portare il peso della leggenda che resta pur sempre obbligatoria attorno alle vite dei poeti.

E' stata la grande irripetibile occasione, la meteora a portata d'occhi di tutti i dilettanti di astronomia. Proprio come folle, anche se non fosse stato quel grande poeta. servi e seguita a servire per quella fame di mito e di Idealità che troppo pochi fra i poeti italiani hanno soddisfatto. E a venticinque anni dalle sue nozze d'argento con la morte la stella seguita ad essere confusa con una meteora. la sua vita con la sua poesia, la sua unicità col fenomeno, il suo mito con la sua realtà. Un poeta esostorico, o meglio metastorico. Ma c'è poi un poeta Dino Campana, si chiedono alcuni molto seriamente?

Qualche notte fa in una riunione d'amici astemi — stretta per quelle giravolte di sentimento che la luna piena produce — si finì col passare in buona volontà i testi antologici della poesia moderna. Finché, nel bel mezzo, ospite veramente notturna, apparve la « Chimera » di Campana, « e la notte mi par bella » (1), La poesia dimessa, l'abito grigio della poesia contemporanea disparve, apparve l'oro accecante dell'aggettivazione campaniana, la sua voce candida e sonora, l'abisso invitante delle sue fulgurazioni, il genio. Si leggeva, ripeto, una antologia. Fu istintivo andare ad attingere il vivo, aprire « Canti Orfici » (il futuro dovrà dire grande ad Enrico Falqui, entomologo appassionato).

Tempra di normanno, fisico di romagnolo (forte come è forte il genio, per razza), occhi diabolicamente nevosi e marini, viso squadrato, istinti di adolescente allucinato dai troppi sogni, giovane verboso gorgogliante di rancori, di sesso, di volontà di potenza, di strafottente timidezza, uomo disgraziato fino a dover finire in un manicomio comune perchè almeno vestiti e minestra gli fossero assicurati: Campana rappresenta un tipo poetico unico, necessario, che fa antologia patologica e biologica a sè, ma fa soprattutto una poesia che mancava, che è sempre mancata e manca, in Italia. Campana è un poeta classico perchè amò la poesia come meta, come chimera, anche se fu romantico come uomo. Il classico dell'amore della perfezione che si apri al romantico e al folle degli istinti: questa la sua modernità.

E nei punti d'equilibrio è scattato il miracolo della fusione tra contenuto e forma, che dopo Leopardi non si era più avuto. Quando un giorno la critica si aprisse finalmente alla volontà di comprendere il fatto poetico, e andasse a considerare la storia letteraria italiana in umiltà ed in amore della « poesia » dovunque offerta, tolti via gli specchietti dei grandi nomi e dei valori extraartistici, si centrerebbe la importanza di riscatto che Campana ha rivestito: riscatto d'una tradizione di poeti linguistici e formalisti, di un vuoto di genialità che è veramente pauroso, o più veramente riscatto di tutta la genialità sprecata sotto il bel sole italiano da poeti che si sono negati alla sincerità per chissà che oscuro desiderio di chiarezza. Ci voleva questo genio assolutamente poco intelligente perchè la poesia italiana uscisse dalla sua « forma intelligente » dal limite cogente del suo classicismo.

Ci voleva questo Campana sbrigliato, figlio illegittimo dell'800 italiano, campana del futuro, finalmente all'erta per avvertire le danze dei mille significati e delle mille possibilità del verbo, i liberi matrimoni dell'ideale, la aperta comunione della ispirazione coi flussi naturali, pronta a seguirli, a farsene impollinare fino alla creazione dei miracoli d'intuizione. Campana dimostrò a chi lo conobbe d'essere un ingenuo, mancante di senso critico nell'azione, deficiente di pensiero nella sistemazione della sua giornata terrena. Bontà sua! Ma non gli mancò il senso dell'autocritica poetica, e lo testimonia il continuo possente lavoro di lima e di ricerca (documentato in abbondanza dall'impareggiabile edizione falquiana dei « Canti Orfici ».

Mai poeta italiano fu così comprensivo dei due opposti, genio e stupidità. Quanta nostra poesia è stata ed è intelligente, troppo intelligente! troppo intelligente! Non c'è una porta sull'irradiazione se non Leopardi, sulla fuga folle dei sentimenti. Una storia che manca di preistoria e di meta-storia. Campana ha questo, invece. E' una sintesi, è il vero rischio del genio. prova del genio. Ha aperto la porta della poesia italiana al futuro più legittimo: la genialità libera, la danza dei sentimenti. Niente più di composto. di esatto, quei sonetti precisi come operazioni di computo; quelle musiche orchestrate da maestri, quei « storici », quei confettini con la mandorla dolce in mezzo. Niente di classico, quella compostezza che muore di emorroidi filosofiche. Niente di origine foscoliana o carducciana.

Come niente di dannunziano, nell'anestesia della verità, nella volontà autodeiflcante di sovra-strutturare l'espressione scritta. Come niente di moderno, nella voglia introversa di annichilire l'estro al gioco dei sentimenti tolti dalla vita, nella coralità senza firma e senza gridi. Se si vola sulla nostra storia letteraria, Campana esplode le esperienze di poeti cosiddetti « minori », quali santo Francesco, Jacopo. Cavalcanti. Poli-Poliziano (sic!).

Leggendo Poliziano ci si dove chiedere perchè nacque così fuori del suo tempo. Così per Cavalcanti: che pure dovevano essere stati sinceri, come uomini. mentre come poeti non lo furono sempre, non lo poterono. La poesia in loro rimase spesso sommersa, ma ce n'era, quanta per secoli non ce ne sarà. in questa tanto sconosciuta storia della poesia italiana. Campana l'ha recuperata alla chiarezza e alla totale sincerità. Ha destato un sonno secolare, ha capovolto una scuola, e il primo poeta moderno italiano.

Uomini come Foscolo, o Carducci, o D'Annunzio unirli qui non vuol dire affatto accomunarli ne nei risultati ne, prima, nelle intenzioni, ma solo assumerli a valori dialettici di contrapposizione) sai subito che ti vogliono colpire. che sono circonfusi da un loro mito. che si ritengono motto poeti, insomma che non ritengono necessario risultare sinceri, che sono per la grandezza. Certo come uomini, se non come poeti, spesso mentono: vengono alla pagina in coscienza di dover scrivere qualcosa di grande, di definitivo. Non hanno una verginità sempre riproposta allo spirito.

Campana, genio ma ingenuo, poeta ma sopratutto uomo, troppo uomo, non ha di queste voglie, non vuol colpire: scrive, esprime, traduce grida e sommesse intuizioni, mette sangue, paga ogni giorno con la carne la sua vocazione, si sacrifica, muore sulla pagina. La fine dei suoi canti più alti è grave e profondamente stanca, come una morte. E' sincero: per lui l'intenzione, anche se esistente, è sempre vinta all'atto, dal fuggire impensato (geniale) dell'estro. Mai vincitore, sempre vinto, sempre vittima della sua innocente veggenza, sempre succube della sua potenza. Aveva da dire sempre di più, sempre oltre. Campana, fu più che poeta, una continua volontà di utrapoesia; la sua fu una tensione incontro all'oltre dell'esprimibile (il che parve talora avvicinarlo ai futuristi, ma Campana era un genio, e un genio « classico » ).

Nei grandi che le scuole italiane mandano a mente, è trasparente questa concezione: « tutto può diventare parole ». Per Campana, primo dopo Leopardi, è vero l'opposto: « tutto è nell'oltre delle parole, nel fuoco dell'intuizione e nell'ombra che subito la vela, e la penna non raccatta che ceneri». Campana è dinamico, si supera continuamente: un poeta a cui nessuna vita terrena sarebbe bastata per giungere a una sicurezza, a una forma. Egli esperimenta, vive. Tutta la sua opera è palpitante. ardente. La sua « forma » è il suo « contenuto ». Ogni verso è un giorno, un dolore, una sofferenza: ma una sofferenza e un dolore che han toccato prima i muscoli, il cuore, il fegato. la testa. Non si risparmiò: ha veramente pagato ogni verso col sangue: l'ha scritto col sangue.

Si seguita a dire che fu un pazzo. La sua vita testimonia d'un'inquietudine, non di una pazzia. I suoi manicomi testimoniano d'una diversità, d'una anormalità normale in un genio. Fu più poeta quindi più diverso. E come uomo ebbe sol-tanto la follia, seppure l'ebbe, di suo. La vita non gli diede altro. I sistemi sociali impostati sulla furberia uccidono i poeti, gli ingenui, almeno. Davanti a sè stesso. Campana dovette riconoscere solo la sua diversità, farla quasi una follia, che fosse il suo « mestiere », la sua legittima difesa e la sua vendetta. Non è morto pazzo: è morto stanco.

Per Dino Campana uomo non ci fu posto nella società italiana, neppure in quella dei poeti. Come pazzo potè almeno godere del gratuito soggiorno nei manicomi statali. La pazzia di Campana si deve interpretare come la follia del sistema moderno, che non ammette il mestiere della poesia. Quando comprese questa inammissibilità, egli finì di scrivere, tacque. Si mise a leggere i giornali, a ripensare la sua vita di nomade: la società non l'aveva meritato. Una poesia esostorica. o metastorica? Oppure semplicemente un fenomeno, un « la » della natura, che non fa legge? Non è stato ancora risposto da nessuno a questi quesiti: Campana occupa ancora qualche pagina volante nelle antologie; in compenso c'è sempre qualcuno che trova interessante ripetere gli stantii motivi clinici e patologici Si deve forse pensare che egli disturbi il corso della storia poetica contemporanea, fermato per comodità dai « critici » alle testimonianze più storificanti, anche se come meno valide sul piano che pure dovrebbe essere l'unico a contare, quello della carica poetica ..?

Dopo la triplice dei grandi ottocenteschi, la poesia italiana sbriciola le sue esperienze tuttora su quei filoni, più o meno patenti, più o meno riconosciuti anche da parte degli sbriciolatori. Tanta poesia e tanti poeti (è diventato facile scrivere versi, ormai!): ma nessuno che possa e sappia superare i decaloghi anticipati in cui la critica contemporanea sta forte, la critica che ormai inventa la poesia. Questo sguazzare che la critica fa nell'arbitrio ha però l'insormontabile limite della Triplice: è nel di qua di quella che essa « ismizza » e cataloga con orgogliosa presunzione, come in anticipo ritenesse impossibile una qualsiasi nuova direzione della poesia. impossibile sopratutto una qualsiasi contraddizione ai suoi decaloghi immobili: e Dino Campana viene a soffrire proprio di questa datazione assolutamente arbitraria.

E' morto da appena venticinque anni: è un moderno, dunque, dopo D'Annunzio, dopo la storia sicura della poesia italiana: se non gli si può in nessun modo appiccicare un ismo di riconoscimento, vuol dire proprio che Campana è un fenomeno, e un fenomeno rilevante, un casus belli della follia, estremo e gratuito, qualcosa che merita l'elzeviro ma non il capitolo. Un minore. un'estrosità, una pagina d'antologia.

L'ambiente letterario italiano attende il poeta nuovo (è trasparente) e le continue disillusioni non fanno che attizzare lo stimolo. Da D'Annunzio non c'è stato più un poeta, lo si sente dire con tristezza. Una tristezza figlia dell'ignoranza, o di quella esistenzialità teleologica che brucia l'ebreo da millenni, che gli propone un cristo sempre di là da venire. Un poeta grande ha ucciso l'Italia nel 1932, di cui già potremmo celebrare il 25 della morte: e nessuno lo sa. Chi ha letto « Canti Orfici » ha insieme consultato gli aruspici della critica di stato, dove nessun papiro lo annuncia (ed in tempo di specializzazione e di estrema suddivisione del lavoro, anche fra i lettori meno ingenui è subentrata la faciloneria di « affidarsi al critico », al competente, poi di attenderne le ponderazioni): ma chi conosce meno che superficialmente Campana, fra il pubblico, se dalla base della scuola all'altezza delle sintesi critiche egli è assente, il grande Assente?

Nessuna vergogna c'é, ad essere detti ungarettiani, o montaliani, fra i giovani, ma ne soffrirebbe certo l'onor proprio se gli stessi fossero considerati campaniani; perché Campana viene un po' citato come la coda dell'astro dannunziano, e D'Annunzio è un cibo pesante che nessuno vuole ammettere di avere sullo stomaco, anche e sopratutto perchè è nello stomaco di tutti. Ora, questo fatto delle più o meno vantate dipendenze sta a significare proprio che Campana è considerato un poeta, sì, ma non una poesia. Qui sta il peccato della critica e la mala informazione del lettore. Campana è una poesia, italianissima, per giunta, prima che universale.