Franco Scalini: Dino Campana studioso in soffitta
da “NELL’ODORE PIRICO DELLA SERA DI FIERA”
Tipografia Faentina, Faenza 2004
di Franco Scalini |
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La casa di Dino a Marradi:in alto le finestre della soffitta
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Erano i primi giorni d’estate del 1957. Uno di quei giorni, a Marradi, nel tardi pomeriggio mi ero soffermato nella strada davanti alla casa dove abitavo dal 1944, in via Pescetti, casa che era stata di Dino Campana. Ogni tanto mi capitava di gettare l’occhio sulle lapidi murate qualche anno prima nella facciata a ricordo del poeta, in particolare su quella che riporta il brano dei Canti Orfici intitolalo: “Marradi (Antica volta. Specchio velato)”, titolo di cui non mi risultava chiaro allora il significato del l’ultima parte tra parentesi, cioè “Specchio velato”. Altre volte avevo riflettuto su ciò, e cercato anche in qualche libro una puntuale spiegazione, ma senza alcun risultato. Mentre mi lambiccavo il cervello intorno a quella parte del titolo per me oscura , vidi che stava arrivando verso casa il dottor Manlio Campana, fratello di Dino.
Antonio Tabucchi
Vagabondaggio
1.
A volte cominciava così, con un rumore impercettibile, come una piccola musica; e anche con un colore, una macchia che nasceva dentro gli occhi e si allargava sul paesaggio, e poi invadeva di nuovo gli occhi e da essi passava all’anima: l’indaco, per esempio. L’indaco aveva un suono di oboe, a volte di danno, nei giorni più felici. Il giallo Invece aveva suono di organo.
Guardava i filari dei pioppi che emergevano dal materasso di nebbia come canne di un organo e su di loro vide la musica gialla del tramonto, con qualche nota dorata. Il treno correva nella campagna, l’orizzonte era un filo incerto che appariva e scompariva fra le ondate di nebbia. Schiacciò il naso contro il finestrino, poi con l’indice scrisse sul vapore condensato del vetro: indaco, nel viola della notte. Qualcuno lo toccò su una spalla e lui sobbalzò.
“Le ho fatto paura?, disse un uomo. Era un anziano signore corpulento, con una catena d’oro sul gilet. Aveva un’aria stupita e insieme dispiaciuta.
“Mi scusi, non credevo…
“Oh niente”, disse lui, e con la mano cancellò in fretta le parole sul vetro.
Paolo Pianigiani: Due punti di vista
Dino nel dicembre del 1913, si reca presso la sede della rivista “Lacerba”, a Firenze per incontrare i due direttori, Ardengo Soffici e Giovanni Papini, ai quali presenta e affida il manoscritto delle sue poesie dal titolo Il più lungo giorno, sperando in una pubblicazione, almeno di qualche testo, nella rivista. Soffici, ultimo depositario del quaderno, in un trasloco lo smarrisce; verrà ritrovato tra le sue carte solo qualche anno dopo la sua scomparsa, nel 1971.
Il momento del primo incontro - qui descritto proprio da Soffici - corrisponde, dunque, all’inizio della lunga e tormentata vicenda del manoscritto, che conteneva testi che, insieme ad altri, confluiranno nei Canti Orfici. Dopo lo smarrimento del “taccuino”, Campana li riscriverà basandosi su altri manoscritti e li pubblicherà nel 1914 presso la tipografia Ravagli di Marradi.
La testimonianza di Soffici, quasi una cronaca in diretta, è del 1931.
Marco Bulgarelli: La divisa nascosta di Dino Campana
Dino Campana allievo ufficiale di Fanteria a Ravenna
Articolo pubblicato, con qualche variante, ne "Il lettore di Provincia", fascicolo 94, dicembre 1995
Nel considerare la figura del poeta Dino Campana, spesso non si è riusciti a fare a meno d'immaginarlo come una specie di Orfeo la cui esistenza è stata graffiata dalle cicatrici di periodiche discese nei regni senza luce, sordi e ronzanti, dell'inesprimibile ignoto. Proprio per questo i suoi estenuanti vagabondaggi, la sua solitudine miserabile, la serie quasi persecutoria degli arresti subiti in varie città d'Italia e all'estero, e ancora il degrado scimmiesco sperimentato nelle corsie dei manicomi hanno potuto acquistare il valore di un vero e proprio martirio e di una testimonianza, quasi fossero stati anch'essi i segni dell'autenticità di una parola scavata con le mani sanguinanti alla radice delle cose.
Leonetta Cecchi Pieraccini: Apparizioni di Dino Campana
Dino Campana visto da vicino
Leonetta Cecchi Pieraccini
Vallecchi, Firenze, 1952
La redazione ringrazia l'amico Silvano Tognacci
APPARIZIONI DI DINO CAMPANA
Fu verso il 1913 che incominciarono a circolare, nel mondo letterario italiano, le prime notizie e dicerie intorno a Dino Campana, poeta stravagante e lunatico, sceso dalla nativa Marradi a Firenze, come stazione più prossima, ma reduce da più lontane mète e da complicati vagabondaggi in compagnia di tribù li zingari, di saltimbanchi, di carbonai, di bossiaki russi, di gauchos argentini.
Aldo Santini: Athos Gastone Banti, giornalista audace
che sapeva colpire di penna e spada
Un ritratto dal vivo del giornalista livornese che ebbe modo di scontrarsi
con Dino Campana nel 1916, a Livorno
Athos Gastone Banti, a destra nella foto
Da Il Tirreno — 18 settembre 2005
Con Athos Gastone Banti, che fu direttore del “Telegrafo” poi diventato “Tirreno”, continuiamo la serie dei ritratti di personaggi raccontati da Aldo Santini nel libro «Livornesi nel Novecento».
Quando nel secondo decennio del ’900 la sua firma appare sempre più frequente sul «Telegrafo», i livornesi, con micidiale umorismo, cambiano il suo nome in uno sberleffo: «Athos, bastone e guanti». Lui ne gioisce: «È segno che mi leggono». E difatti i suoi interventi, i suoi servizi, le sue polemiche, i livornesi se li bevono come grappini. Figlio di madre ebrea, Emma Della Riccia, Athos Gastone Banti è un impiegato delle poste allorché prende a collaborare con il giornale di piazza Carlo Alberto. La sua carriera è rapida. Assunto in pianta stabile, diviene presto capo redattore e appena scoppia la Grande Guerra il «Giornale d’Italia» di Bergamini, di cui è corrispondente da Livorno, ne fa il suo inviato speciale al fronte. E lassù, con Barzini senior, Guelfo Civinini e Fraccaroli del «Corriere della Sera», forma un poker di assi del quale non sappiamo se apprezzare di più l’autorevolezza o l’audacia.
Michele Campana: Dino pubblicitario
Dalla pagina fiorentina di un quotidiano, forse "La Nazione", pubblicato nel 1958
Il poeta Dino Campana ideò la pubblicità per il grande bar americano di via dei Tosinghi: un gruppo di studenti si tratteneva nel locale per dare l'impressione che rigurgitasse di clientela - Zucchero a volontà anche per i cani
Sì, è vero, il caffè espresso (come del resto la cioccolata in tazza) fu inventato a Firenze e, lo credereste? da una... farmacia. Sorgeva dove oggi è l'Istituto Farmaceutico Militare. Il conducente di quella farmacia, di cui non ricordo il nome, ebbe, verso il 1890, la felice idea di concentrare il " rio caffè " in bottigliette, che servivano per medicamento. Si propinava agli ipocondriaci ed in genere ai convalescenti per... rinforzarli. Prima d'allora il caffè era stato manipolato in pentole o caffettiere e servito a clienti in eleganti bricchi di porcellana o di metallo. Dalla innovazione del farmacista fiorentino fu assai facile arrivare a quello che il popolo chiamò "l'espresso". I primi a servirsi del ritrovato furono gli americani, che nelle loro piccole, ma molto diffuse bottiglierie di liquori chiamate bar, incominciarono a vendere anche l'estratto di caffè.
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