Gino Gerola e Giorgio Luti al Vieusseux

 

Gino Gerola: Dino Campana a Firenze

di Gino Gerola1

 

 

I rapporti tra un uomo e una città sono sempre per lo meno abbastanza complessi. Se poi l'uomo è un poeta, le complicazioni aumentano. Se infine, si chiama Dino Campana, autore quanto mai estroso e insieme esigente, allora la complessità raggiunge direi il massimo. Sopra tutto poi se la città si chiama Firenze. Tentiamo di vedere da vicino questa relazione, appunto Campana - Firenze. Credo sia il caso di distinguere tra ambito umano - sociale e ambito letterario.


Cominciamo col primo. Dino, per quanto ne sappiamo, prende contatto in maniera continuativa con l'Arno, le vie, i vicoli del vecchio agglomerato cittadino nell'anno accademico 1904-1905, quando per uno dei suoi estri che spesso restano incomprensibili a una persona normale, dalla Università di Bologna (dove, come si sa, si era iscritto a chimica pura) domanda il trasferimento a una diversa facoltà, chimica farmaceutica e all'Istituto di Studi superiori proprio di Firenze.

Attratto da una più vivace e vistosa vita culturale? Non disponiamo di documenti che lo possano comprovare. Resta il fatto che dopo appena un anno, rientra a Bologna. Il che può solo significare una non superficiale delusione. Gli anni seguenti vedono il poeta vagabondare da un manicomio a un altro, da un qualche viaggio appena fuori dai confini, nelle nazioni vicine, a brevi periodi passati in prigione, alla migrazione in Argentina, in un continuo, frenetico rincorrere chi sa quali chimere. Intanto da un periodo databile intorno ai vent'anni, cioè il 1905, Campana dovrebbe aver cominciato a appassionarsi di letteratura e a scrivere, in particolare poesie.

Questo, per il nostro tema, ha una sua particolare importanza, perché sarà per l'appunto la poesia a riportarlo a Firenze, diversi anni dopo. Difatti, nel 1913, Campana scende a Firenze e si presenta a Papini e Soffici (direttori allora della rivista futurista “Lacerba”) per consegnare la sua prima raccolta di poesie, Il più lungo giorno, che smarrito da Soffici verrà pubblicato l'anno dopo col titolo di Canti Orfici. Con questo nuovo approccio, Dino inizia un contatto direi stabile e burrascoso col tessuto sociale e culturale della città. Non solo (sia pure con assenze più o meno lunghe) frequenta poeti, letterati, pittori, mostre, riunioni di caffè, gazzarre e risse, ma qui vive una parte centrale del suo tempestoso amore con la Sibilla Aleramo. Le ultime vicende prima di essere ricoverato nel manicomio di Castel Pulci, le vive appunto a Firenze, all'Ospedale Militare del Maglio e all'Istituto fiorentino d'osservazione per le malattie mentali. Come dire che la sua vita da libero cittadino la conclude proprio qui.

E la cosa non è senza importanza, nel senso che tra simpatie e repulse per le persone e la città, si può rilevare più di una componente del suo fare poetico, strettamente legato alla città di Dante.
Arriviamo così ai rapporti sul piano letterario, altrettanto vivi e complessi. Le prime calate dell'autore tra l'Arno, Palazzo Vecchio, Duomo devono avere lasciato impressioni varie e magari contrastanti. Da una parte i palazzi, le chiese, le statue, i monumenti in generale che rendono così raffinata, unica la città del Fiore. Dall'altra la realtà quotidiana delle stradine, delle viuzze, dei vicoli del centro storico e adiacenze, fatta di miseria, di sporcizia, di un'umanità miserabile, magari composta di ladri o piccoli delinquenti. Campana da quell'estroso, curiosissimo vagabondo qual è frequenta l'una e l'altra faccia ricavandone, si vede, delle impressioni, che a un certo punto sente il bisogno di tradurre in scrittura. E si tratta quasi sicuramente di impressioni immagazzinate nel primo periodo di soggiorno, perchè quando riprende a frequentare la città, appunto nel ‘13, la sua produzione poetica è già pressoché arrivata alla conclusione.

Anche qui sarà necessario distinguere per lo meno due fasi: quella degli Inediti e quella dei Canti orfici. I primi, come si sa, sono una raccolta delle prove d'autore, diciamo, lasciate da Campana in fondo a un baule e pubblicate per la prima volta da Falqui. Vi si incontrano le uscite iniziali dell'autore, ancora piuttosto inesperto, condizionato dai numi tutelari italiani di quel periodo, D'Annunzio e sopra tutto Carducci.
Proprio perché si tratta di prove, il loro livello e valore è molto vario: si va da sonetti che sembrano esercitazioni scolastiche, sia pure di un alunno evidentemente dotato, a componimenti che già vivono nell'atmosfera dell'opera maggiore, ossia maturi, definitivi o quasi. Per quanto riguarda il tema Firenze, le sette otto composizioni presentano caratteristiche disparate, a volte nettamente contrastanti. Si incontrano ambienti e espressioni spinte fino al becero, allo scurrile, altre invece rivivono felicemente la grazia, l'ariosità, la bellezza drammatica della visione cittadina. Prendiamo in considerazione due estremi, diciamo così Notturno teppista e Tre giovani fiorentine camminano, che possono dare un'idea di come Campana sperimenta le sue tematiche non ancora del tutto focalizzate. La prima è forse il caso di leggerla tutta:

 

Firenze nel fondo era un gorgo di luci, di fremiti sordi: / Con ali di fuoco i lunghi rumori fuggenti / Del tram spaziavano: il fiume mostruoso / Torpido riluceva come un serpente a squame. / Su un circolo incerto le inquiete facce beffarde / Dei ladri, ed io tra i doppi lunghi cipressi uguali a fiaccole spente / Più aspro ai cipressi le siepi / più aspro del fremer dei bussi, / Che dal mio cuore il mio amore, / Che dal mio cuore, l'amore un ruffiano che intonò e cantò. / Amo le vecchie troie / Gonfie lievitate di sperma / Che cadono come rospi a quattro zampe sovra la coltrice rossa / E aspettano e sbuffano ed ansimano / Flaccide come mantici.

 

Osserviamo intanto che il poeta doveva essere su verso S. Miniato al Monte per avere una visione come quella descritta a pennellate marcate, violente, volutamente scandalistiche: Firenze come un gorgo, il tram con ali di fuoco, il fiume mostruoso quasi un serpente a squame, le facce beffarde dei ladri, le due file di cipressi come fiaccole spente, il canto del ruffiano sulle vecchie troie. Si direbbe che il poeta cerchi di dare all'insieme una specie di progressione verso l'intensità più volgare, più laida se vogliamo. Le enfatizzazioni barocche mettono subito in rilievo questo intento di realizzare un tipo di poesia polemica, dissacrante, quasi un pugno nello stomaco del perbenismo borghese. Si è portati a pensare che i versi siano stati scritti dopo il ‘09-10, dato che rivelano sentori di futurismo.

Tanto più poi perché nella parte centrale, da “Più aspro” a “intonò e cantò” si possono riscontrare tipiche andature, ripetizioni, movimenti propri di molte pagine dell'opera maggiore. In sostanza, qui si hanno sì dei dati realistici, ma presi e subito trasformati in un quadro a forti tinte, con finalità principale non tanto di rendere aspetti veri della città, quanto di farne il punto di partenza appunto per trasfigurazioni che rispondano ai fantasmi interiori del poeta. O si potrebbe anche interpretare come un tentativo di rendere quanto ha di scostante, di corrotto, di rendere insomma l'anima cattiva di Firenze. Succederà la stessa cosa anche per altre città, Genova per esempio.

Piuttosto vale forse la pena rilevare il significato del titolo: questo “Notturno teppista”, in particolare l'aggettivo, è come un mettere le mani avanti, quasi a dire: badate che non si tratta proprio di una cosa seria, degna di essere presentata, ma una emanazione di teppismo e quindi in certo modo da prendere con le necessarie precauzioni e riserve. Passando al secondo esempio, ossia a “Tre giovani”, si noterà anzitutto che siamo veramente all'estremo opposto: non solo sono scomparsi i toni accesi, beffardi, ingigantiti di prima, ma tutto è ricondotto a una strada fiorentina nella quale appaiono e camminano tre ragazze, che sembrano avere il potere di rendere ogni cosa leggera, luminosa, piena di una grazia di stampo finemente fiorentino.
Ascoltiamo:

 

Ondulava sul passo verginale / Ondulava la chioma musicale / Nello splendore del tiepido sole / Eran tre vergini e una grazia sola / Ondulava sul passo verginale / Crespa e nera la chioma musicale / eran tre vergini e una grazia sola / E sei piedini in marcia militare.

 

Siamo già in pieno nello spirito della ricerca e delle realizzazioni dei Canti Orfici: la tensione verso una poesia “musicale e colorita”, come diceva lo stesso Campana, si fa musicalissima tessitura poetica. Dà l'impressione di un brano vero e proprio di musica (di questa ha le variazioni sul tema, il ritmo che si direbbe cantabile), danzante in una magica leggerezza, quasi a trascrivere sulla pagina una realtà fisica diventata sogno. Non è certo tra le più significative del Nostro, ma sta perfettamente a suo agio all'interno dell'opera maggiore, nella quale viene inclusa nella edizione del '28. Tra questi due estremi, sempre negli Inediti, si incontrano altri componimenti come “Oscar Wilde a S. Miniato” e andando verso le atmosfere dell'altra poesia, “Firenze vecchia”, “Firenze cicisbea” e, un po’ a parte, il “Prospectus II” (un gustoso quadretto, non senza fili ironici, sul centro fiorentino) e sopra tutto “Boboli”, che si può considerare la prima versione di “Giardino autunnale”, del quale si parlerà tra poco.

Si direbbe insomma che Campana, in tutte queste composizioni, stia preparando una specie di sintesi che riassuma un po’ l'anima della città. La realizza per i Canti orfici in alcune poesie che, tralasciando “Frammento (Firenze)” di appena quattro versi (appunto come un qualcosa galleggiante sulla pagina senza una sua organicità) si concentra in “Una fantasia su un quadro di Ardengo Soffici”, “Firenze (Uffizi)”, “Firenze (un brano in prosa poetica) e sopra tutto” come si accennava, in “Giardino autunnale”, certamente la poesia più intensa, viva, raffinata, dedicata al panorama, allo spirito cittadino.

Nella prima, come è naturale, trattandosi di un pittore in quel momento corifeo del movimento futurista, i versi, le invenzioni verbali, stilistiche risentono fortemente di quel clima particolare. Non sono gran che sul piano della resa poetica, ma testimoniano degli interessi di Campana nel frequentare gli ambienti culturali di un centro allora pieno di fervori, di iniziative. La seconda ritrae impressioni sull'Arno e paraggi del Ponte Vecchio, fermate in versi melodiosi, rimati, tirati via con estro e leggerezza. Pennellate, in altre parole, non prive di suggestioni. Dalla terza, un pezzo appunto in prosa poetica, ci si potrebbe aspettare (come sarà in “Faenza”, per esempio) una realizzazione diciamo di sintesi delle tematiche svolte finora.
In realtà, manca di quella intensità, di quella inventiva che Campana sa offrire in molte sue pagine. E divisa in tre parti. La prima risulta un po’ intellettualizzata con ricerche di ritmi, di suggestioni, ma forse affidata a una bravura tutta di testa. Più tesa a una concretezza e insieme trasfigurazione la seconda, che segue il corso dell'Arno fino a Signa e Pisa con notazioni tipiche, discretamente convincenti.

La terza cerca la rappresentazione di un “vico centrale” (Borgo SS. Apostoli?) pieno di “osterie malfamate”, di “figure losche”, di angoli e interni piuttosto luridi, un insieme quindi che fa pensare a un “Notturno teppista”, un po’ depurato, più organico. Quella che concentra gli aspetti e le emozioni, le fantasie di fronte alla città, qui forse vista da Boboli (o dal Piazzale?) è la poesia “Giardino autunnale”. Vale la pena leggerla:

 

Al giardino autunnale al lauro muto. / De le verdi ghirlande / A la terra autunnale / Un ultimo saluto! / A l'aride pendici / Aspre arrossate nell'estremo sole / Confusa di rumori / Rauchi grida la lontana vita. / Grida al morente sole / Che insanguina le aiole. / S’intende una fanfara / che straziante sale: il fiume spare / Ne le arene dorate: nel silenzio! / Stanno le bianche statue a capo i ponti / Volte: e le cose già non sono più. / E dal fondo silenzio come un coro / tenero e grandioso / Sorge ed anela in alto al mio balcone: / In aroma d'alloro, / In aroma d'alloro acre languente, / Tra le statue immortali nel tramonto / Ella m’appar presente.” Due dati realistici essenziali sono subito riscontrabili: l'ora del tramonto e l'autunno, l'uno e l'altro con i loro colori accesi (“pendici aspre arrossate”, “insanguina le aiole”, “le bianche statue”, ecc.), con la loro tristezza, coi loro presagi di morte, ma senza drammi in fondo, con malinconia semmai (“giardino spettrale”, “lauro muto”, “le cose già non sono più”, “fondo silenzio”, ecc.). Intorno, altri dati realistici trasfigurati: “rumori/ rauchi grida la lontana vita”, una “fanfara / che straziante sale”, il “fiume” che “spare / ne le arene dorate”, il “silenzio.

 

Tutta la parte fino a “non sono più”, insomma, ritrae queste atmosfere da tramonto del giorno e delle stagioni, atmosfere venate da una specie di accoramento, al quale nella parte conclusiva fanno subito da controcanto l'apparizione quasi miracolosa, trionfale “tra le statue immortali”, tra lo “aroma d'alloro acre languente” quella figura che viene indicata, vagamente ma con una certa prepotenza direi, solo con un pronome: “Ella”. Ella chi? La Chimera? la fantasia? la poesia? Ogni lettore indubbiamente viene lasciato libero di interpretare come meglio crede. Ma è certo che la suggestione risulta grande e conclude in maniera un po’ sorprendente, quasi una vittoria sopra qualsiasi tristezza della realtà e della vita. A questo punto, per avviarci alla conclusione, cosa possiamo dire in sintesi dei rapporti di Campana con la nostra città? Abbastanza burrascosi e comunque pieni di esperienze negative e positive sul piano umano. Sul piano letterario si può rilevare a ragion veduta che il poeta non ha riportato emozioni o impressioni tali da fare di Firenze un suo centro tematico (come succede per Genova per indicare).

Più che altro ha raccolto stimoli per sperimentazioni significative e per realizzazioni poetiche (come l'ultima esaminata) di sicura tenuta, di innegabile valore.


 
gino gerola

1 Gino Gerola (Terragnolo, 3 novembre 1923 – Rovereto, 23 luglio 2006) si è laureato in lettere a Torino, nel dopoguerra, con una tesi su Dino Campana, edita nel 1955 da Sansoni. È vissuto a Firenze dal 1950 al 1989, ed è lì che ha svolto l’attività di insegnante, di critico letterario «militante», di poeta e di scrittore. Dal 1958 al 1968 ha diretto la rivista letteraria “Quartiere”; ma ha collaborato, fra l’altro, al Nuovo Corriere di Bilenchi, a Letteratura di Bonsanti, alla Fiera Letteraria, a Il Ponte.
I suoi scritti critici sono stati raccolti recentemente nel volume Lungostrada, Rovereto 1996. Così come le sue opere poetiche tra cui il poemetto La Valle (dedicato alla sua valle di Terragnolo), da tempo introvabili, sono state riedite in La Valle e periferia, Rovereto 2001.
Tra i suoi libri di narrativa ricordiamo La mandra, Firenze 1976, Il Vespario, Bologna 1984, ma soprattutto Le stagioni dei Bortolini (Trento 1990; Firenze 1998), felice intreccio tra autobiografia ed invenzione.