Federico Ravagli 

Dino Campana e i goliardi del suo tempo 

Edizioni Marzocco, Firenze, 1942

                           

di Jacopo Panerai 

 
 


La poesia ha, fra gli altri, il dono di riverberare eternità anche su chi ne è solo sfiorato. Di Federico Ravagli (1889-1968), ad esempio, pochi probabilmente si ricorderebbero al di fuori della provincia di Cesena, dove fu una figura abbastanza nota di “operatore culturale” (né molto gioverebbero alla sua fama postuma i numerosi libri che, docente al liceo di Tripoli, consacrò negli anni Venti e Trenta alla Libia), se non fosse stato anche l’autore di un volume di ricordi dedicato a Dino Campana, che gli ha meritato una collocazione in tutte le bibliografie dedicate al poeta di Marradi.

Dino Campana e i goliardi del suo tempo fu edito dalla casa editrice Marzocco di Firenze nel 1942: a dire il vero la data si trova spesso citata come 1941, ma il colophon è esplicito, «Finito di stampare [...] il 31 gennaio 1942-XX». Ravagli – nessuna parentela, a proposito, è lui stesso a precisarlo, con il Ravagli tipografo marradese che stampò per primo i Canti Orfici – era allora un professore cinquantatreenne che, in piena seconda guerra mondiale, decideva di raccogliere e dare alle stampe i ricordi della propria giovinezza goliardica di studente all’università di Bologna negli anni che precedettero la Grande Guerra.

Ricordi che si catalizzano intorno al più celebre dei goliardi compagni di Ravagli, appunto Dino Campana.

Il volume è stato  ristampato (Clueb, Bologna 2002)1, ma faccio qui riferimento all’edizione originale, di 197 pagine numerate, formato 12,5 x 19 centimetri, con nove fogli di tavole fuori testo in bianco e nero. Il costo era di 18 lire, la copia in mio possesso porta il numero progressivo 798 e pertanto è probabile che la tiratura si aggirasse intorno alle mille copie, dunque alta per il periodo e il genere.

La lettura di questo libro, va detto, non è particolarmente amena. Il tono oscilla fra la nostalgia, l’aneddotica spicciola, l’ironia e l’autocelebrazione di gesta interessanti al più per chi voglia approfondire la storia della goliardia bolognese: per una parte cospicua il testo (già il titolo risulta abbastanza esplicito) è infatti un’autobiografia più che una biografia campaniana.

Ravagli inoltre non va esente dalla tentazione di investirsi unico “interprete autorizzato” di Campana, possessore della chiave attraverso la quale è possibile capirlo: «Per conoscerlo davvero, io penso che si debba cercarlo a Bologna, negli anni prebellici» (p. 83).
Il ritratto del poeta che emerge dalle sue pagine appare comunque in sostanza veritiero, benché parziale e limitato a pochi anni, restituendo l’immagine di un Campana studente fuori corso trasandato nell’aspetto, di poche parole, propenso ai divertimenti goliardici ma con una moderazione che poteva tradursi in isolamento, in immersione totale nelle proprie fantasie.

Di tanto in tanto anche qualche sintomo non lieve di follia:
«Una sera, allo svolto di via Rizzoli con via dell’Indipendenza, fu preso da un accesso di improvviso furore: e, impugnando una chiave, spezzò l’un dopo l’altro i vetri delle mostrine dei negozi. Nessuno osò avvicinarlo: e la sua opera di distruzione fu interrotta soltanto dal laborioso intervento di numerosi vigili» (p. 91).
Anche dei gusti e delle preferenze artistico-culturali di Campana è offerto un quadro plausibile, che non si discosta del resto da quello ricavabile dalla lettura diretta dell’opera del poeta di Marradi.

La sezione più importante, per l’epoca totalmente inedita, è quella dedicata ai fogli goliardici (a questi si riferiscono perlopiù le tavole di riproduzioni fotografiche contenute nel libro) sui quali Campana diede alla luce, fra il 1912 e il 1913, versi e prose che sarebbero poco dopo confluiti nei Canti Orfici. Una sede abbastanza singolare perché, come Ravagli documenta, questi «numeri unici» ospitavano soprattutto versi scherzosi, spesso salaci, caricature, scritti in latino maccheronico, affastellati secondo un’impaginazione a dir poco approssimativa.

Certo Campana, viene da dire, non era un esteta che attribuisse particolare significato al contesto in cui le sue opere apparivano. Ma forse ai suoi tempi il legame fra la poesia, perfino l’alta poesia, e la “vita vissuta” appariva più stretto di quanto non accada oggi.

 

1 Federico Ravagli, DINO CAMPANA E I GOLIARDI   DEL SUO TEMPO (1911-1914). 
Autografi e documenti, confessioni e memorie. 
Introduzione di  Marco A. Bazzocchi,  Editore CLUEB, Bologna 2OO2