Voce
di DinoCampana
di
Francesco Monterosso
Paese Sera 18 Luglio1952
Ringrazio l'amico Paolo Magnani di avermi inviato questo rarissimo documento, scritto da Franco Matacotta nel 1952 con lo pseudonimo di Francesco Monterosso.
(p.p.)
AI PRIMI DI GENNAIO 1918, Il poeta Dino Campana, il vagabondo, il ribelle, il cosidetto folle, esaurite tutte le possibilità di resistenza alla drammatica battaglia della sua vita e della sua poesia, entrava nel manicomio di Castelpulci, a trentatrè anni di età. Mai s'era dato ancora nella storia delle nostre lettere un destino tanto tragico e tanto precocemente concluso. La nostra letteratura è stata sempre di solare equilibrio. Nemmeno la rapinosa e voluttuosa follia del Tasso valse a spezzare questa fatalità olimpica del nostro orizzonte poetico. Campana è stato, davvero, il primo ingresso delle ombre e delle Furie nei giardini chiari e sereni delle nostre lettere.
Segnalato dall'amico Paolo Magnani, la recensione sul Sole 24 Ore del 21 Giugno 2020, alla
Vita Oscura e luminosa di Dino Campana Poeta,
di Gianni Turchetta, Bompiani, Milano
Dino a Bologna: il cagnolino del prof. Gorrieri
Le escandescenze di uno studente
Da "Il Giornale del Mattino", Bologna, 27 Dicembre 1912
Nel pomeriggio di ieri verso le 16, il comandante delle guardie municipali Dalmonte-Casoni, transitava per via Zamboni insieme con alcune persone della sua famiglia, quando, giunto nei pressi della casa segnata col n. 52, fu attratto dal rumore prodotto da una vetrata sbattuta e vide un giovanotto senza cappello, il quale, liberatosi dalle strette di alcune persone che si trovavano sulla soglia del caffè, situato in detta casa, si dava a fuggire verso il teatro comunale.
Firenze 1914
di
Lorenzo Montano
da “La Nuova Antologia”, 1954, fascicolo 1837, pp. 73-80
Ci vorrebbe il genio d’uno Stendhal d’un Tolstoi, e forse non basterebbe, per rappresentare a chi non l’ha provato il senso di stabilità da cui era pervaso il mondo fino alla prima guerra mondiale. Mondo ormai ridotto ad una sottilissima scorza ad opera di Marx e di Nietzsche, il Marx dei benestanti, per tacere di tarli più antichi; ma la compattezza e la solidità della nostra illusione non erano intaccate. Il futuro si apriva dinanzi a noi a perdita d’occhio, per generazioni senza numero, variato magari da sviluppi tecnici e sociali (la più parte desiderabili) ma sostanzialmente immutabile.
Damiano Benvegnù: uno spettacolo per Dino Campana
intervista di Paolo Pianigiani
Testo di Damiano Benvegnù Musiche di Mauro Pandolfino
Damiano Benvegnù: voce narrante
Mauro Pandolfino: chitarre acustiche, mandolino e voce
La storia del poeta Dino Campana (Marradi 1885- Castel Pulci 1932), ripercorsa attraverso la sua stessa opera.
Il lavoro composto ed articolato, oltre che eseguito, da Damiano Benvegnù, Mauro Pandolfino e Stefano Scanu, vede la ricostruzione della vita rocambolesca e tragica del poeta e dell'uomo Campana, anche attraverso l'utilizzo di materiale e di testimonianze dell'epoca, ma concentrandosi in particolar modo sulla lettura ed il commento di brani scelti dal suo unico, fondamentale, libro: i "Canti Orfici".
Francesco Muzzioli
Il problema dell'allegoria in Campana
di Francesco Muzzioli |
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Pubblicato in: "Allegoria", anno IV, numero 10, 1992 |
1. Alcune questioni preliminari
II riconoscimento dell’allegoria in Campana deve affrontare, preliminarmente, almeno tre generi di questioni; la discussione con la tradizione critica che vede in Campana non l’allegoria ma il simbolo; la ricerca delle indicazioni dell’autore sulle quali basare una lettura in chiave allegorica; la necessità di specificare quale tipo di allegoria sarebbe - eventualmente - presente in Campana. Procediamo per ordine:
Nella storia della critica campaniana è comune la collocazione del poeta degli Orfici nell’ambito del simbolismo e come antecedente dell’ermetismo ungarettiano. Anche la corrente che esprime riserve su un suo presunto eccesso di retorica letterarietà, rifiutandogli il raggiungimento di un simbolo plasticamente rilevato e essenzialmente vissuto, gli concede pur sempre il risultato di un simbolo vago e distanziante1. Tra le principali monografie, quelle della Del Serra e di Bonifazi sono nettamente schierate pro symbolo2, sia pure in diverso modo e grado. Bonifazi è il rappresentante di una teoria del simbolo d’abord et toujours, che non si ferma davanti ad alcun ostacolo3; e in cui il termine simbolo è usato come «chiave universale», in una vasta gamma di occorrenze, da solo o insieme ad altri (così troviamo i «simboli dell’eternità», i «simboli del mito», o il «simbolo del mistero»; e ancora, in un elenco indifferenziato, «paesaggi di simboli, enigmi e ancora misteri»); basta che indichi la via della smaterializzazione della realtà concreta attraverso l’immagine, dell’incielarsi della «trasfigurazione iniziatica» e della «azione sublimante».
Silvio Ramat
Campana nella tradizione novecentesca
Intervento al Convegno tenutosi al Vieusseux nel 1973
di Silvio Ramat
Dino Campana oggi, atti del Convegno tenutosi al Gabinetto Vieusseux, a Firenze, il 18 e 19 marzo 1973
Per quanto possa sembrare di una banalità assoluta, il rilievo preliminare s'impone: a voler impostare cioè un discorso su Campana nella tradizione novecentesca, è necessario che rendiamo conto dell'esistenza dell'uno e dell'altra. Dino Campana: quale possiamo proporlo, vivo di là dai termini di una meccanica registrazione d'anagrafe che, del resto, non fu pacifica né senza margine d'errore, se Papini e Pancrazi, ancora nella seconda edizione — 1925 — del loro repertorio Poeti d'oggi, facevano risalire la nascita dell'autore dei Canti orfici, — già segregato, come si leggeva, nel manicomio di «Castel Pucci», — al 1889, anziché al 1885; dimodoché Campana si trovava antologizzato fra i Baldini e i Fracchia, invece che tra i suoi effettivi coetanei Moretti, Palazzeschi, Onofri e Rebora. (Magari a proposito dello sbaglio di datazione, suggerisce qualcosa, tra fatalità e coincidenza, il fatto che quel 1889 è lo stesso anno in cui aveva preso a manifestarsi la pazzia nel grande precursore, la pazzia di Nietzsche).
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