Lettere di Dino Campana all’amata poetessa

 

Pubblicate a quarantanni di distanza. Arte, vita e desolazione

 

di Giorgio Zampa

 

dal Corriere dell’informazione, 27-28 giugno 1958

 

Nel luglio del 1916 Dino Campana è a Rifredo di Mugello. Qualche dozzina di persone sa, in Italia, che Campana è autore di un libro di versi; solo alcuni che è un autentico poeta. Per i più, per i compaesani, i compagni d'università bolognesi, per gli stessi familiari, è un malato, soggetto ad attacchi di demenza precoce, inadatto a qualsiasi lavoro, incapace di rimanere a lungo in un posto: une épave, dicono i letterati fiorentini, un cliente di asili notturni, di guardine, di ospedali.

Due anni avanti, nella tipografia del suo paese, Marradi, ha pubblicato un libro, «Canti Orfici», con una strana dedica a Guglielmo II. Ne porta indosso sempre qualche copia, che cerca di vendere do-ve e come gli capita. Il libro gli ha valso le lodi e l'amicizia di Emilio Cecchi; lo ha fatto apprezzare da Papini, da Soffici, da Cardarelli, da Boine. A trent'anni, Campana ha girato, è il caso di dirlo, mezzo mondo e fatto tutti i mestieri. A Rifredo è arrivato, con un foglio di via, da Ginevra. Dichiarato inabile al servizio militare, incapace di guadagnarsi la vita, mentre il male restringe sempre più la zona della sua lucidità.

Campana vive tra le montagne dilette dell'Appennino Tosco-emiliano come in una tregua, in attesa e nel terrore dell'inevitabile, dell'attacco che lo taglierà fuori della vita: quando gli arriva la lettera di una donna, che vuole manifestargli la sua ammirazione dopo avere letto i «Canti Orfici». Chi scrive è Sibilla Aleramo, che Campana deve conoscere almeno di nome. Il poeta risponde, come d'abitudine, con una cartolina postale, esprimendosi in un tono che, sotto l'apparente burbanza, lascia trapelare la sua condizione disperata: «Anderò col mio famoso fardello dove anderò. Finita la guerra non esisterò più ammesso che esista ancora».

La vicenda d'amore che segue a un simile preludio ha la sua conclusione già segnata: nelle lettere che la signora Aleramo, a più di quarant'anni di distanza, oggi ha lasciato pubblicare (con prefazione di Mario Luzi; Vallecchi editore), il motivo dell'inutilità di ogni tentativo di salvezza e dell'ineluttabilità della catastrofe ne copre ogni altro. Scambiati alcuni biglietti, la Aleramo va a trovare Campana a Barco e rimane con lui diversi giorni. Il poeta esita ad aprirsi alla speranza che l'incontro vorrebbe fare sorgere in lui.

Alle lettere che la Aleramo gli indirizza anche più volte al giorno, risponde in modo evasivo. Poi un telegramma, imperioso: «Ti aspetto Dino». S'incontrano di nuovo, nel settembre: e quando si separano è ancora l'Aleramo a prendere l'iniziativa, nella corrispondenza. «Tutto va per il meglio nel migliore dei modi possibili. Come amo la povertà delle cose quassù che meglio ci farà sentire la nostra ricchezza» reca la solita cartolina, da Firenzuola.

All'azione che i sentimenti continuano ad esercitare su di lui, Campana, per un momento, cede: «Mi sono messo in viaggio questa mattina con un tempo magnifico e per tutta la mattina ho pensato a te come per raccoglierti intorno gli ultimi splendori della bella stagione nei prati umidi, un verde intenso di velluto... Addio amore, ritroverò forza tra le braccia della mia Sibilla».

E' un'illusione: con l'autunno l'amore divampato durante l'estate ha consumato la sua parte più bella. Per un anno, finché Campana ha ancora uno stato civile, sarà una vicenda di fughe, ripulse, profferte, richiami, invocazioni, un orrendo e inutile logorio. La passione ormai priva di speranza induce il povero malato ad ogni estremo fino alle righe strazianti indirizzate alla contessa Castiglioni nei primi del '17: «La supplico di dire alla signora Aleramo che le faccio per il nuovo anno dedizione spontanea assoluta di me».

Campana riprende a vagabondare. Per settimane non dà segno di vita, poi scrive poche righe di supplica o di minaccia. «Non voglio attaccarmi a te con quella disperazióne che tanto ti offendeva, mi contento di dirti che ti amo più della vita e ti prego a non chiedermi più di quello che pos-so darti. Tu sei libera, io non ti domanderò mai più nulla». Ancora: «Di te non ricordo che l'immenso amore che ti ho voluto e che ti voglio e che mi hai voluto e ti chiedo sinceramente perdono di tutto quello che per mia miseria o per destino è successo tra noi...»

Durante l'estate e l'autunno, i messaggi disperati continuano a seguirsi fino a un drammatico appello del novembre: « Arrestato a Novara vieni a vedermi»; e alle righe del gennaio del '18, le ultime: «Cara, se credi che abbia sofferto abbastanza. sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita. Vieni a vedermi ti prego tuo Dino». Il biglietto era stato spedito dal manicomio di San Salvi, a Firenze. A San Salvi, come incurabile, Campana rimase fino all'anno della morte, avvenuta nel '32. Le lettere del poeta si alternano a quelle della Aleramo: il mezzo secolo che, ormai, intercorre dalla vicenda, ha fatto tacere possibili scrupoli che la discrezione potesse ispirare.

Con questo, ci guarderemo dal considerare il carteggio dal solo punto di vista letterario: meno che mai, di porlo come si è fatto da alcuni, tra i più bei carteggi d'amore della letteratura. Questi documenti non sono « belli in nessun modo: se mai, anzi. uno dovesse giudicarli sul piano letterario, sono squallidi e banali; i grandi amori dei poeti hanno lasciato ben altre espressioni di sè. Dobbiamo prenderli per quello che sono, spiragli aperti sull'ultimo atto della vicenda umana di un vero poeta.