Lasciate in pace la follia di Campana

di Annalisa Gimmi

 

 

Povero Dino Campana. Bistrattato in vita. E adesso, quando il postumo amore di generazioni di lettori potrebbero restituirgli serenità, ecco che scrittori e critici si attaccano alle sue ossa per azzannare il boccone più grosso. L'uscita del libro curato da Sebastiano Vassalli, Un po' del mio sangue (Rizzoli, pagg. 298, euro 9) ha sollevato consensi e proteste anche pittoreschi. Vassalli, in veste di Depositario della Verità, si scaglia contro tutti: dai genitori del poeta, «una famiglia orribile» che lo avrebbe emarginato, considerato pazzo senza alcun reale motivo e allontanato per la vergogna; ai concittadini, fautori del mito del «mat Campana»; ai letterati che lo hanno deriso, rifiutato, e anche ai critici che lo vogliono «usare» per creare un personaggio, seguendo non ben chiari disegni di mistificazione.

Vassalli sostiene a spada tratta che Campana, in realtà, non era pazzo. Lo è diventato a trent'anni, dopo aver contratto la sifilide. Prima di allora, Dino era una persona - come definirla? - originale, inquieta, disperata. Ma non pazzo. Da quando invece (tra il 1916 e il 1917) la malattia comincia a manifestarsi in modo sempre più conclamato, perde veramente la ragione. E non scrive più. È chiara la tesi sostenuta da Vassalli: Campana non era pazzo mentre scriveva i Canti orfici.

Non è di un pazzo quel libretto che rappresenta una delle maggiori vette della poesia italiana. La malattia, di origine assolutamente organica, è posteriore e coincide con il suo silenzio. Certo che non era pazzo, Campana, mentre scriveva. Era solo se stesso. Ed è vero che quando la follia si è completamente impadronita di lui anche la sua arte ha taciuto. Ma non si possono negare i fatti. I ricoveri durante la gioventù, i numerosi arresti per risse, i vagabondaggi inquieti. È vero, molto può essere attribuito alla fantasia dei suoi compaesani (c'è sempre un «mat» nelle piccole comunità), ma ci sono anche le opinioni dei medici. Non sempre concordi. Ma, per Vassalli, quelli che gli hanno diagnosticato disturbi mentali sono tutti in malafede, buoni solo gli altri.

E poi, la sifilide. (Sfortuna rara - sia detto per inciso - per uno creduto pazzo, impazzire davvero a causa di un male organico, che niente ha in comune con l'inquieto passato.) Non esiste alcun documento a comprovare questa patologia, ma effettivamente niente vieta di attribuirla a Campana: né i sintomi, che sembrano rispondere alle manifestazioni di questo male, né la possibilità di averla contratta durante quegli incontri con prostitute che Dino stesso racconta, sublimandoli, in alcune splendide pagine della sua opera. In verità, la «follia» di Campana, reale o indotta dall’ambiente, sembra innegabile fin dalla gioventù. Fu causa di fughe, liti, disordinate e disperate ribellioni. Poi la situazione è precipitata (forse per la sifilide, ma che importanza ha?) e la sua mente si è ottenebrata.

Oggi ogni tentativo di ricostruire con certezza le vicende dello straordinario poeta sembra impuntarsi su liti in fondo a lui estranee. Vassalli (e dopo di lui Cristina Taglietti sul Corriere della Sera del 15 settembre scorso) attacca chi lo ha preceduto nell’impresa, in particolare lo scrittore argentino Gabriel Cacho Millet, autore - in realtà - di edizioni molto curate di inediti e soprattutto di lettere del poeta. A questi attacchi ha risposto in modo scomposto e furibondo Paolo Pianigiani sul sito web Transfinito, il 27 settembre. Quante grida inutili e avvilenti. L'opera di Campana parla da sé. È grande poesia. Non sembra essenziale definire se scritta da una mente «sana» (e poi - antica questione - come definire la «sanità»?) o per intervalla insaniae (non sarebbe il primo... ).

È lì, da leggere e da amare. Smettiamo di tormentarlo. In fondo Dino ai nostri occhi è (per usare parole dello stesso Vassalli) solo un poeta.