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Voce

di DinoCampana

 

di

Francesco Monterosso

 

Paese Sera 18 Luglio1952

 


 

Ringrazio l'amico Paolo Magnani di avermi inviato questo rarissimo documento, scritto da Franco Matacotta nel 1952 con lo pseudonimo di Francesco Monterosso.

(p.p.)


 

AI PRIMI DI GENNAIO 1918, Il poeta Dino Campana, il vagabondo, il ribelle, il cosidetto folle, esaurite tutte le possibilità di resistenza alla drammatica battaglia della sua vita e della sua poesia, entrava nel manicomio di Castelpulci, a trentatrè anni di età. Mai s'era dato ancora nella storia delle nostre lettere un destino tanto tragico e tanto precocemente concluso. La nostra letteratura è stata sempre di solare equilibrio. Nemmeno la rapinosa e voluttuosa follia del Tasso valse a spezzare questa fatalità olimpica del nostro orizzonte poetico. Campana è stato, davvero, il primo ingresso delle ombre e delle Furie nei giardini chiari e sereni delle nostre lettere.

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ramat

Silvio Ramat

 

 Campana nella tradizione novecentesca

 

Intervento al Convegno tenutosi al Vieusseux nel 1973

 

di Silvio Ramat     

 

Dino Campana oggi, atti del Convegno tenutosi al Gabinetto Vieusseux, a Firenze, il 18 e 19 marzo 1973

 

 

Per quanto possa sembrare di una banalità assoluta, il rilievo preliminare s'impone: a voler impostare cioè un discorso su Campana nella tradizione novecentesca, è necessario che rendiamo conto dell'esistenza dell'uno e dell'altra. Dino Campana: quale possiamo proporlo, vivo di là dai termini di una meccanica registrazione d'anagrafe che, del resto, non fu pacifica né senza margine d'errore, se Papini e Pancrazi, ancora nella seconda edizione — 1925 — del loro repertorio Poeti d'oggi, facevano risalire la nascita dell'autore dei Canti orfici, — già segregato, co­me si leggeva, nel manicomio di «Castel Pucci», — al 1889, anziché al 1885; dimodoché Campana si trovava antologizzato fra i Baldini e i Fracchia, invece che tra i suoi effettivi coetanei Moretti, Palazzeschi, Onofri e Re­bora. (Magari a proposito dello sbaglio di datazione, sug­gerisce qualcosa, tra fatalità e coincidenza, il fatto che quel 1889 è lo stesso anno in cui aveva preso a manife­starsi la pazzia nel grande precursore, la pazzia di Nietzsche).

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Giuseppe Ravegnani 

 

 

La Poesia e la Pazzia di Campana

 

di Giuseppe Ravegnani

 

da La Stampa, sabato 4 agosto 1928

 

 

Quando, sul principio del ‘14, per i rozzi tipi del Ravagli di Marradi uscirono i Canti Orfici di Dino Campana, grande e chiassosa fu l’entusiastica meraviglia, specialmente nei gruppi dei giovani dediti alle lettere. Dei critici di fama, soltanto Emilio Cecchi ne parlò, in un colonnino della Tribuna. Gli altri, silenzio e noncuranza. Così, il nome di Dino Campana, poeta antico, passò, dopo una felice giornata di gloria. Infatti, chi mai ancora oggi ricorda la sgraziata «brochure» giallina, simile più a un lunario paesano che a un libro di canti?

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atti del convegno su franco matacotta tenutosi a bergamo nel 1987  il disegno  di giuseppe capogrossi

 

Franco Matacotta, disegno di Giuseppe Capogrossi


 

Franco Matacotta: Dino Campana e alcuni suoi inediti

 

Con questo importante articolo, voluto da Curzio Malaparte, Franco Matacotta fece conoscere le carte inedite custodite da Sibilla Aleramo: alcune lettere e il famoso Taccuino che lo scrittore di Fermo pubblicherà nel 1949. 

Sarà conosciuto con il nome di Taccuino Matacotta.

 

Da  “Prospettive”, V, 15 febbraio – 15 marzo 1941 

 

"Tel qu’en Lui-même enfin l’eternité le change" (Mallarmé) 

 

 

Il 30 giugno 1916, Cloche, come Campana soleva talvolta scherzo­samente chiamarsi, scriveva da Rifredo di Mugello a una sua ammiratrice che gli aveva espresso il desiderio di incontrarlo: "Je ne saurais jamais vous três agréable à Marradi. C’est un pays où j’ai trop souffert et quelque peu de mon sang est resté collé aux rocker de là haut. Mais ca ne vois que pour moi et vous pouvez voir ça mieux dans les couchants étranges de mes poésies". "Couchants étranges de mes poésies".

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 Giosuè Carducci

 

Walter Mauro: Il rapporto fra Giosuè Carducci e Dino Campana

Dal primo numero del 2007 della rivista, "Pagine della Dante", della Società Dante Alighieri

 

Nella notte del 16 febbraio del 1907, esattamente cento anni fa, moriva Giosué Carducci, a settantadue anni, e con lui scompariva la prima figura rappresentativa di quel secondo Ottocento che ha rappresentato per la poesia italiana l’avvio di un dettato poetico nuovo e diverso, dopo la grande triade del preromanticismo e dell’idealismo che con Foscolo, Manzoni e Leopardi aveva rappresentato un momento di intensa e incomparabile tensione poetica, i cui riflessi, del resto, non mancheranno di illuminare anche la parola e il lavoro letterario della seconda parte del secolo, fino al primo Ottocento. Due giorni dopo quel 16 di febbraio, si svolsero i funerali: dietro il feretro, da Mura Mazzini fino al cimitero della Certosa, a Bologna, c’erano autorità politiche, Filippo Turati fra gli altri, Alfredo Oriani, e soprattutto, come presenze non soltanto simboliche, Giovanni Pascoli dalla pace di Barga, e Gabriele D’Annunzio.

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emilio cecchi 1916 ritratto di leonetta cecchi pieraccini

Leonetta Cecchi Pieraccini, ritratto di Emilio Cecchi, 1916

 

Emilio Cecchi: False audacie

 

Pubblicato su: La Tribuna, Roma, n. 44, 13 febbraio 1915, p. 3.

 

Quasi una stroncatura...

 

 

Vinciamo la ripugnanza: accostiamo alle cose pure le profane. E diciamo due parole d'una scarlattina letteraria di questi ul­timi tempi, che molti credono effettivamente portata da Mal­larmé e da Rimbaud. Già l'avventura di questi due poeti in Italia, finora, era stata dolorosa. Ma le cose ora tirano al tra­gico; che sono entrati in mezzo gli imitatori, sfruttando inso­lenti e spensierati, come una cagnara di ragazzi assalta un po­mario. - Naturalmente a Mallarmé e a Rimbaud, questi non debbono nulla. Sono gli ispiratori, i profeti, i negri; forse non li hanno nemmeno letti. - In tutto di questo di vero c'è, che è come non li avessero letti; perché non hanno saputo veder­ci se non un invito più conveniente di un altro alla loro im­prontitudine e pigrizia.

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coveresine

 
 
 

Sul "male" di Dino Campana

 

di Gabriel Cacho Millet

 

Da "Resine", n. 57-58, luglio 1994

 

 
 
Chi passa dalla lettura dei Canti Orfici a quella delle migliaia di pagine scritte sulla vita dell'autore resta immancabilmente deluso. Il poeta degli Or­fici è altrove. Spesso mi sono chiesto cosa hanno in comune il Dino Campana dal genio folgorante che canta nei Canti con quel poveretto di Marradi dallo stesso no­me, ingombrante ospite di carceri, ospedali, prefetture e manicomi, perseguitato ed errante. E ora ho voglia di rispondere: nulla. Ma il mito, la leggenda, alcuni biografi e qualche critico (Boine, Papini, Soffici, Binazzi e altri) ce lo hanno consegnato in un solo pacco come il "poeta pazzo", vittima della poesia e non solo della poesia, quasi mai come chi a un tratto, dal fondo della sua notte, «mette in questione l'atto stesso di scri­vere» (Ruggero Jacobbi, L'avventura del Novecento, Milano, Garzanti, 1984, p. 450).
 
Una pesante barriera si è alzata tra noi e la sua singolare avventura col verbo, costringendoci a leggerlo con l'ossessione di scoprire dietro ad ogni verso, in agguato, il mat e sarebbe l'ora di allontanare quello spettro con un'a­nalisi scientifica del quadro della sua malattia, che certamente non spiegherà la sua poesia, ma ci aiuterà a leggerlo meglio. Dove leggerlo meglio significa che è doveroso che gli psicanalisti, gli psichiatri e gli storici della psichiatria in Italia stiano da una parte, e i critici letterari dall'altra. Nel 1957, Manlio Campana, fratello del poeta, chiese a Michele Campana (lo scrittore di Modigliana, compagno di Dino al Convitto Salesiani di Faen­za, ma da molti creduto per sbaglio suo cugino), di togliere dalle future edizioni della poesia Salgo per scale nere (Tre squilli, Firenze, "Il Fauno", 1957, p. 8) la dedica seguente: «A Manlio Campana nel nome del suo infelice fratello Dino».
 

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  1. Silvano Salvadori: Il Quaderno
  2. Emilio su Dino, su l'Approdo, nel 1952
  3. Ruggero Jacobbi: L'esilio e la visione
  4. Giuseppe De Robertis: Sulla poesia di Campana

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