Federico Ravagli
Dino Campana e i goliardi del suo tempo
Edizioni Marzocco, Firenze, 1942
di Jacopo Panerai |
La poesia ha, fra gli altri, il dono di riverberare eternità anche su chi ne è solo sfiorato. Di Federico Ravagli (1889-1968), ad esempio, pochi probabilmente si ricorderebbero al di fuori della provincia di Cesena, dove fu una figura abbastanza nota di “operatore culturale” (né molto gioverebbero alla sua fama postuma i numerosi libri che, docente al liceo di Tripoli, consacrò negli anni Venti e Trenta alla Libia), se non fosse stato anche l’autore di un volume di ricordi dedicato a Dino Campana, che gli ha meritato una collocazione in tutte le bibliografie dedicate al poeta di Marradi.
Spirali Edizioni, Milano, 1987
Chi porta il falco deve tenere la mano in tal maniera e tanto ferma da portarlo dolcemente. Infatti se lo porta rigidamente o muove la mano, il falco si inquieterà e si agiterà per il cattivo portamento e gli si indeboliranno le cosce e le reni. E non solo si richiede che il falconiere sappia portare come conviene, ma anche che abbia esercizio e pratica e sappia fare tutto ciò che è utile al falco attraverso la scienza che avrà appreso da questo nostro libro, affinché in teoria ed in pratica sia esperto ed esercitato.
Federico II di Svevia
sparse le sue poesie intorno a sé con disprezzo
come tocchi di carne cruda.
J. Seifert
Dino Campana e la funzione dell'Anomalo
"Quando tornai a Marradi mi ridevano"
(D. Campana) (*)
È trascorso mezzo secolo dalla sua morte ma lo scontento e infelice Dino Campana (1885-1932) — che, riportano le biografie, fu pessimo studente ("Io studiavo chimica per errore; non ci capivo nulla..."), bohémien vocazionale, girovago in Svizzera Francia Belgio Germania Russia e Sudamerica, venditore di stelle filanti, gaucho e portiere, carbonaio e minatore, fuochista e stalliere, suonatore di triangolo e d'organetto, saltimbanco e pompiere, disadattato permanente, ospite prima provvisorio e poi definitivo, (dal 1918 al 1° marzo 1932, giorno della sua morte) dell'istituzione manicomiale — ha concluso il suo "voyage au bout de la nuit" prendendosi perfino il lusso di precedere il quasi coetaneo Ungaretti (1888-1970) nell'inaugurare la storia della maggiore poesia italiana del Novecento, connotata dalla pietra miliare dei Canti orfici, precedenti di due anni l'ungarettiano Il porto sepolto (1916). Una storia, quella della poesia italiana del ventesimo secolo, dove Campana, questo vociano-lacerbiano irregolare il cui fascino romantico è disperso da conseguenziale e amaro patetismo, sembra essere rimasto estraneo come un'anomalia, coi furori e le "mirabili difformità" d'uno sconosciuto, maculato animale, magari troppo solitario e selvaggio, chiuso e neutralizzato in un serraglio domestico e rassicurante.
Achille Cattani: la foto di Campana in gita alla Falterona
Da: Achille Cattani, Idealità, La vita di Ernesto ed Anna, II volume, tipografia Faentina, Faenza - 1974
Dino è il secondo da sinistra.
La foto fu pubblicata per la prima volta nel libro Dino Campana, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, a cura di Gabriel Cacho Millet, Milano, All'Insegna del Pesce d'Oro, 1978. La descrizione del viaggio riportata dal libro di Achille Cattani aggiunge nuove informazioni a questo episodio della biografia campaniana.
Ringraziamo il professor Stefano Drei, curatore del sito del Liceo Torricelli di Faenza, per la puntuale segnalazione.
Per una poesia di movimento: le «Novelle a gran velocità» di Dino Campana1
di Marco Favero
estratto da «Lettere italiane», I, 2017
1. Le «Novelle a gran velocità»
«Procedo per sbalzi: natura facit realmente saltus, come è noto»,2 scriveva Campana in una lettera a Emilio Cecchi il 10 marzo 1915. E veramente, chi provi a inoltrarsi all’interno del mare di varianti che affollano i suoi scritti, si trova di fronte ai continui ‘sbalzi’ con cui il poeta procedeva anche nella propria scrittura. «Ma per continuare questa vita», aggiungeva Campana, «ci vuole veramente un coraggio da leone». Appunto ricorrendo al coraggio indicato dal poeta si cerca di ricostruire il caso del ripensamento, o meglio, della vera e propria caduta, di una intera sezione dei Canti Orfici, contenente le «Novelle a gran velocità».
Sebastiano Vassalli
Campana, la chimera del poeta maledetto
di Sebastiano Vassalli
dal Corriere della Sera del 26.11.03
La ristampa, a cura di Renato Martinoni, dei Canti Orfici di Campana nei «tascabili» Einaudi, rappresenta un passo avanti per quanto riguarda la sistemazione dei contributi critici, nell’«Introduzione», nelle «Note ai testi» e nelle puntuali «Appendici». È invece un’occasione mancata, se si voleva restituire Campana alla sua storia di uomo e di scrittore. Quella storia, da quasi un secolo dà fastidio a tutti: ai familiari, ai concittadini, ai medici, alla società letteraria; e si è cercato di seppellirla sotto un cumulo di leggende, che fino al 1985 si appoggiavano all’autorità dello psichiatra Carlo Pariani, autore di una biografia dal titolo perentorio: Vita non romanzata di Dino Campana scrittore . Carlo Pariani non era, come molti credono, il medico curante di Campana. Era un tale che andava a trovarlo in manicomio per una sua ricerca su genio e follia. Dino gli confidava di essere elettrico («Mi chiamo Dino, come Dino mi chiamo Edison... sono elettrico») e, tra un delirio e l’altro, gli raccontava ogni genere di balle. Gli diceva di essere stato cinque anni in Argentina; di essere andato a Odessa; di aver patito la prigione a Parma, a Bruxelles, a Basilea, eccetera.
Gianni Turchetta: Ma Dino Campana...
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di Gianni Turchetta |
dal sito della Feltrinelli |
I lettori del "Corriere della Sera" si sono imbattuti, mercoledì 26 novembre 2003, in un singolare articolo di Sebastiano Vassalli, pubblicato in occasione dell’uscita di un’ottima edizione dei Canti Orfici, a cura di Renato Martinoni. Vassalli annuncia melodrammaticamente il fallimento dei propri sforzi di restituire a Dino Campana la "sua verità", vanificati a suo dire dall’azione congiunta di una bizzarra quanto eterogenea congrega, unanimemente dedita a deformare e sporcare la memoria del grande poeta. Ecco il finale dell’articolo: "Consegno la memoria di Dino ai film melensi, alle biografie deliranti o troppo circospette, ai "chissà!" e alle strizzatine d'occhi, ai premi letterari a lui intitolati e alla compagnia di villeggianti che ogni estate si riunisce a Marradi per assegnarli. Hanno vinto loro. Addio, Dino."
Ma chi è Geribò?
Indagine a cura della redazione
L’origine del nostro Direttore è piuttosto misteriosa, si dice che sia nato a Firenze e si sia trasferito per motivi di lavoro ad Oneglia (che adesso si chiama Imperia), in Liguria.
Gli è rimasto infatti un leggero accento toscano.
Altri lo vogliono ormai da secoli in pianta stabile all‘Inferno, quello immaginato dal suo cugino Dante, altri ancora giurano di averlo visto recentemente pranzare, insieme a un collaboratore della nostra rivista, alla trattoria Sanesi in quel di Lastra a Signa.
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