
INEDITI DI CAMPANA NELLA TESI DI LAUREA
DI FRANCO MATACOTTA
a cura di Cino Matacotta
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L’ultima sezione de “Dino Campana e del sogno come mito”, elaborata nella prima metà del 1938, riporta per la prima volta sei composizioni poetiche tratte dalle carte campaniane che stavano nella soffitta di Sibilla Aleramo in Via Margutta.
La breve introduzione fa intendere che le liriche trascritte fossero contenute in un taccuino, gualcito pure lui come il volume di Villon citato prima, e che dalla pubblicazione del 1949 sarebbe stato conosciuto come Taccuino Matacotta.
In realtà nel quadernetto di Campana appare solo “Poesia in prosa” mentre gli altri cinque titoli si trovano fisicamente in fogli separati.
Fin dalla primissima testimonianza della frequentazione da parte di Franco Matacotta delle carte di Dino Campana viene quindi proposta questa evidente disinformazione che poi viene ulteriormente ribadita nelle successive pubblicazioni e si mantiene per lungo tempo.
Il punto di interesse sta nel fatto che l’elaborazione del capitolo di tesi su Campana antedata di almeno tre anni l’accesso di Franco Matacotta al carteggio Campana. Questa prima frequentazione avviene quindi in un periodo esente da contrasti tra Franco e Sibilla; siamo infatti alla vigilia del loro soggiorno caprese dove invece la coppia comincia a manifestare le prime difficoltà.
E’ difficile pensare che Sibilla non avesse seguito il lavoro di Franco e impossibile ipotizzare che non l’avesse nemmeno letto.
Risulta dunque ragionevole supporre che i due avessero accuratamente concertato quale materiale inedito rendere pubblico, per quanto una tesi di laurea possa dirsi pubblica, e in quale forma.
Ne conseguirebbe, condizionale d’obbligo, che l’inserimento surrettizio delle poesie dedicate a Sibilla nel taccuino che Campana “portava sempre con sé” mirava a proporre uno scenario di composizione meno direttamente coinvolgente di quanto non fosse una scrittura destinata a essere recapitata alla destinataria a stretto giro di posta.
Dicendo la verità ma non raccontandola tutta si tendeva probabilmente a sottostimare il ruolo della Aleramo, relegata a un pur riconoscibile S.A. di un titolo, nella vicenda umana di Campana mantenendone tuttavia la figura di musa ispiratrice in coerenza con la di lei linea di autonarrazione (che Franco nel 1938 certamente già conosceva e che forse ancora per poco avrebbe apprezzato).
In un taccuino gualcito che Campana soleva portare sempre con sé e dove prendeva appunti, segnava l’attacco di qualche verso o una idea o faceva un prospectus, o scriveva una lettera, o annotava le spese della giornata, o addirittura componeva una lirica in un caotico affastellamento di scrittura a lapis a penna di traverso e sottosopra, ho trovato oltre la genesi di A M.N. (Che vuol dire questo titolo? Perché non la si è chiamata Italia?), poesia già pubblicata nei Canti orfici (seconda edizione curata da B. Binazzi), alcune liriche inedite che potranno arricchire l’esile volume. Ricopiate fedelmente dal testo, così come Campana le ha lasciate (forse nella prima stesura?) le trascrivo.
l) PROSA IN POESIA
Un verde bizantino
Sopra un occhio dorato”
Descrivo le lastre a quadri
Dell’isola Maddalena
Per le scale di granito
Ci sono vecchi lampioni
E pure si trova le femmine
All’isola Maddalena
Per le scale di granito
Un organetto che sona
E signorine donate
A un vecchio bon sangue italiano
Un verde bizantino
Sopra un occhio dorato
Sopra le lastre a losanga
Dell’isola Maddalena
Giuseppina si affaccia
E’ tutta vestita di rosso
E suona l’organetto
La casa è di granito
E sona l’organetto
Sotto l’insegna di ruggine
Sopra le lastre a losanga
Dell’isola Maddalena
Nel rantolo dell’ancora
Che stanca la bandiera
Si stanca sul granito
Sopra le lastre a quadri
Dell’isola Maddalena
Coll’ombra dell’occhio dorato
L’abete che riparte
Con cigolii di carene
Dell’ancora portandosi
Solo il segnale la sera
Ch’è stanca la bandiera
Ai monti lontani di A…
Ondeggia la rossa bandiera
Nel rantolo dell’ancora
Sotto i lampioni la sera.
2) Fabbricare fabbricare fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare e disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.
3) FIRENZE 1916
Vi amai nella città dove per sole
Strade si posa il passo illanguidito,
Dove una pace tenera che piove
A sera il cuor non sazio e non pentito
Volge a un’ambigua primavera in viole
Lontane sopra il cielo illanguidito.
4) In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme.
Abbiamo trovato le rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e con le nostre lagrime facevamo le rose.
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
P.S. E così dimenticammo le rose
5) A S.A.
I piloni fanno il fiume più bello
E gli archi fanno il cielo più bello
Negli archi la tua figura
Più pura nell’azzurro è la luce d’argento
Più bella la tua figura
Più bella la luce d’argento nell’ombra degli archi
Più bella della bionda Cerere la tua figura.
6) Sul più illustre paesaggio
Ha passeggiato il ricordo
Col vostro passo di pantera
Sul più illustre paesaggio
Il vostro passo di velluto
E il vostro sguardo di vergine violata.
Il vostro passo silenzioso come il ricordo
Affacciato al parapetto
Sull’acqua corrente
I vostri occhi forti di luce.