Frontespizio dell'originale manoscritto della Tesi di Franco Matacotta,
e i fogli di giornale che l'hanno conservato. Foto dall'Archivio Franco Matacotta
DINO CAMPANA
o del sogno come mito
a cura di Cino Matacotta
Premessa
DINO CAMPANA è l'aspetto epico, l'arte folle di tentare l'unità al destino della sua ragione, di ricondurla alle leggi fatali e impersonabili della natura, facendo dell'umano e del mondo naturale un'unica natura con le stesse leggi, con gli stessi principi e gli stessi movimenti. Questo incontro dell'uomo con la natura si attua per l'arte. Al centro il mondo non è che tranquillo regno di forze che si ridestano periodicamente, per motivo e virtù di melodia. Il mondo lirico, esausto, ma sano, le cui leggi sono precise e dove l'uomo non è che una viva colonna di sangue che assume, in arte, della sua muta armonia, spera sogni imperennemente. Al centro nasce la natura sognante.
I CANTI ORFICI
Che cosa sono i "Canti Orfici"?
In una cartolina postale in francese del 30-7-I9I6, Cloche, come talvolta scherzosamente si firmava, dà una suggestiva definizione del suo libro:
"... je ne saurais jamais vous être agréable a Marradi. C'est un pays ou' j'ai trop souffert et qualque peu de mon sang est resté collé aux rochers de là haut. Mais ça ne se vois péut-etre pas que par moi et vous pouvez voir ça mieux dans les couchants étranges des mes poesies."
Les couchants étranges des mes poesies.
Campana è l'ultimo grido delle generazioni italiane che corrono spaventosamente a bruciarsi nel gran falò della guerra. Il primo ventennio del 900 è un ultimo sforzo dell'800 di salvarsi, è una stremata potenza, un incosciente esaurirsi dell'arte. Quasi tutto ciò che nasce in quel periodo è parassita di una o più forme della genialità ottocentesca, la dialettica è un boccheggiare, la libertà è un arbitrio, e il così detto innovamento dell'arte è un illudersi di poter andare più oltre. (Più oltre di che? Più oltre della grandezza dell'800? "Chi è andato più oltre? Perché io voglio andare più oltre,” ecco il motto, preso a prestito da Whitman, dall'inverosimile Giovanni Papini).
La pittura Preraffaellita, il simbolismo mistico inglese e francese, la monumentalità equestre del D'Annunzio, il sensualismo sfinito del Poema Paradisiaco, il falso misticismo del crepuscolarismo, i nuovi interiorismi di Debussy e Strauss, ultima conseguenza di Wagner, la musica nascente dal clima, e la Voce, la nuova corrente antidannunziana, contraria ai “gesti", vessillifera di una nuova sodezza dell'arte, in nome del Carducci, della nuova cometa di Croce, celebratore dell'umile giornaliero vivere e operare, riducitore di tutta la divinità nell'uomo, e in nome del nuovo messia Jean Christophe. Tempo di teorie, di ritorni polemici, dottrinali, politici, economici, quisquilie, brighe e beghe, tempo di "educazione integrale dell'uomo" di "uomini prima che poeti", tempo dei Don Chisciotte mossi a ventura di terre e vette, e trovatisi in una ridicola impotenza alla conquista (Lemmonio Boreo" e "Uomo Finito"), partenza da favolose cime e caduta nel quotidiano adattarsi. Gente caffeiola, nottambula, sonnambula, funambula di propositi, approfittando del "vuoto" provocato dalla pretesa inattualità dannunziana. Aggiungiamo l'epidemia futurista dal 1909 in poi, sguaiata dannunzianeria in spiccioli, latrinerie, cazzotti, clowns, divertimento artistico, fuochi e giuochi d'artificio, rococò spirituali, gallicismo (la più devastatrice conseguenza del Futurismo è stata la gallioizzazione della lingua e del gusto italiani), materialismo, facile impressionismo, bolscevismo verbale, grottesca mascherata sull'orlo di una guerra mostruosa. Dalla "Voce" a "Lacerba" al "Bollettino Epicureo Spirituale", le riviste si moltiplicarono come le manie, paroliberismo e verlibrismo, tutto un problema della forma per un contenuto inesistente o inconsistente. La guerra sorprese tutti nel putiferio più inconsciente, nel passaggio del "Monoplan du Pape" di Marinetti. In mezzo a questo baccano ragazzesco e donchisoiottesco dei mediocri sul ciglio dell'ultimo pericolo si levava la voce pura e vittima di Dino Campana.
Questo poeta ha pagato di persona lo sperpero del suo tempo malato di estetismo (nonostante la "Voce") e di libertà, e alzando il pugno che chiude Villon, canta un canto che è la condanna della sua generazione, il tramonto definitivo del secolo: “Les couchants étranges des mes poesies". La meteora di Campana è un annunzio di morte, di sfacelo, questo lampo notturno acre di zolfo, che prima di spegnersi e sparire lancia un ultimo disperato appello agli uomini perché ritornino ad una natura pro fonda, ad una umanità pura, perché riconquistino il "mito" dell’"antico animale umano". Mito per attuare il quale, egli è impazzito.
"ABBANDONARSI ALL'IRREPARABILE"
La vita è "un miasme humain". L'umanità è "lache se pourrissant d'elle meme". L'uomo è uno "spettro", una creatura condannata a vivere la solitudine della propria colpa, l'inferno di quella solitudine. "Camminavano velocemente come pazzi, ciascuno assorto in ciò che formava l'unico senso della sua vita: la sua colpa." Da questo stato di colpa bisogna re dimersi, anche a costo della vita. Per redimersi bisogna salvare gli altri uomini, fare degli "spettri" creature "pure". E che cosa fa quest'uomo che in una notte di dicembre, solo nella sua casa, sente il terrore della sua solitudine? "Pensa che fuori degli uomini forse muoiono di freddo: ed esce per salvarli. Al mattino quando ritorna, solo, trova sulla sua porta una donna, morta assiderata. E si uccide".
Il "fuoco" di questa tragedia è la impossibilità di redenzione. L'uomo rimane chiuso nel mare cieco della sua stessa anima, della sua colpa. "Perché era uscito per sa1vare a1tri uomini?". Almeno bisogna salvare sé stessi. C'è nell'uomo una ragione "assurda e mostruosa", alla quale si è proni. Questa ragione è la madre delle innumerabili in giuste cose che riempiono il mondo. Uscire occorre dal giogo di quella. Vivere un'irrazionale vita, vivere la pazzia. Tutto ciò che è razionale è assurdo, è una macchia dell'anima umana e nulla si deve sacrificare a un assurdo. "Noi ci sentiamo puri. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione". Ma per conservare questa purità non si può fare a meno di rompere i legami con i1 mondo, di vivere la "fuga", di "abbandonarsi all'irreparabile", (è sempre insistente in Campana il motivo di questo irreparabile come un cosciente sentimento di fine), all'irreparabile, pur di non cedere vinto alla ragione. E a costo della fine, del tramonto.
Una volta infranto l'accordo con il reale, con il pratico, con il contingente ingiusto, il mondo sfugge come acqua, e tutto si fa evanescente. Eppur se ritorni al poeta un minimo desiderio di riconquistarlo, è vano sforzo, e ogni volta egli paga con il suo sangue. Qui ha principio quella spaventosa "fuga" dalla vita, verso i rifugi delle mille "Chimeres fulgurantes", verso uno stato di realtà accettato come un prezzo del riscatto della propria anima, fuga verso i sogni, verso la "illusione universale". "Dalle profondità del mio essere e della terra io ribattevo per le vie del cielo il cammino degli uomini verso la felicità a traverso i secoli". Questa corsa alla "illusione universale" ha la velocità del "cataclisma", come quella di un treno che pare non si arresti mai: "e tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca fantastica infrenabile". Illusione, ma che importa? Campana è l'uomo votato, la sua coscenza è una coscenza di perduto alla vita, di vittima.
VITTIMA
Vittima. Come si spiegherebbero altrimenti le sue così dette manie di persecuzione? Ci sono infiniti controsensi e contradizioni in quest'uomo che sente di affondare irreparabilmente (è la sua parola) e pure vuole salvo di sé qualcosa, e tenta di riaggrapparsi al mondo e subito se ne stacca. (Il mondo più volte lo ha rigettato nella solitudine orfica del suo canto). La verità è che egli fin dal tempo dell'adolescenza non si è sentito più in accordo con la natura di cui era parte, ed è andato immediatamente alla deriva. Però la sua opera segue l'avvicendarsi di quella disgregazione mentale che doveva fatalmente concludersi. Ma una giustificazione egli tenta continuamente di darla alla necessità della sua "fuga". "Illusione universale", come sono senza speranza queste due parole! E questo riassumere in sé l'illuso cammino degli uomini verso la felicità, sì da sentirsi lui, Campana, una specie di depositario e diciamo anche, senza frainteso, messia dell'aspirazione umana, è già un giustificare il proprio stato di vittima. Perché vittima Campana si sentiva, e, ripeto, non solo per questo suo destino di poeta. E che cos'è Orfeo cantore che ammansisce le fiere e muove le pietre (si badi a queste immagini della mitologia) se non un solitario raccoglitore di questa brama assoluta di felicità umana, riavvicinata alle fonti più pure della natura, conciliata con l'uomo? Orfeo è perseguitato e infine sbranato dalle Tiadi inferocite, Campana è inseguito e ucciso dalle Chimere folgoranti (folgoranti, anche questa idea della fulgurazione non è significativa?).
IL MITO DELLA TORRE BARBARA
Il dramma di Campana è un dramma di adolescenza. Di una adolescenza sola, che si ascolta senza che nessuno ascolti, staccata da tutto, tormentata. Che cosa è avvenuto nella fanciullezza di questo poeta?
Poiché è là che bisogna scavare, nell'età dove nascono le impronte, do ve le impronte vivono una loro vita oscura che dissolve e alimenta.
"L'infanzia e l'adolescenza di quel figliolo è stata maravigliosa. Pacifico, bello grasso ricciuto intelligente di due anni diceva l'Ave in francese, era da tutti invidiato. Di un'ubbidienza e bontà eccezionale, i suoi professori di ginnasio e liceo lo dicevano di un ingegno non comune, a noi genitori dicevano "sarà la loro consolazione”. Ora sono stata costretta a dirle: per compatirti grande bisogna che mi richiami alla mente i tuoi primi anni e non basta. Lo crede che spero in un'altra trasformazione?" Così la madre di Dino, Fanny Campana, delinea il ritratto del fanciullo in una lettera inedita del 5-3-I9I7, accompagnata da un'immagine della Madonna delle Grazie. E pare un ritratto di fanciullo quasi prodigio, almeno agli occhi materni. Ascoltiamo ora il poeta stesso in una pagina della "Notte":
"Ero giovine, la mano, non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di stanchezza...... mia ansia del supremo amore, della fanciullezza tormentosa assetata. Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era un'ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull'abisso. Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero".
Dunque, dramma di un cuore di "bontà eccezionale" che non trova punti di contatto e accordo con la vita universale, mancanza di sostegno, ansia dell'introvabile, dell’impossibile supremo amore. E questa adolescenza rimane in lui, non è superata, sì che tutta la vita avvenire è i1 riflesso di quell'esperienza, la disperazione di non poterla uccidere, la voluttà di aggrapparsi al suo mistero che gli si tramuta in canto. E Campana dopo aver vissuto e posseduto la propria adolescenza come la sintesi suprema della vita, fu costretto a dover rinunciare al tempo avvenire, e chiuso in questa "torre" fuori del tempo e del mondo in lui rimase "la notte" del seme che sta per aprir si, e il dramma degli uomini divenne un dramma di forze misteriose o scure a lui. "Spettri". Quanti fatti e avvenimenti esteriori della sua vita testimoniano l'assoluta mancanza di maturità? E quando amò, amò dissennatamente, fuori di ogni realtà, come avviene negli adolescenti, e nell'amore (quando si daranno alla luce alcune lettere che sono canti di passione e follia amorosa apparirà giustificato appieno quanto dico) nell'amore fu un fanciullo che in ogni attimo che riesce a possedere, consuma a brucia la vita intera. Come lo si doveva soste nere e sorvegliare e cullare e lusingare! E i suoi momenti di quiete erano sogni silenziosi, i suoi fulminei furori, sogni allucinati. Di una ingenuità estrema, in un cuore premuto da un'angoscia incomunicabile e con la quale non si poteva comunicare, "ansia del segreto delle stelle" dolore fuori della vita, del corpo. Disumano dolore.
Più volte definito è nei "Canti" questo arrestarsi della sua vita e della sua immensa passione nel cieco muro della torre “custode dei sogni dell'adolescenza". "L'acqua del molino corre piana e invisibile nella gora. Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull'erba. Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell'infinità delle morti!...” Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l'acqua scorre immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni giorno l'ombra.... Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia nostalgia? Così immobile laggiù: come il mio cadavere."
E nel preludio della "notte” che è preludio all'intero libre, dice:
"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa sulla pianura sterminata nell'agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell'acqua morta le zingare e un canto, dalla palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso."
Staccato dai limiti, evocato, questo paesaggio notturno della sua adolescenza al quale egli muove come a un viaggio nell'aldilà tentando di risuscitare i volti, i profili, le voci per mezzo dell'incantamento della sua nostalgia, assume la intensità e la ineffabilità di un mito.
LA NOTTE
Di questa strana sinfonia orfica la "Notte" è il preludio e preludio che annunzia tutti i temi fondamentali: e l'intero libro potrebbe definirsi un canto notturno dell'anima. Ma questa "Notte" è qualcosa di intimamente aderente al dolore di Campana, è i1 canto della sua adolescenza, quindi la fonte prima della sua esistenza. E' il canto delle Ricordanze. Una passione a nudo, una piaga toccata con mano, una "scarnificazione del sogno". E insieme un'accorata nostalgia e un indugio lento e compiaciuto, quale non ritroveremo in altri canti più liberati. L'adolescenza di Campana qui all'aprirsi del libro come un annunzio di morte, ma intanto, pur nel ricordo di un primo patimento innaturato, della prima rottura con la legge assurda del mondo ("la mia vita era tutta un chinarsi sull'abisso"), del desiderio estremo d'assoluto ("mia ansia del supremo amore"), della prima e tremenda domanda al cielo ("ansia del segreto delle stelle"), e della prima risposta spietata del cielo ("i bagliori magnetici delle stelle mi dissero dell'infinità delle notti"), arde la coscienza viva che, nonostante tutto, quello era il tempo di "una divina serenità perduta"; divina, fuori della realtà e della vita. Era mito.
E ora, di ogni immagine, figura, voce, lume, forma, si risale al mito: "inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio". E il poeta muove alla evocazione perfino del mito di sé stesso:
"inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell'adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenio enorme la torre, ottocuspide rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città".
Tutto qui avviene per atti di magia, per incantesimo, per musicali baleni: "un tocco di campana argentina e dolce di lontananza: la Sera". Da questo inferno dolce della natura e della vita notturna nascono improvvise forme, riassunte e fissate nella loro luce: "dei vecchi, del le forme oblique ossute e mute si accalcavano spingendosi coi gomiti perforanti, terribili nella gran luce". Questa luce si agita, si muove, fruga scopre le forme le suscita dagli antri dell'ombra. Sono "ricordi di suoni e di luce". E' una ininterrotta allucinazione, nella quale passano fuggendo le donne delle prime avventure fra gli urti della sua anima accostata all'amore alla "pena eterna dell'amore". "Un'antica e opulente matrona, dal profilo di montone, coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale barbaramente decorata dal l'occhio liquido come da una gemma nera dagli sfaccettamenti bizzarri sedeva, agitata da grazie infantili che rinascevano con la speranza traendo essa da un mazzo di carte lunghe e untuose strane teorie di regine languenti re fanti armi e cavalieri. Salutai e una voce conventuale, profonda e melodrammatica mi rispose· insieme ad un grazioso sorriso aggrinzito. Distinsi nell'ombra l'ancella che dormiva con la bocca semiaperta, rantolante di un sonno pesante, seminudo il bel corpo agile e ambrato. Sedetti piano". Sono dunque in tre, in questa mitica magia della sera "languida amica del criminale, galeotta delle nostre anime oscure, e i suoi fastigi sembravano promettere un regno misterioso". E che cosa fanno? "La sacerdotessa dei piaceri sterili, l'ancella ingenua e avida e il poeta si guardavano, anime infeconde incosciamenti cercanti il problema della loro vita."
La fanciullezza di Campana s'apre al mistero amoroso violentemente e ne rimane piagata. Quella fanciullezza che "rasserena perfino i visi bruni degli autocrati tanto da farli divenire profondamente limpidi nella luce" ha perduto il proprio candore. "Le vedute" mutano d'incanto. "Tutto era d'una irrealtà spettrale. C'erano dei panorami scheletrici di città9 dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose legno se". Ormai il poeta fanciullo è trascinato dietro la chimera d'amore, e la segue come s'insegue un "sogno che si ama vano". Trascorrono queste "antichissime fanciulle della prima illusione......, volte di tre quarti, udendo dal sobborgo il clangore che si accentua annunciando le lingue di fuoco delle lampade inquiete a trivellare l'atmosfera carica di luce orgiastica: ora addolcite: nel già morto cielo dolci e rosate, alleggerite di un velo...... Ricordi di zingare, ricordi di amore lontani, ricordi di suoni e di luci: stanchezze d'amore, stanchezze improvvise sul letto di una taverna lontana, altra culla avventurosa di incertezze e di rimpianto..... " E queste forme femminee sono forme della luce, ridotte alla luce che sprigiona da loro. E' tutta la vita bolognese del poeta, le avventure con le bolognesi "le sartine levigate e flessuose". La "Notte" è un canto dissennato di lussuria, di una lussuria "piena di curiosità irraggiungibili" E questo amore selvaggio e lussurioso è una fuga disperata dall'incubo che grava la sua giovinezza. "Dapprima mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di sogno con le mille punte nel cielo, vidi le alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall'infinito del sogno". Allora questo amore si dilata, nutrito della luce alpestre si solleva un mistero della "notte mistica dell'antico animale umano”, tocca il fondo remoto e puro della natura, diviene una forza elementare della natura, "un'ombra di eternità". "E allora figurazioni di una antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi di orgie si crearono avanti al mio spirito......" E la donna diviene "l'eterna chimera". Ora Campana tocca uno dei vertici più luminosi del suo canto. L'amore trasfigurato in qualcosa di ricco e strano gli detta una delle pagine più commosse e musicali della letteratura moderna: "O il tuo corpo! Il tuo profumo mi velava gli occhi"
Così si chiude la "Notte" poema scaturito nella veglia d'amore; e della allucinazione, del timore, dello sgomento, del desiderio, della lussuria, nella pura forza liberatrice umana reca il riflesso, or nelle concitate immagini, or nel fantasticamento, or nelle evocazioni, or nel limpido inno mistico, ed è tutto un crescendo di luci, di profili di voci di preghiere, un insieme di "leggere spole tessenti fantasie multicolori, opime di messi d'amore, polvere luminosa".
IL MESSAGGIO
Aggirarsi in questa perpetua notte è come aggirarsi in un nuovo Inferno, un Inferno dove è crollato un intero mondo, e fra solitari relitti di città stanno accovacciate voci che improvvisamente si destano, profili che si illuminano, forme che si colorano in movimento. Ogni dramma fra uomini è caduto, né mai ne torna memoria. E la vita è ridotta alla essenzialità suprema del rapporto fra la forza dell'uomo e la forza della natura. L'uomo è un elemento, fra elementi, nella notte mitica dell'universo, che è un simbolo, e svelarlo vuol dire la notte perpetua dentro il petto umano, dove tutto che vive è mistero e destino di cecità. L'unico spaventoso coraggio di Campana è stato quel lo di infrangere fino all'ultima struttura remota la falsa disumana architettura di questo vivere degli uomini secondo umanità, che è come una seconda natura soprapposta alla prima, alla natura delle stelle, dei fiumi, delle rocce, delle forze cieche e vergini. Anche la vita secondo umanità è un abbaglio; è un sacrificare all'assurda ragione, e l'uomo della notte di dicembre deve uccidersi. Spolpato di finzioni sociali, e di razionalità, l'uomo ritorna la cellula dolorante di esistere, sperduta nella notte del mondo, quando tutto ciò che vive è nello stato di trasmutamento, di larva, di germe, di musicale fantasma. Dolce inferno di spiriti puri che scontano la loro innocenza. E invece di invettive odi preghiere. Dovunque, è un trascorrere di elementi in colorato urto (o accordo?), di limpide energie, di primitive forze che si struggono dal desiderio di creare, e questo solitario cuore dell'uomo perpetuamente erra dietro la propria espressione. Tale rifugio dell'uomo nel grembo più fondo e oscuro della natura significava per Campana un estremo tentativo di scoprire questo segreto cosmico e di muovere alla felicità? "Ansia del segreto delle stelle, chinarsi sull'abisso". Coraggio spaventoso ho detto, e Campana ha pagato con la disgregazione del proprio cervello. Ma la sua pazzia è un messaggio per gli uomini di buona volontà, un messaggio emerso dal tramonto immane di tutta una storia, nell'incendio della guerra, un messaggio simile a questo:
"Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare
Sorgenti, sorgenti che sanno
Sorgenti che sanno che spiriti stanno
Che spiriti stanno a ascoltare…"
I CANTI NOTTURNI
I "Canti Orfici" sono un unico grumo melodico, e le parti sono membra di uno stesso martoriato corpo, ciascuna illuminando e giustificando l'altra. Ma c'è un motivo fondamentale che ritorna insistente e traspira anche là dove è taciuto, perché è l'ossigeno che dà vita a questi canti e trascorre come un sangue oscuro. La Chimera. Tutto il libro non è che canto della Chimera, "poema di voluttà e di dolore". E la sua vita non è che vita della Chimera. Da questa "giovine/ suora della Gioconda" deriva ed è alimentata la sua poesia.
Essa è la "Regina della melodia" per il cui "vergine capo / Reclino, io poeta notturno/ Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo, io per il tuo dolce mistero/ Io per i1 tuo divenir taciturno.” E poiché la Chimera è un “divenire”, è l'unico divenire in mezzo a un mondo di immobilità misteriose o di fatalità dolorose che perpetuamente trascorrono, a quel divenire si affida la vita del poeta come a un rifugio:
LA CHIMERA
Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso,
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
di voluttà e di dolore
musica: fanciulla esangue,
Segnato di 1inea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per i1 vergine capo reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi dal cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli i1 vivente
Segno dal suo pallore
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce su1 mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le b1anche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algidi
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
“Regina adolescente” è definita la Chimera. E ne risulta avvalorata quella mia fissazione sullo "stato di adolescenza” che è necessario scoprire e sollevare dal fondo remoto della tragedia di quest'uomo infelice, di questo geniale poeta. Adolescente, che ha covato un mito, mito del mondo e mito di sé, trepidante adolescente al quale la vita passava avanti "nelle immortali forme serene”. Che cosa sono le "Chimeres Fulgurantes” se non queste immortali forme serene, questi stati di mito, questo “sogno”? – “Ed io gli occhi alzavo su ai mille/ E mille occhi benevoli / Delle Chimere nei cie1i”.
C'è stato addirittura un "patto col cielo": ma nell'ora critica della presa di contatto con 1a vita reale nella quale ogni esistenza deve ingranarsi come nei denti di una ruota, Campana si è sentito mancare
la necessaria forza. Forza? la sua malattia mentale in agguato glielo ha impedito? o c’è stata più verosimilmente una decisa e ostinata volontà e consapevolezza? E' andato alla deriva irreparabilmemte. “Liberamente” egli dice, “ ci abbandonammo all’irreparabile”.
Come si può salvare in questo crollo nell'abisso, in questa fuga dalla vita "il sogno”? Il mio sogno vanito / nei gorghi della sorte”. Non rimane che \un "ricordo"; e questo ricordo Campana ormai disfatto nell'estreme pagine dei Canti, prega di poter “specchiare” in una pace uguale. E' uno dei climi più nostalgicamente poetici e ineffabili di questo libro di preghiere:
"O se come il torrente che rovina
E si riposa nell'azzurro eguale,
Se tale alla tue mura la proclina
Anima al nulla nel suo andar fatale,
Se alle tue mura in pace cristallina
Tender potessi in una pace uguale,
E il ricordo specchiar di una divina
Serenità perduta o tu immortale
Anima ! O Tu !"
PAESAGGIO
Il paesaggio si riflette in Campana come "un ricordo incantevole e orrido in fondo al cuore". Suscitato e evocato dal fondo subcosciente a forza di incantesimi, esso ricorre come una melodia cupa, come una ammonitrice apparizione di origini. In un "segno catastrofico" giacciono stelle rocce acque, le quali riassumono, plasticamente gli stati d’animo del poeta, 1i esprimono sì che questa natura mitica diviene il riflesso del sogno di Campana, e Campana si sente partecipe di quella sorte cosmica. E' uno scambio incessante di stati, di moti, una comunione di forze, Paesaggio sognato. Paesaggio geo1ogico, analizzato e scarnificato con la esatta misura scientifica, fino a scoprire un'anima, e un tragico tellurico. "Gli ammucchiamenti inquieti d1 rocce all'agguato dell'Infinito" "La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un cavallone pietrificato che lascia dietro sé una cavalleria di screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù..." Una natura che .si muove come qualcosa di umano, dove Campana scopre i punti sensibili, le nevrastenie, gli incubi e le allucinazioni un paesaggio spellato e scorticato, tutto nervature arterie carne viva. E perpetua la domanda al cosmo, la sua avventura di scopritore. "La tellurica melodia della Falterona, le onde telluriche ..." "Le enormi rocce gettate in catastrofe da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva ricoperte di verdi selve purificate poi da uno spirito di amore infinito”.
“Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos. Il tuo abitante porge la notte dell'antico animale umano...”
“Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenacia solitaria che consolano il cuore degli uomini. E dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo al fascino di lontani miraggi di ventura che ancora arridono dai monti azzurri: e a udire il sussurrare dell'acqua sotto le nude rocce, fresca ancora delle profondità della terra... “
E' un cammino verso "la sanità delle prime cose" un viaggio alla riconquista della terra. Il capitolo "Ritorno" si apre con un prospetto sintetico della mitica concezione lirica della natura.
L'acqua e il vento
La sanità delle prime cose –
Il lavoro umano sull'elemento
Liquido - la natura che conduce
Strati di rocce su strati – il vento
Che scherza nella valle - ed ombra del vento
La nuvola - il lontano ammonimento
Del fiume nella valle -
E la rovina del contrafforte - la frana
La vittoria dell'elemento – il vento
Che scherza nella valle.
Sulla lunghissima valle che sale in scale
La casetta di sasso sul faticoso verde:
La bianca immagine dell'elemento.
Ma la natura è per Campana sempre un rifugio dal male, dalla ragione e dall'assurdo. Un lavacro di purità nel quale egli si immerge come in un sogno. Solo che il suo inestinguibile male di voler "scarnificare il sogno" gli trasforma quella natura che è riposo e ristoro in un nuovo martirio.Poiché questo supremo lirismo di Campana fatto di luce rarefatta e di toni sostenuti in climi alpestri e vertiginosi è il risultato dell'urto continuo dentro di lui tra il bisogno di sanità e - una volta raggiunta - la sanità avvelenata dal suo grumo di disperazione. Contradizione di questa vita perduta alla vita, mito e realtà, amore e morte, donde questo sprigionar forte di scintille, di sprazzi luminosi, di spettri e suoni scaturiti dall'ombra, quale mai si era veduto nella figurazione lirica del mondo espressa dall'arte italiana, se non forse e per taluni rispetti nell'accesa laude di Iacopone. Ma questa natura è Campana, è il suo esperimento umano, è la sua pazzia prima nello spirito, poi nel cervello. Né si può dire dove cominci o termini in lui l'influsso di correnti o di scuole o di altrui esperimenti, tanto è personale e vestito della sua folle anima questa sintesi spregiudicata di amore e morte che è l'opera di Campana.
Nella "Verna" si apre un angolo estatico. Essa è una rigenerazione un'attesa di miracolo, un'ora profetica. Spira qui un casto alito, un sogno di chiostri e nude celle, di povere umili figure a piedi scalzi, in una solitudine mistica. Che cos’è quest'inno a Francesco a metà libro? Il sogno catastrofico del paesaggio tellurico appare pacificato per incanto, “purificato da uno spirito di amore infinito".
La contemplazione della Verna e il pio assorbimento di questo senso cristiano diffuso nel paesaggio giunge inaspettato, e nella pagina più limpida e melodiosa dei Canti Orfici.
“Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tor tora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sulle ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grigie nel crepuscolo, tutt'intorno rinchiuse dalla foresta cupa..."
E' un annunzio di pace. E Campana rassicurato e purificato da questa visione si prepara ad accogliere in sé tutta la remota e profonda significazione di questo mistero francescano. Pare un riconoscimento tra fratelli nella ritrovata patria. Questo nuovo Francesco delittuoso scopre qui a contatto con la povertà e la nudità una somiglianza dello spirito? Una somiglianza del suo messaggio? Non che si tratti di conversione. Tutt'altro. Nulla di più alieno dalla sensibilità mentale di Campana. Ma certo questa pagina di fresco lavacro e di stupo re non è una pagina letteraria. C’è - ed è la seconda volta dopo quella del mito amoroso - una presa di possesso con le forze più secrete della vita e del cosmo. E quest'inno a Francesco è un atto di amore che solo la poesia di Dante ha superato.
CANTO MEDITERRANEO
“Figurazione di un'antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi, di orgie". Così Campana definisce i Canti Orfici. E lo sfondo di questi miti è il cielo mediterraneo.
"Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltano, di lampade che si accendono, chi ti inscenò nel cielo più vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d'oro, nel mentre a l'ombra dei lampioni verdi nell'arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea?"
E difatti l'ora di questi miti è l'ora notturna, ma il sole non è uno stato, bensì un sentimento comune agli uomini e alle stesse cose. Tutto qui è permeato e nutrito di sole, di calore estivo, il tessuto del canto è solare. E dove la notte più sprofonda sulla terra tentacolare, ivi è una suprema memo ria di luce, un sentirsi oltre l'oscurità, in un sogno popolato di vividi sprazzi e colorati baleni. Tutto ciò che ha forma in questi Canti esprime la sua forma in luce. L'oro predomina. E la materia è tutta allo stato incandescente. Una materia in movimento. Così questo perpetuo nomade in cerca di patria, di tutti i paesaggi a le terre e i cieli italiani fa un unico canto che è il canto della razza mediterranea.
E per la prima volta appare il miracolo verbale evocatore della più remota anima della nostra terra e del nostro cielo.
"Decrepito cielo, padre nobile di tutta la letteratura nazionale, chi meglio di te ha espresso la grazia e il dolore di tutta la poesia italiana?" (Da un taccuino inedito).
Un riaccostamento alle fonti, una scoperta di fonti, questo è Campana. E nella luce della notte mediterranea egli intravede il mito a venire di una umanità riavvicinata al cuore della natura, in purità e nudità di una umanità cha si esprime come natura orfica.
TECNICA
Campana giovinetto fu avviato allo studio della chimica. Disertò ma chimico rimase nei canti, travasatore di fiale, di filtri, a contatto di veleni dai colori più vividi, più cangianti di vetri iridescenti, di trasparenze, di distillazioni. In lui la natura estetica o di simboli dell’ultima letteratura si interiorizza per miracolo sotto il cervello dove comincia la disgregazione e riappare in rapidi intermittenti baleni interni. E' una natura scaturita dal sangue, ancora accesa e ancor trepida, un mito dell'anima che cerca disperatamente nella tragedia un comporsi in serenità e non riesce, natura frantumata e accordata alle pulsazioni del cuore, colta come si colgono fiori in orto. C’è un paganesimo nella sua interiore solarità e nudità e elementarità, nel suo timbro dell’ossa, nella stagione dei canti. Mentre tutta l'espressione formale è romantica.
Sono successivi stati lirici, ciascuno in sé compiuto ed esaurito, senza echeggiamenti, ciascuno come un'epigrafe. Dunque, non impressionismo, (se non in rare pagine dove influenze settarie giunsero ad alterare la nativa compagine melodica), ma sintesi, come è stato detto. Comunque classificati (se si può classificare un'opera di musiche colori e suoni come questa di Campana breve e inafferrabile, esigua e pur traboccante d'ogni parte)i Canti Orfici restano come alto documento umano della difficile età prebellica, questo libro di divozione poetica, apparso come un lampo notturno, richiamo a una natura profonda, piena di ossigeno e alpe viva, canti d'alta quota, dove il cuore batte più veloce e la luce vibra, sensibile contrattile e rarefatta."
Sogni, abitati di immagini plastiche" vedute in iscorcio come nei sogni. Ma questa plastica è fittizia, s'indovina, non si vede, si sente. Le figurazioni sono atti di luce. Le forme sono perdute nell’ombra, appaiono unicamente dove la luce le fruga e le fa nascere. A volte sono suoni che emergono dal fondo di acquari. E improvvisamente, come per colpi di magiche bacchette. E le contradizioni della sensibilità di Campana sono urti di poli opposti che sprigionano scintille.
Ed elettrica è l’energia che scorre dentro questo libro dell' appressamento della morte, dove si tenta di ristabilire i contatti (ed è vocabolo di Campana e proprio nel senso elettrico con le forze del cosmo, dove si auspica l'avvento del "uomo nuovo”:
“ E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con letizia l 'uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato con la natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi itali nascere alle profondità dell'essere: fluire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito.”
L’espressione di Campana è un'espressione di ineffabile e di incorporeo: luce, colore, suono, luce sono i ritratti, e le forme. "Carni rosse – sagome nere - pelle ambrata- corpo dorato - visi. limpidi ne lla luce - ginocchia ambrate – mammelle gonfie di luce - occhi che nel chiarore velano il nero - mitici pallori – fiamma pallida dei capelli – fanciulla come una melodia blu - chiarità perlacea dei visi…”. Luce e colore sono i paesaggi. Predomina il rosso: "città rosse di mura - muri rosseggianti - gravezza rossa nell'aria - gocce di luce sanguigna - stelle brillarono rosse - come una mostruosa ferita profondava una via - Sole che insanguina le aiuole - nella stanza una piaga rossa languente - rossa velocità di luci – ali rosse dei fanali - giubba rossa delle stelle - tramonto di torricelle rosse - baccante rossa - coltrice rossa – atmosfera carica di luci orgiastiche - sentieri di chiari e …”
Le donne talvolta appaiono anziché come luce e colore, come suono:
"e, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della notte dall'eco che nel seno petroso le rifondeva, allargate, perdute. il canto fu breve: una pausa, un commento improvviso e misterioso e la montagna riprese il suo sogno catastrofico. Il canto breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente nella cadenza millenaria la loro pena breve e oscura e si erano taciute nella notte …"
E descrizioni di città fatte magicamente, per incontri di occulte musiche, s'aprono improvvise come emerse dalle nebbie aeree, come questa:
aggiunto a penna: nonostante il plagio del I ditirambo dell’Alcione di D’annunzio
“Fiorenza giglio di potenza, virgulto primaverile. Le mattine di primavera sull'Arno. La grazia degli adolescenti (che non è grazia al mondo che vinca tua grazia d’Aprile) vive vergine continuo alito, fresco che vivifica i marmi e fa nascere Venere Botticelliana:
I pollini del desiderio gravi di tutte le forme scultoree della bellezza, l'alto Cielo spirituale, le linee delle colline che vagano, insieme a la nostalgia acuta di dissolvimento alitata dalle bianche forme della bellezza…"
O la visione della pianura di Romagna:
“Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile a mitica dorata dell’enigma delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra arida là dove si perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce liturgica risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da qual ritmo sacro a me commosse sorgevi: già inquieto di vaste pianure, di lontani miracolosi destini: risveglia la mia speranza nell’infinito della pianura o del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia: nobiltà carnale e dorata, dagli occhi: guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica Romagna.”
E la Pampa così piena di lussuria. E la pagina suggestiva di Monte Filetto, che a d'Annunzio piacerebbe:
“Un usignolo canta tra i rami del noce. Il poggio è troppo bello sul cielo troppo azzurro. Il fiume canta bene la sua cantilena. E’ un’ora che guardo laggiù lo spazio e la strada e mezza costa del poggio che riconduce. Quassù abitano i falchi. La pioggia leggera d'estate batteva come un ricco accordo sulle foglie del noce. Ma le foglie dell’acacia albero caro alla notte si piegavano senza rumore come un’ombra verde. L’ azzurro si apre fra questi due alberi. Il noce è davanti alla finestra della mia stanza. Di notte sembra raccogliere tutta l’ombra e curvare le cupe foglie canore come una messe di canti sul tronco rotondo lattiginoso quasi umano: l’acacia sa profilarsi come un chimerico fumo. Le stelle danzavano sui poggi deserti. Nessuno viene per la strada…"
Il modo di comporre di Campana è quasi mai di getto, nella sregolatezza della prima ispirazione, ma lento e ostinato, è un vero battere e modellare il ferro incandescente. Brani come questo:
"come dalla vicenda infaticabile / Delle nuvole e delle stelle dentro del cielo serale / Dentro il vico marino in alto sale / Dentro il vico chè rossa in alto sale / Marino l’ali rosse dei fanali...”
non sono affatto disordini mentali, ma prove, assaggi musicali. Campana si ripeteva un versetto fino alla stanchezza, pur di scoprirne l’armonia definitiva, essenziale. E tutte le ripetizioni, i così detti disordini verbali così frequenti, non sono altro che esperimenti lasciati grezzi, pubblicati senza essere riveduti , e brani che dovevano essere rielaborati, comparvero così nello stato caotico in cui erano nati. Nel taccuino inedito di cui parlerò più innanzi, la canzone Italia e scritta con questo metodo. Ossia le parole, i suoni provati come sopra una tastiera, lentamente accordati e combinati fino a raggiungere la loro musica definitiva. E un verso è più volte ricopiato, la lirica più volte distesa, più volte spezzata, più volte ricopiata. E un solo gruppo di suoni ancor ruvido ritorna alla prova sotto la lima che deve livellarlo farlo puro. Il nome di Poe è stato fatto dai critici non giustamente. C'è una lista di poeti stranieri trovata nelle carte di Campana. Essi sono: De Vigny, Ronsard, Wilde, Rostand, Daudet, Jean Lorrain, Scekspeare (!), James, Eschilo, Prudhon, Excamp, Jean Rictus, Mistral. Strana lista, caotica, dove scopriamo Jean Rictus, il poeta con cui più che con tutti gli altri Campana ebbe più facile dimestichezza (bisognerebbe tentare uno studio di confronto fra i due poeti) accanto a Rimbaud e Baudelaire e Pascoli (Barche ammarate: le vele le vele le vele) e Villon, il cui libro portava sempre con sé postillato e gualcitissimo. Nessun parallelo regge tra Campana e Rimbaud. Campana era una forza cieca allo sbaraglio, piena di sana e casta sensualità, un ardente cuore mediterraneo, un mediatico interprete di alcuni segni oscuri della vita. Rimbaud e un’intelligenza suprema che gioca sul filo dei pericoli, mille vette delle sensazioni estreme, una logica dell'illogica, una sensualità viziata e prestigiatrice.
Ma se influssi ci furono, essi non intaccarono l'originale grumo di canto che Campana recava dentro di sé. Eppure, nonostante questa impetuosa novità tragica, pochi si accorsero di lui, e tra i pochi è giusto ricordare Emilio Cecchi e Bino Binazzi. Più tardi Alfredo Gargiulo iniziò la serie di studi che sopra il poeta della Chimera va ora fiorendo per opera sopratutto dei giovani.
Riprendere in mano il testo dei Canti Orfici è religione dei giovani, ed è ciò che da più parti si sta facendo, per ricollocarlo nella giusta luce della storia poetica italiana. Perché Campana è un’era nuova nell'arte che chiede di esser ascoltata.