Dino Campana
di Paolo Mayerù
Da: Il Meridiano di Roma, 22 marzo 1942
Enrico Falqui ha curato la terza edizione dei « Canti Orfici » di Dino Campana recentemente pubblicata da Vallecchi di Firenze poi che la seconda edizione – pubblicata dallo stesso Vallecchi nel 1928 a cura e con prefazione di Bino Binazzi – non dovette piacere eccessivamente all’autore il quale dal Manicomio di Castel Pulci si raccomandava di servirsi del testo di Marradi e delle riviste che stamparono I suoi versi per la prima volta, per un raffronto e relativa correzione. L'opera risulta così organica e definitiva secondo, cioè, la struttura che intendeva darle il suo autore.
Tuttavia se il libro poteva considerarsi chiuso ad ogni ulteriore manipolazione, non era in esso tutta intera l’espressione poetica di Dino Campana ed ecco lo stesso Falqui aggiungere ad esso un altro notevole volume ricavato da u quaderno trovato dai familiari del poeta nella sua casa e dalle esclusioni della seconda edizione dei « Canti Orfici » ( Dino Campana « Inediti » – Vallecchi – Firenze, 1942 – XX.
Dino Campana si presenta, così, per la prima volta al mondo ed alla critica non per un postumo giudizio, ma per essere compreso, penetrato e forse anche amato o più semplicemente stimato. Diciamo subito che al raggiungimento di questi giustissimi scopi concorre in gran parte l’opera del Falqui il quale aggiungendo ai testi una serie di note poste in appendice ai due volumi, oltre che portare molta vera luce sulla vita di Campana, sistema definitivamente l’opera del poeta.
Anzitutto Dino Campana non si reputò mai un « infelice » anche nel periodo più grave della sua malattia e poi le note stesse, lasciando la parola al Campana, dimostrano l’intimo equilibrio dello spirito del poeta anche se la possibilità di espressioni gli erano venute a mancare. Ciò non è pura divagazione biografica, ma elemento vivo per la comprensione dell’Uomo e della sua opera.
Dino Campana fu, in realtà, uno spirito assetato di vita, di spazio e di moto e perciò un tormentato. La serenità interiore, l’intimasaggezza del poeta doveva ineluttabilmente imbattersi nella legge dei contrasti esteriori. L’uomo – creatura strana (diversa che sociale) - non riesce mai ad essere ciò che vuole ma soltanto ciò che gli riesce di essere. Lo spirito, infatti, dilaga nell’universo, ma la sua espressione umana è costretta all’angusto passaggio obbligato dei sensi e la serenità esterna delle cose possedute intimamente si traduce in tormento sensitivo così l’intima saggezza diviene umana follia.
Chi volesse seriamente penetrare Dino Campana e la sua opera non può trascurare questa realtà di fatto.
Giudizi estetici sulla poesia di Dino Campana non ne sono mancati e sono stati anche autorevoli, ma la critica spesso si attarda sui fatti esteriori, sulle realizzazioni poetiche, cioè (che sono quelle che contano, ai fini pratici degli studi, della cultura e della conoscenza non chè della « catalogazione » dell’artista), ma questi giudizi se possono giovare ai futuri compilatori delle future Storie della Letteratura, non possono scoprire nè l’arte nell’uomo nè l’uomo nell’arte poi che mancano di quell’elemento vivo, caldo, essenziale, umano per la penetrazione complessiva e totale del fenomeno (e diciamo fenomeno poi che in arte non abbiamo mai potuto concepire qualsiasi forma di « ereditarietà » per cui un artista deriva dall’altro o addirittura dell’altro ne è una « copia conforme »).
Dino Campana, pur essendosi servito, per improvvisazioni poetiche, di certe espressioni avanguardistiche dell’arte delle parole scritte, non le amò eccessivamente, queste espressioni, e cioè è u indice del suo intimo equilibrio anche nel campo estetico, che la predilezione che egli aveva per Walt Whitman ne è un altro della sua iniziazione alle cose eterne dello spirito.
Intollerante di tutto, insofferente di ogni cosa, la sua esistenza trascorreva nei violenti urti della sua elevata natura interiore con la piatta realtà della vita terrena e come D. H. Lawrence, credeva che il difetto fosse nel tratto di suolo in cui veniva a trovarsi per cui non poteva mai rimanere a lungo nello stesso posto. Al contrario, quando la scienza lo definì pazzo, nel Manicomio di Castel Pulci potè restare, senza lamentarsene, a lungo, chè la diga del suo spirito si era ormai frantumata e non vi erano più delimtazioni fra le cose sue e quelle del mondo.
Prima si era dibattuto, aveva fatto tutti i mestieri, senza alcun pregiudizio, spinto dalla necessità di guadagnarsi quella vita che lo metteva in quelle condizioni, ma più tardi, a Castel Pulci, coerente in tutto, rivendicava a se la nobiltà di ogni sua intrapresa,sia pur umile: non diversamente poteva e doveva fare un artista.
« Campana – scrive Falqui – non indulse troppo all’esempio e alla tentazione di quei che racimolano gli elementi compositivi della loro poetica nelle estetiche in voga, ma laborosiamente si diede a esprimerli dal piagato mondo di un uomo. E, nel farlo con la dedizione di chi segue senza rimedio il proprio destino, si ricongiunse fortunosamente a tutta una vittoriosa costellazione di poeti ». Infatti! Ed è perfettamente superfluo qui rifare nomi a tutti noti che la psichiatria non ha deciso ancora di abbandonare all’arte e solo all’arte.
