Primo Conti: Campana, ultimo discorso
Intervista a Primo Conti su Dino Campana, inclusa con alcune varianti nel volume
"Primo Conti, La Gola del merlo, Memorie provocate da G. Cacho Millet, Sansoni, Firenze 1983".
Ricostruire un carteggio è come edificare un tempio: pietra su pietra. È un'opera che richiede tempo e pazienza. Si diventa detective e si insegue la preda, come i cacciatori, cercando tracce, annusando, fiutando. Ian Gibson, il biografo di Federico Garçia Lorca, scrive che non puoi mandare nessuno al posto tuo, perché ciò che potresti scoprire non sarebbe visto dall'altro come lo vedi tu. E quando trovi il pezzo che cercavi, la lettera che mancava, quella che ti permette di completare, almeno in parte, il tuo puzzle, è quasi un'estasi. E se così non fosse, non si continuerebbe a cercare: invece ogni giorno ci riserva un'avventura, piccola o grande che sia. Personalmente, ho finito per mettere Dino Campana nei miei sogni. E ciò da quando, nel lontano 1978, pubblicai con Vanni Scheiwiller Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, primo carteggio del poeta di Marradi con gli uomini del suo tempo. Cercai allora, e cerco ancora oggi, di fare in modo che ogni lettera possa essere letta nei suoi minimi particolari, chiarificando, fin dove mi è possibile, ogni dubbio, perché è mia intenzione, al di là della "confusione di spirito" dello scrittore, che il lettore possa leggerlo come se si trattasse di un classico. Sono i lettori che decidono quando un poeta è, o no, un classico.
La cartolina che apre il Carteggio Campaniano, pubblicata da Gabriel Cacho Millet in trascrizione, fin dal primo "Souvenir d'un pendu" del 1985, per poi trovare definitiva e corretta destinazione nell'ultimo "Lettere di un povero diavolo", Polistampa 2011.
Per errore di lettura nella prima edizione l'amico di Campana era "Accardo". Fu Stefano Drei ad accorgersi che il nome giusto era Aicardi.
PRIMO CONTI
- Ricordo Campana come una specie di spirito vagante sulla terra, una specie d'arcangelo che disse quello che doveva dire e poi sparì. Sembrava uno di quei girovaghi nordici, fisicamente splendido, scalzo, col bastone sulla spalla e appeso al bastone un sacchetto di tela dove teneva i libri, le camice e un paio di scarpe che spesso si infilava per la strada.
Qualche volta è venuto di sorpresa a trovarmi nello studio perché amava il senso popolaresco dei miei collages e non è a caso che Cesare Vivaldi e Luciano De Maria abbiano rilevato nei miei dipinti e nelle mie poesie di allora un segreto legame coi Canti Orfici.