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Antonella Poggiali con Paolo Pianigiani nel 2009, alla Marucelliana

davanti a "Il Più lungo giorno" di Dino Campana

 

 

Antonella Poggiali: Dino e Sibilla, due scritture e due personalità a confronto

Antonella Poggiali: Una analisi grafologica per la coppia più celebre della poesia italiana

 

Sto percorrendo, nel silenzio di una mattinata autunnale ancora piena di sole, la piana di Badia a Settimo, a 10 minuti di strada da Firenze. A destra campi incolti, a sinistra fabbriche, magazzini, case squadrate nella loro geometria spoglia. Persa nei meandri polverosi di questa grigia periferia industriale dispero di poter recuperare l'orientamento e ritrovare la giusta direzione e non mi accorgo che si sta materalizzando, in lontananza, l'oggetto del mio girovagare: la Badia di San Salvatore a Settimo.

La prima cosa che vedo è il campanile, elegante, leggero, svettante su di una nuvola di fogliame verde scuro. Poi il sentierino lungo e ghiaioso che mi conduce sul sagrato della chiesa, rossa di mattoni. Entro. Nella penombra, sulla sinistra accanto all'organo, una semplice lapide in pietra serena con un nome e due date:

 

DINO CAMPANA
POETA
1885-1932

 

E' qui infatti, in questo gioiello dell'architettura medievale toscana, che furono traslati nel 1946, in via definitiva, i resti di Campana, morto nel manicomio di Castel Pulci nel 1932.
L'epigrafe posta al di sopra della lapide recita:

 

Nel cuore antico
Di questa terra
Fiorentina che accolse i suoi
Ultimi giorni
La pietà e il
Silenzio onorino
Colui che fu
Voce ai disperati
Sogni umani

 

Per capire quanto i sogni di Campana siano stati "disperati" è sufficiente leggere la sua turbinosa biografia, punteggiata di viaggi somiglianti a fughe (Firenze, Livorno, Parigi, Buenos Aires, Bruxelles) e segnata da conflitti e scontri con la famiglia, con gli amici, con i poeti e i letterati dell'epoca. Piano piano tutti si allontanarono, incapaci di sostenere il peso di rapporti resi estremamente faticosi dall'aggravarsi dalla malattia mentale del poeta. L'esilio perpetuo, come egli chiama il suo internamento, fu l'ineluttabile conclusione di un difficile cammino umano.


E' interessante analizzare i manoscritti autografi di Campana (1): da essi emergono caratteristiche grafiche significative in cui effettivamente intensità e conflittualità vanno di pari passo. In alcuni scritti la grafia appare delicata, nervosa, animata da una vibrazione interiorizzata, in altri l'intensità si manifesta in maniera più vigorosa, più violenta ed esplicita.
"Il Russo", scritto secondo lo stile elegante e un po' manierato dell'epoca, rivela un gesto grafico intriso di spiritualità ed inquietudine. Il corpo centrale piccolo e irregolare (spesso decrescente) sostiene il peso di allunghi prolungati che si lanciano in zona alta e precipitano verso il basso. Il movimento tuttavia non appare realmente determinato e la discesa sembra avvenire quasi più per inerzia che per un'autentica volontà di affermazione (pressione alleggerita, zona inferiore non sempre risalente). La progressione, scandita da questo andamento alto-basso, traduce l'esigenza di collegare il mondo dello spirito e della materia, di mediare tra istinti profondi e idealità traendo energia, ispirazione, nutrimento dalle proprie radici e sublimando il tutto in un ideale poetico superiore. "Essere un grande artista non significa nulla: essere un puro artista ecco ciò che importa" ("Canti Orfici").

 

(scr.n°1)

 

L'ambizione si esprime soprattutto a livello qualitativo nella ricerca di principi morali esigenti, come tensione verso un assoluto, verso una realtà trasfigurata dal sogno la cui unica chiave di lettura è l'arte e la poesia. In altre liriche Campana canta, con toni ora aspri ora elegiaci, la natura selvaggia in cui può trovare rifugio e sempre si percepisce nei suoi versi quel senso profondo di comunicazione e di comprensione che manca nei confronti della società umana che egli sente ostile.


"Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenacia solitaria che consolano il cuore degli uomini. E dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo al fascino dei lontani miraggi di ventura che ancora arridono dai monti azzurri..."


La ricerca di modi di essere autentici e rispondenti alla propria natura profonda, il gusto per la sfida, il bisogno di superarsi e la coscienza di essere al servizio di una causa superiore si accompagnano in Campana ad un forte amor proprio venato di suscettibilità (acuminazioni) e di intransigenza. La mediazione avviene quindi faticosamente e le due istanze - spirito e materia - non riescono a compenetrarsi in maniera fruttuosa ed equilibrata. E' sufficiente del resto osservare le forti discordanze di pressione, enfatizzate dall'uso dello strumento scrittorio, per capire come l'energia nervosa del poeta si manifesti in maniera un po' anarchica. Lo scritto è punteggiato da tutta una serie di macchie scure e di tratti sbiaditi, è segnato da spasmi, fangosità, acuminazioni e mazze che ci parlano di una forza passionale intensa, ma proprio per questo non facile da gestire e capace di estrinsecarsi sotto forma di reazioni intempestive o spropositate.


Le forme, che pur nella loro nervosa variabilità mantengono integra la struttura portante, non si espandono liberamente nello spazio con sicurezza e con gioia, mantengono piuttosto un aspetto contratto e sorvegliato (strette, angolose, ritoccate, addossate) e ci dicono come Campana mantenga nel profondo di sé un atteggiamento di riserva piuttosto che di disponibilità verso gli altri e come finisca per differenziarsi e affermare la propria peculiarità invece di ricercare lo scambio e il contatto. L'andamento della grafia non è di apertura, piuttosto traduce un ritorno a sé e alla propria interiorità che si rivela fragile e vulnerabile negli alleggerimenti del tratto, nella caduta di lettere sotto il rigo, nei finali di rigo discendenti e nei cavalcamenti, anch'essi discendenti, espressione di uno scoraggiamento e di un senso di fallimento ricorrente in Campana. Una rigidità dolorosa traspare dalle ultime righe del secondo campione, tratto dalla prosa "Pampa" (scr.n°2): la fluidità del ductus viene pregiudicata dalla presenza di ammaccamenti non solo in zona media, ma anche negli occhielli delle "l"; impercettibili torsioni alterano il tracciato di alcune lettere, le angolosità si accentuano così come i ritocchi e le riprese. Qui la tensione emerge in maniera più palpabile rispetto ad altri momenti e si tratta di una tensione bloccante, indicativa anche di una scarsa capacità di tenuta e di una precaria forza di reazione ai colpi della vita.

 

Scr. n° 2

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Ed è sicuramente un sentimento di frustrazione rabbiosa quello che spinge Campana a scrivere a Papini, nel 1916, una lettera violentissima (scr.n°3) per ottenere la restituzione del manoscritto dei "Canti Orfici" che egli gli aveva affidato, con la speranza che fosse pubblicato, e che il fondatore di "Lacerba" aveva presumibilmente smarrito.

Il manoscritto, che il poeta definì "la sola giustificazione della mia esistenza", fu ritrovato, molti anni dopo, in casa di Soffici a Poggio a Caiano. Campana è palesemente alterato al momento della redazione ("verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò") e questa violenza verbale che sgorga e si riversa incontenibile all'esterno assume, graficamente, forme precise: si sprigiona dalle barre delle "t", dardi acuminati lanciati spavaldamente verso destra, dalle mazze, dai finali lunghi (precario autocontrollo) e soprattutto dal tratto fangoso, stagnante, ingorgato, che dà la misura della potenza dell'impulso.

Il corpo centrale, miniaturizzato, è inzuppato dal flusso di inchiostro e fa apparire i grandi lanciamenti come gesti velleitari, una sorta di compensazione alla coscienza della propria incapacità a rispondere adeguatamente alle ingiustizie subite.
Certe forme di esaltazione hanno sempre fatto parte del modo di essere del poeta e a noi grafologi non può essere sfuggita, fra le altre cose, la costante presenza di macroscopiche sopraelevazioni (le "p", le "s", alcune maiuscole), tratto distintivo della grafia campaniana, che si apparenta alla sua tensione generale verso l'alto, verso il mondo del sogno, col suo corollario di originalità e spregiudicatezze.



Scr. n° 3

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Molto diversa è la grafia di Sibilla Aleramo. La scrittrice, che ebbe con Campana una rovente quanto tormentata relazione amorosa negli anni 1916-1918, visse un'esistenza lunga e intensissima, ricca di incontri, di viaggi, di passioni. Soprannominata l'"Errabonda" per l'abitudine a spostarsi frequentemente, quasi fosse incapace di mettere radici in un luogo preciso, era nota per il suo carattere libero e anticonformista. Scelse infatti una condizione molto difficile per l'epoca: quella della donna sola, emancipata e indipendente.

Della sua passionalità ci parla subito la grafia, grande, risoluta, propulsiva, dotata di una forte carica vitale (scr. n°4 e n°5).

 

Scr. n° 4

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Scr. n° 5

 

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Traspare anche dell'impazienza e una reattività pronta. Tutte queste caratteristiche che vanno nel senso dell'espansione di sé trovano un loro equilibrio grazie alla presenza di importanti istanze di controllo - senso del concreto, spirito logico, solidità interiore - che si esprimono a livello grafico in una buona tenuta di rigo, nella presenza di verticali affermate che scandiscono e frenano nel contempo la progressione, nel legato, nei ritorni a sinistra più o meno marcati. Lo slancio non resta dunque in Aleramo semplice impulso, ma si mantiene nel tempo, viene regimato, guidato e convogliato verso una realizzazione pratica.
Rispetto alla grafia di Campana questa appare anche molto più tesa e ferma. Il tratto si accompagna a frequenti angolosità che non sono elemento bloccante, ma conferiscono temperamento.

Dotata di una curiosità intellettuale che la rende aperta e recettiva (zona alta valorizzata), la scrittrice non vive nell'astrazione, ma si inserisce nella realtà con curiosità e partecipazione riuscendo a realizzare i propri progetti (solida zona media, compattezza, margine destro raggiunto, presenza di ovoidi, pressione nutrita con rilievo). Essa si destreggia con autonomia e coraggio lasciandosi il passato alle spalle - osserviamo il margine sinistro progressivo - e volgendosi al futuro con volontà e tenacia. E' proprio questo suo realismo che, malgrado il carattere anticonformista che la contraddistingue, non le fa trascurare le regole della società in cui si muove e da cui vuole essere rispettata ed ammirata. Il suo forte egocentrismo, il suo bisogno di raccontarsi, di emergere e di primeggiare si evince anche dalla firma tracciata in maniera piuttosto enfatica e convenzionale, con grandi iniziali, gonfiori e lacci (scr.n°5).


"Invecchierà tardi, grazie all'amor dell'amore, dopo aver scritto e riscritto di sé, fino a quattro giorni prima di morire, il 13 gennaio 1960".

 

Scr. n° 6

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Non sono tanto le forme a colpirci quanto piuttosto il movimento la cui progressione decisa esprime un'affettività piena di ardore, una capacità di coinvolgimento e di mobilitazione immediata e totale ( inclinata, grandi barre delle "t", finali prolungati, andamento ascendente).


Scr. n° 7

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Facendo un'analisi trasversale dei campioni grafici presentati- sei lettere scritte tra il 1911 e il 1924, quindi tra i 35 e 50 anni - notiamo un progressivo alleggerimento della pressione e una minore rigidità delle forme. Nelle ultime due lettere particolare vediamo come la grafia si allarghi, si semplifichi, si sbiadisca.

Anche la presa dello spazio più libera e la zona inferiore meno radicata ci portano a pensare ad una finezza di percezione maggiormente sviluppata. L'approccio col mondo diventa forse meno diretto ed energico, la tensione si smorza in un atteggiamento più disponibile e possibilista.

 

Scr. n° 8

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Molto è stato detto e scritto sul rapporto che legò Campana alla Aleramo che - citiamo sempre Bruna Conti - "sa d'essere stata per Dino il primo e l'ultimo amore", mentre per lei Campana rivestì un ruolo sicuramente più marginale. Quello che le scritture ci possono aiutare a capire e riconfermano è il carattere estremo e assoluto del sentimento che li tenne uniti cui non era estranea la malattia di Campana, ma che fu favorito anche dalla tendenza di entrambi ad evadere verso un mondo ideale di puro spirito. Li accomunava la capacità di sentire intensamente, li divideva la diversa maniera di farlo. Tanto Aleramo era estroversa, convinta della sua forza, fiduciosa, bisognosa di esprimere e di comunicare ciò che provava, quanto Campana era introverso, incapace di domare gli impulsi che lo squassavano, umorale e disadattato.

Il suo pensiero, frutto di speculazioni intellettuali, rischiava l'astrazione e l'isolamento, mentre quello di Sibilla era molto più sensibile alla realtà esterna, meno radicale, più accondiscendente. Il sentimento di Campana, viscerale e primitivo, esplodeva deflagrante, violento e rancoroso, quello della Aleramo era invece strumento di contatto col mondo. Col tempo i conflitti si acuirono, le sofferenze aumentarono e la scrittrice, che si rese conto di non poter più dare alcun aiuto concreto al suo compagno per sopportare meglio la propria malattia, si allontanò da lui. Non fu uno strappo, ma un distacco graduale.


Il 12 gennaio 1918 Campana viene internato nel manicomio di S.Salvi a Firenze.