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Campana eretico

 

         Guglielmina e Manfreda al balcone           

                                 

                                    di Paolo Pianigiani       

                         


Tutto o quasi è stato detto sul poeta di Marradi, ma che nelle sue poesie abbia parlato di eresia non l’aveva ancora detto nessuno. Almeno che io sappia.Due poesie del Quaderno (contenente testi autografi di Dino Campana, ritrovato in un baule dal fratello del poeta, Manlio, e pubblicato da Enrico Falqui nel 1942), contraddistinte dai numeri XIII e XXVI, parlano di due personaggi femminili, Guglielmina di Boemia e Manfreda da Pirovano .
Basta sfogliare un libro che parla di eresie e queste due figure misteriose, fra le poche ad avere un nome, fra i personaggi che compaiono nelle opere di Dino Campana, acquistano subito densità  storica e si diffonde nell’aria odore acre di roghi e di Sante Inquisizioni.      

Guglielmina (1210 – 1281), o Vilemina, o ancora Blažena (Beatrice), era  figlia del re boemo Otocaro I° Pøemysl e sorella di Anežka, o Agnese (1208 – 1282), canonizzata da Giovanni Paolo II in contemporanea con la Rivoluzione di Velluto nel Novembre del 1989. Agnese fu la prima badessa del convento praghese di San Francesco, che si era modellato su quello di San Damiano in Assisi. Sono rimaste quattro lettere che  la badessa di San Damiano, santa Chiara, scrisse a santa Agnese, piene di misticismo francescano.

Altra sorte toccò a Guglielmina, che si presentò, nel 1260, insieme al suo figlioletto, presso  il convento cistercense di Chiaravalle, vicino a Milano, dichiarandosi  figlia del re di Boemia.

Venne accolta  e visse come oblata (laica che vive in convento senza prendere i voti) fino al 1282, (secondo altri al 1281), anno in cui morì in odore di santità e in fama di grande guaritrice; fu sepolta con tutti gli onori nel cimitero del convento.

Attorno a lei si era formato un gruppo di fedeli, che la credevano l’ incarnazione terrena dello Spirito Santo. Il teologo della setta era un commerciante milanese, Andrea Saramita, che indicò in una suora dell’ordine delle umiliate, Manfreda da Pirovano (della famiglia Visconti, potentissimi signori di Milano), l’erede spirituale di Guglielmina, attribuendole il titolo di Papessa.

Questa setta si rifaceva alla dottrina di Gioacchino da Fiore (1130-1202) che profetizzava l’avvento del Terzo Regno, quello dello Spirito Santo, previsto secondo numeri ricorrenti nell’Apocalisse, per l’anno 1260. In quell’anno il potere della Chiesa e del Papa sarebbero cessati e  la guida del mondo sarebbe stata affidata a una donna, una Papessa, diretta incarnazione dello Spirito Santo, che avrebbe inaugurato un periodo di concordia e di pace. Si può immaginare la reazione della Chiesa, che vedeva con preoccupazione diffondersi le idee del frate calabrese in particolare fra le fila degli Spirituali francescani, sempre pronti a trovare motivi e pretesti per scardinare il potere terreno del Papa.  Nel 1263, infatti, le idee di Gioacchino da Fiore e del suo seguace Gerardo di Borgo San Donnino, furono definitivamente dichiarate eretiche, in quanto accusate di separare le tre persone della Trinità (eresia Triteista).

Incurante del rischio a cui si esponeva, insieme agli altri membri del gruppo, suor Manfreda, investita del titolo di Papessa, celebrò solennemente la messa durante la Pasqua del 1300, indossando i paramenti sacerdotali,  assistita da Andrea Saramita, vestito da diacono, dichiarando apertamente Gugliemina risorta dal sepolcro come Gesù Cristo.

In quegli anni, con Bonifacio VIII  papa,  si moriva sui roghi per molto meno. L’Inquisizione (creata da poco, nel 1260)  subito si attivò e i due inquisitori domenicani Guido da Coccolato e Ranieri da Pirovano dichiararono Guglielmina  eretica, la fecero disseppellire e bruciarono le sue immagini e le sue ossa sul rogo,  insieme ad alcuni religiosi, fra i quali, naturalmente, Manfreda Visconti e Andrea Saramita. Il rogo fu alzato in piazza della Vetra, vicino a sant’Ambrogio, a Milano, dove tre secoli più tardi (1630) verrà eretta la Colonna Infame, di cui ci ha ampiamente  raccontato, nei particolari più pestiferi, il Manzoni.

La carta della Papessa, appartenente ai celebri tarocchi Visconti, realizzati nella prima metà del ‘400, su probabile commessa del duca Filippo Maria Visconti, per le nozze della figlia Bianca Maria con Francesco Sforza, secondo alcuni sono un ricordo e un omaggio della famiglia Visconti alla  sfortunata suor Manfreda Visconti da Pirovano.

 Dopo questo racconto, i due testi del Quaderno possono essere letti con maggiore possibilità di comprensione. 

Vediamoli, insieme alle varianti disponibili, riportate dal Falqui, nel suo libro Opere e contributi, Vallecchi 1973.

  

1.      Eccoci sole davanti al mistero notturno. La luna

2.      Illumina forse gli amori tristi degli uomini,

3.      Appare velata di lacrime e bruna sì come Venere

4.      Sorge dal mare nel primo mattino del mondo

5.      Del mondo sconvolto ancora fumante, con riso

6.      Ahi quanto tenero e triste

7.      Molto da allora corso già il tempo ma ancora

8.      Venere è triste e affanna il tenero seno

9.      Pure è dolcezza infinita sentire la stanchezza

10.    Dei nostri esausti cuori che ardono ancora

11.    Per la notte dei tempi [……..]

12.    All’anima del mondo, insaziabile.


    Varianti:

V. 2: var.: “Illumina amante…”

V. 3: var.: “Appare velata di lacrime e bruna come allora che Venere…”

                 “ e bruma forse tal Venere…”

V. 4: var.: “Sorse (sorgente) dal mare…”

V. 7: var.: “Molto da allora tempo è passato ma ancora…”

V. 8: var.: “Venere è triste e stanca  il tenero cuore…”

V. 9: var.: “Tale è dolcezza…”

V. 10: l’ultima parola è indecifrabile: “sacri fio(ri)”, sacrifi(ci)o” ?

V. 11: var.: “All’anima insaziabile del mondo.”


Note:

La poesia è percorsa da una profonda tristezza, che prende origine addirittura dal primo mattino del mondo, quando Venere  è sorta dal mare con il sorriso già pervaso di dolore, presaga del destino degli uomini e delle donne. La luna, triste come Venere, illumina il balcone e la notte, velata di lacrime e di bruma.

Unica speranza che rimane, motivo di dolcezza infinita per le due protagoniste, il battito esausto (stanco) dei loro cuori, che continuerà per la notte dei tempi a ricordare agli uomini il loro sacrificio estremo.

Questa descrizione delle due donne al balcone, che si ritrovano, dopo le vicende tragiche che le ha viste coinvolte, davanti al mistero indecifrabile della notte, acquista efficacia nei versi finali, quando viene risolto il dubbio interpretativo dell’ultima parola del verso 10, che alla luce delle vicende adesso note, diventa naturale leggere:

13.  Pure è dolcezza infinita sentire la stanchezza

14.  Dei nostri esausti cuori che ardono ancora

15.  Per la notte dei tempi sacrificio

16.  All’anima del mondo, insaziabile.


 

I due esausti cuori, quello bruciato vivo di Manfreda e quello oltraggiato “post mortem”,  di Guglielmina, ardono ancora e lo faranno per la notte dei tempi, come sacrificio (estremo, sul rogo) all’anima del mondo, insaziabile.

L’anima del mondo non può essere che la religione, che nei suoi momenti oscuri di accanimento contro i suoi nemici, veri o presunti, è stata, assolutamente, insaziabile.


 

Le figlie dell’impiccato  (dal Quaderno)

 

MANFREDA


 

1.      Due forme ho già viste aggirarsi

2.      Sotto la forca dell’impiccato

3.      Ed una geme e piange

4.      E l’altra bramisce e impreca.

5.      E là dormono di notte

6.      Sotto i cespugli neri colle serpi

7.      E il giorno anche talvolta cantano

8.      E appaiono a tratti di dietro gli sterpi.

9.      L’altra sera, seguendo uno stuolo di corvi

10.  Mi fu attratto l’occhio laggiù

11.  Era verso la sera. Un fuoco guizzava

12.  E due forme in ridda pazza

13.  Agitavan le braccia intorno alla forca.

14.  Io gridai e il mio grido si perse


15.  La monaca trista si voltolò in terra

16.  E mandò calci nei sacri panni e squassava

17.  Il ventre: Il demonio convulso

18.  S’arrovellava dentro le vene

19.  E non fu più luce dentro di lei


 

20.  O regina salvatemi, o regina io mi dono,

21.  O regina copritemi

22.  Del vostro manto o regina


 

GUGL[IELMINA]


 

23.  Sei come notturna acqua canora

24.  Che si versa dal cuore della terra,

25.  Trema canta e ristora;

26.  Per spenger la mia sete inquieta

27.  Giunse la tua novella:

28.  Cristo è tornato e vive sulla terra

29.  E’ tornato a salvare ancora il mondo

30.  Per mano della donna che sa tutte

31.  Le speranze le pene e i conforti.

32.  E’ tornato a parlare al secol triste

33.  Per la mia bocca

34.  Io sono Guglielmina

35.  Di Boemia regina

36.  E regina del celo.

37.  Poi che il padre volle

38.  Che per la donna il mondo fosse salvo

39.  E mi mandò per promulgare il verbo

40.  E fondare il suo regno, il terzo regno,

41.  Io sono Guglielmina

42.  Di Boemia regina

43.  E regina del celo.

44.  3. – Le vostre parole sono come luce di stella dolce e lontana

45.  E il suo raggio non fu mai potuto discernere

46.  E sempre affaticò il mio pensiero

47.  Io non son forse degna

48.  …………………………………….

49.  Alzati e guarda la luna

50.  Risplendere sopra il tuo duomo

51.  In una sera magnifica

52.  (L’estate avrà purificato i cieli

53.  Gli arabeschi chiuderanno

54.  In sarcofago

55.  Sotto ai cieli fosforei

56.  Il miracolo sublime)

57.  Io sarò ritta tra i ceri

58.  Incoronata in fondo

59.  Tra le navate trionfali

60.  Sul popolo enorme prostrato

61.  Davanti la grande scalea

62.  Svanente tra le brume lunari

63.  Davanti l’infinito

64.  Della forza e del sogno


 

Varianti:

V. 23: var.: “Come l’acqua purissima e canora”

V. 24: var.: “Che viene su dal cuore della terra,”.

V. 25: var.: “Fresca e calma e ristora;”.

V. 26: var.: “per spegner la tua sete”.

V. 27: var.: “Io ti do una novella:”

V. 36: var.:  “celo” così nel testo.

V. 43: var.:  “celo” così nel testo.

V. 52 : var.: “L’estate avrà bruciato nei cieli”.

V. 55-57: var.: “In Sarcofago fosforeo”, sotto ai cieli il miracolo sublime”.

V. 61, aggiunto posteriormente.


 



Note:

 

Si tratta di una “sacra rappresentazione”, con due  personaggi che parlano fra loro, indicati dai relativi nomi.

Qualcosa di simile, ma con personaggi romani  ed egizi, al testo, sempre appartenente al Quaderno, designato dal numero 17 e dal titolo: Convito romano egizio.

Manfreda racconta di aver visto le due figlie dell’impiccato, così designate dal titolo, aggirarsi sotto la forca. Si comportano in maniera diversa, come i due ladroni ai lati di Gesù Cristo: una geme e piange, l’altra bramisce e impreca. La visione drammatica provoca in Manfreda un grido, che si perde nel nulla.
 


 

1. Quindi descrive la scena di una monaca “trista”, indemoniata,  che continua la visione drammatica  precedente.

2. Manfreda chiede aiuto a una regina, donandosi a lei e implorando di essere coperta dal manto regale. Il manto protettivo è attributo tipico della Madonna, rappresentato in molte opere di pittura, basti per tutte quella della Madonna della Misericordia di Piero della Francesca. Guglielmina risponde, rivolgendosi alla sua “erede”, con parole intrise di misticismo poetico. Parla della sua missione, che è quella di salvare ancora il mondo, grazie a lei Cristo è tornato sulla terra e parla attraverso la sua bocca. Per volontà del padre è venuta a promulgare il “terzo regno”, quello dello Spirito Santo profetizzato da Gioacchino da Fiore. Sono a mio parere da preferire le varianti citate dal Falqui:

 

V. 26: var.: “per spegner la tua sete”.

V. 27: var.: “Io ti do una novella:”

 

Che danno un senso logico allo sviluppo della scena, dove Guglielmina risponde a Manfreda. Naturalmente l’attributo “regina del celo” e altra definizione tipica della Madonna.


 3. Manfreda. 
Risponde alle parole della visione, dicendo che fin da bambina una luce di stella, di cui non comprendeva il significato, l’ha illuminata, e le parole che ha udito sono come quella luce.

Dice di non essere forse degna, riferendosi evidentemente all’investitura (sostituzione di Guglielmina sulla terra).

Una linea di punti, tipica in Campana quando il poeta crea un passaggio fra due scene, interviene a interrompere le parole di Manfreda.

Guglielmina invita Manfreda ad alzarsi e ad ammirare la scena del suo trionfo, quando in una sera magnifica d’estate, avverrà il miracolo sublime, rischiarato dalla luna che risplenderà in un cielo di fosforo, sul duomo di Manfreda (duomo per antonomasia, quello di Milano): Guglielmina, risorta e innalzata sugli altari, sarà incoronata regina, davanti al popolo enorme prostrato sulla grande scalinata.

E qui la visione svanisce e si confonde con le brume lunari, davanti l’infinito della forza e del sogno.

Non si può non pensare, per i versi toscanissimi: “Io sarò ritta tra i ceri”, a quelli altrettanto toschi ma danteschi: “se’ tu giù costì ritto, Bonifazio?” Inf. XIX, 53.

Ma dove avrà trovato il poeta dei Canti Orfici notizie su queste due religiose, finite in maniera così drammatica, insieme, sul rogo nel 1300, una già morta da diciotto anni e l’altra da viva?

Probabilmente su qualche testo che trattava argomenti storici riguardanti le eresie.

Presente magari nella biblioteca purtroppo dispersa dello zio Torquato, dove Campana trovò le sue prime letture, oppure durante i suoi errabondi viaggi.

Sappiamo infatti  che Dino  si recò più volte in Lombardia, vedi per es. la poesia La dolce Lombardia coi suoi giardini, (Falqui, opera citata, pag. 377) o il primo incontro con Regolo, sempre nei Canti Orfici, sulla strada di Pavia.

Una guida turistica,  edita a Milano nel 1842, dal titolo: Dell’Abbazia di Chiaravalle in Lombardia, iscrizioni e monumenti, aggiuntavi la storia dell’eretica Guglielmina boema.

E sappiamo quale fosse la passione del poeta di Marradi per i musei e i conventi in genere, che spesso sono citati e commentati nelle sue opere.

Un’altra citazione di Guglielmina e della sua storia si trova nel romanzo “Demetrio Pianelli”, di De Marchi:

“Don Giovanni, durante la convalescenza, si lasciò vedere anche lui diverse volte e sedette a intrattenerla colla storia della vecchia abbazia, dei frati di Chiaravalle, di San Bernardo fondatore dell'Ordine, dell'eretica Guglielmina, che, dopo essere stata sepolta come una santa nel cimitero della Certosa, un bel giorno scoprono che è un'anima dannata, la disseppelliscono e bruciano il corpo sulla piazza di Sant'Ambrogio. Cose che capitano ai morti!”

 

Comunque, un altro aspetto  è emerso sulla poesia di Campana, poeta che non smette mai di sorprenderci, lui che è stato eretico e diverso, sempre, e per questo bruciato sui roghi di mille inquisizioni.