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 "Il più lungo giorno" di Dino Campana

Ma qual è il rapporto fra il manoscritto del Il più lungo giorno e i Canti Orfici?

di Paolo Pianigiani

Quando l’ho visto, seminascosto fra i libri di un venditore ambulante, davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, non volevo crederci... Il più lungo giorno... Dino Campana. Subito l’ho sfogliato, ho riconosciuto la scrittura, le parole, e la musica delle parole. Era proprio quella una copia del testo famosissimo, scomparso e riapparso a distanza di sessanta anni. A pagina 40 ecco apparire il testo de La Chimera, forse la poesia più famosa.
Una copia anastatica, naturalmente, la numero 800, una delle 1000 stampate dalla casa editrice fiorentina Vallecchi, del "numero zero" dei Canti Orfici, il mitico manoscritto che Dino Campana aveva consegnato a Papini e a Soffici, per averne un parere e per sperare, forse, in una pubblicazione.

Soffici smarrì in un trasloco il libretto e Campana fu costretto a riscriverlo da capo, rimpiangendo sempre quel perduto originale.
La critica aveva accettato questa versione, immaginando meraviglie da una improbabile riapparizione del testo perduto.
Le cose, per la verità, non sono andate proprio così. Un miracolo ha permesso di chiarire tutto o quasi: dopo la scomparsa di Soffici nel 1967, nel 1971 la vedova, signora Maria Soffici, riordinando le carte del marito, ritrova il famoso fascicolo: Mario Luzi ne dà notizia al mondo, su cinque colonne sulle pagine del "Corriere della Sera", il 17 giugno dello stesso anno.

La vicenda del manoscritto è nota: nel novembre del 1913 Dino consegna a Papini a suo dire la sola e unica copia delle sue poesie; per disattenzione o altro, Ardengo Soffici (condirettore della rivista "Lacerba") smarrì il manoscritto del povero poeta di Marradi, e a nulla valsero le minacce e le preghiere che a più riprese Campana rivolse sia a Papini (al quale era stato consegnato) che a Soffici.

Questa sparizione, casuale o voluta, provocò nel poeta delusione, disperazione, rabbia; ma anche un frenetico desiderio di vedersi stampato, di realizzare il suo sogno di poeta.
Aiutato finanziariamente da alcuni amici riesce a convincere il tipografo del suo paese, Bruno Ravagli, a stampargli il libro, che nel frattempo cambia titolo, e diventa l’opera che porrà il suo autore fra i grandissimi: i Canti Orfici. Siamo nel ’14, la guerra è già scoppiata e Dino a settembre arriva (a piedi come sempre) a Firenze per vendere il suo libro alla gente seduta ai tavolini delle Giubbe Rosse e a quelli della birreria Paszkowski. Dino vede il suo libro accettato, forse più per gioco che per un reale interesse, e si permette anche di strapparne qualche pagina, prima di consegnarlo all’acquirente che non l’aveva completamente convinto di poter capire tutta la sua poesia.

Ma qual è il rapporto fra il manoscritto del Il più lungo giorno e i Canti Orfici? Come dicono Enrico Falqui (nella introduzione) e Domenico De Robertis (nel commento critico al testo), in effetti il manoscritto appare come una bella copia, uno "status" non definitivo del testo, una redazione ordinata del materiale proveniente da altre carte, alle quali sicuramente Dino attinse anche per la redazione finale del suo libro.
In pratica i Canti Orfici riprendono per circa due terzi con poche varianti la struttura e il testo del manoscritto, perdendo per strada solo alcune poesie, che sono state recuperate e pubblicate in altre carte venute alla luce prima del ritrovamento del 1971.

La storia della ricostruzione a memoria dell’intero libro è da considerarsi pura leggenda. Colpisce la trascuratezza con la quale due uomini di cultura, come Papini e Soffici, hanno potuto ignorare la grandezza di Campana, arrivando a negarne l’importanza anche quando la critica più accorta (De Robertis, Cecchi, Montale) ne aveva ormai definito il valore.
La breve e circoscritta fama raggiunta grazie ai Canti Orfici lo fece di lì a poco incontrare con Sibilla Aleramo, che oltre a intensi momenti d’amore (descritti in un recente, bruttissimo film) certamente contribuì a fargli superare quella soglia di equilibrio instabile in cui viveva,spalancandogli per sempre le porte del manicomio di Castelpulci (28 gennaio 1918).
Morirà improvvisamente, per una ferita procuratasi scavalcando una rete di filo spinato, il 1° Marzo 1932.

Una curiosità da bibliofilo mi ha inoltre stupito; si era sempre parlato, in vari libri di ricordi scritti dagli stessi protagonisti, di un libretto sgualcito, pieno di macchie e correzioni, simile a quelli usati dai fattori per tenere i conti (Soffici). Rosai (sempre presente alla Giubbe Rosse) addirittura parla di carta da minestra.
In effetti il testo de "Il più lungo giorno" è stato scritto da Campana a penna su un quaderno (mm.119 X 138) composto di tre fascicoli di 12 fogli (24 carte) ciascuno, per un totale di 72 carte, ossia 144 pagine, non numerate. La copertina è in cartone semirigido di colore bianco picchiettato di bruno chiaro. La carta usata, la legatura e altri dettagli fanno risalire l’età del supporto utilizzato da Dino alla prima metà del 1700.

Durante il Convegno su Campana del marzo 1973, tenutosi a Firenze al Vieusseux, che naturalmente si incentrò sulla riscoperta recente del manoscritto, Domenico De Robertis espose accanto alla riproduzione del testo campaniano, anche un quaderno uguale per composizione, formato, copertina, legatura e tipo di carta. Su questo secondo quaderno il conte Pietro Calepino, intorno al 1729, scrisse le sue osservazioni e giunte al Vocabolario della Crusca. Chissà come un quaderno del genere (antico già allora di due secoli) sarà capitato fra le mani del poeta di Marradi? E chissà perché l’avrà scelto per scriverci in bella copia i suoi versi? Mistero.

Ma in fondo, che cosa è la poesia, quella vera, quella che rimane dentro come acido che ci corrode il cuore, se non un profondo, un inesplicabile mistero?