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Lei sessantenne, lui ventenne. Nasce a Capri la tormentata passione fra Sibilla Aleramo e Franco Matacotta

di Giuseppe Mazzella

 

 

«Oggi sono trentaquattro anni che il mio primo libro venne pubblicato. Mi ripeto la cifra fino a rimanere stordita. Nella stanza sottostante, Franco intanto spera che io lavori. Non mi ha legato alla seggiola, come fece, un po’ per gioco e un po’ sul serio, una volta, due o tre anni fa, sa che all’incirca è come se legata fossi: gli ho promesso di non discendere fino a che non sarà notte».

Così scrive sul suo diario, appena iniziato, Sibilla Aleramo. È il 3 novembre del 1940. La narratrice e poetessa ancora una volta è a Capri, dove ha preso alloggio nella Villa Falconara.

 

L’isola, diventata una delle mète preferite dell’establishment del regime, è affollata da un eclettico turismo internazionale. Sibilla vi torna sempre con piacere per quell’atmosfera fuori del tempo, in cui può riposare e sognare, dedicandosi alla letteratura. La sera, poi, può passare qualche ora assieme alle sue amiche scrittrici Alba De Cespedes e Maria Luisa Astaldi, e abbandonarsi a lunghe passeggiate. Dopo tante sofferenze e numerosi amori sfortunati, è ora come rinata.

Da quattro anni vive una grande, struggente passione: ama, riamata, Franco Matacotta, un ragazzo poco più che ventenne. All’incontro fatale, avvenuto nel gennaio del 1936, Sibilla è in uno stato d’animo penoso: ha da poco compiuto sessant’anni, è stata appena abbandonata da Salvatore Quasimodo ed è convalescente di una grave malattia.

La nuova amicizia, iniziata con una lettera timida e affettuosa che il giovane, aspirante poeta, le ha inviato da Fermo, suo paese natale in Abruzzo, si trasforma presto in una passione che la travolgerà, ma che si rivelerà anche, come l’ultima illusione dell’“amante indomita”, come a coronare una vita di sofferenze e di “grandi amori” sempre delusi.

Nata ad Alessandria nel 1876, a sedici anni Sibilla Aleramo, nome d’arte di Rina Faccio, viene violentata da un impiegato della fabbrica di vetro diretta dal padre a Civitanova Marche, dove la sua famiglia si era trasferita. Al matrimonio riparatore erano seguiti anni di sofferenza, che Sibilla cercava di compensare rifugiandosi nella lettura e nella scrittura.

Dopo un tentativo di suicidio, era fuggita da quell’ambiente oppressivo, abbandonando la casa e il carissimo figlio, per correre verso la libertà e l’affermazione letteraria.

Passava così da un sodalizio letterario ad un’infatuazione, che la lasciavano ogni volta più delusa. Giovanni Cena, Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Michele Cascella, Giovanni Boine, sono solo alcuni degli scrittori e artisti con i quali allaccia sfortunate relazioni amorose.

Anche la straziante passione per Dino Campana, si conclude, tra inaudite violenze, con un fallimento. La movimentata vita sentimentale non la distoglie dalla collaborazione a varie riviste grazie alle quali diventa la bandiera del femminismo nascente. Pubblica numerosi romanzi, raggiungendo una certa notorietà, senza però mai arrivare ad una stabilità economica, anche se può contare su numerosi amici letterati che si offrono di sostenerla con generose elargizioni.

Uno stile di vita disordinato che le causa grandi infelicità. Quando incontra il “grande amore” si trova in questa ormai delusa attesa, mentre la frezza bianca che ha sul capo sta inesorabilmente guadagnando tutta la chioma. All’inizio tutto le appare come l’ennesimo omaggio di un giovane alla sua musa inquieta. In breve, però, quel ragazzo triste e pessimista, gli entra nel cuore, in quel “vecchio cuore ancor non pago di sconfitte”.

La fiamma divampa e non le lascia spazio per nient’altro, neanche per l’amata letteratura. Sibilla s’immerge in un’esaltata inattività, in muta contemplazione di quell’amore atteso per una vita intera.

Lo stesso diario, infatti, che sarà poi pubblicato con il titolo di Un amore insolito, fu voluto dallo stesso Matacotta, perché lei non restasse in ozio. Capri fu il primo teatro del loro amore. L’isola che lei descriveva «una terra spontaneamente felice, non creata per la sofferenza», divenne un luminoso nido d’amore.

La coppia, incurante della notevole differenza d’età, viveva in uno stato di esaltazione, alternando passeggiate romantiche ad intense ore di scrittura, per finire spesso la sera al Caffè Morgano, vero “gabinetto di biologia umana”, dove poteva riposare osservando l’eccentrica clientela internazionale dell’isola.

I primi mesi di passione si svolsero tra Capri e Sorrento, in un frenetico viaggiare che illuse Sibilla che il nuovo amore potesse durare per sempre. Capri, in particolare, sembrava apparirgli come un’oasi, in cui vivere liberamente la grande passione. Quando si trasferivano per brevi periodi a Roma, si rinchiudevano per giorni in un altro rifugio, una soffitta traboccante di libri e carte, dove la scrittrice aveva raccolto tutte le sue memorie e dove sempre più raramente lavorava. Ora la sua mente e il suo cuore erano solo per l’amato, eletto come il grande amore della sua vita.

Scriveva nel diario:

«Gli ho donato in tutti questi anni, tutta la somma che è in me di vita, affinata, purificata, illuminata, l’ho creduto degno del dono, predestinato ad accoglierlo, lui unico dopo tanti, l’ho creduto e ancora oggi lo credo».

E scavando nel suo cuore generoso annotava ancora: «E so che cosa di me ha attratto Franco…Tutto ciò che è stato vita in me, virtù di poesia, amore di poesia, destino di poesia e sì, è questo, certo. Ma poesia incarnata, fatta vita, forza vitale». Nonostante l’empito della passione, Sibilla cominciava a intuire quanto complesso fosse il sentimento che nutriva per Franco, e quanto questo somigliasse alla sua tragica maternità.

Con dolore scriveva, infatti, sul diario, diventato ormai lo specchio fedele della sua disperante passione:

«Come un mistero sacro questo fanciullo non generato dalle mie viscere mi ha fatto madre del suo spirito. Io che il figlio da me partorito non potei allevare se non da bambino, mi son trovata nel mio tramonto di fronte a questa seconda e più profonda missione».

Erano così passati tre anni, con numerosi viaggi in Italia e in Grecia, con sempre più brevi permanenze nella soffitta romana, quando cominciarono a manifestarsi i primi scricchiolii. Sibilla volle allora tornare ancora una volta a Capri, nell’illusione che tutto potesse continuare come un tempo.

La stesura del diario, nella sua data di nascita, a partire proprio dal novembre 1940, porta il segno indelebile di una rivelazione, di una storia ormai avviata verso la conclusione. Forse però sarà proprio la guerra e il servizio militare al quale sarà presto chiamato Franco a ritardare quello che era già un amore in crisi. Anche a Capri la guerra cominciava a dare i primi segni. L’isola non viveva più nella solita spensieratezza.

Molti villeggianti europei e americani se ne erano allontanati. E alla scrittrice non restava che annotare: «Quanti allarmi che si susseguono, quasi ogni sera ormai! D’un sarcasmo sinistro, nella pace dell’isola, nel chiarore lunare, e con Giove fulgido nel mezzo del firmamento ». E ancora: «…si stanno installando batterie antiaeree in vari punti dell’isola».

Le notti per Sibilla furono sempre più malinconiche e insonni. Franco appariva come distratto, a tratti sfuggente, e lei cercava di intuirne il perché annotando mestamente:

«Quel mio sacrifizio iniziale forse gli uomini che ho amato non me lo hanno perdonato in cuor suo – e che credo che neppure Franco me ne assolva. Eppure, Franco ed essi tutti, ne hanno beneficiato, trovando in me, oltre che l’innamorata, la madre…».

Riflessioni amare e sconvolgenti. Quando arriva la chiamata alle armi Sibilla ne è terrorizzata. Scrive: «Franco dovrà presentarsi soldato ai primi di gennaio…Abbiamo il cuore stretto. Parliamo poco. Come un gurgito di rinnovata tenerezza ci stringe l’uno all’altro…il tempo non potrebbe essere peggiore: bufere di vento, nevischio, lampi ».

Non si dà pace e impegna tutte le sue conoscenze, per sottrarlo alla chiamata, e poi, una volta destinato in Sardegna, a farlo tornare a Roma. Proprio in Sardegna vivrà quella che lei stessa chiamerà la mia “odissea sarda”. Dopo averlo accompagnato a Civitavecchia alla nave che lo porterà a Cagliari, destinazione Macomer, non passano che poche settimane che Sibilla si precipita a raggiungerlo, spinta da un’insopprimibile desiderio.

S’imbarca allora su un traballante idrovolante e coraggiosamente lo insegue tra Cagliari e Sassari, prima di raggiungerlo, due giorni dopo, in un malandato albergo di provincia dove può ancora una volta stringerlo tra le braccia. Sibilla però sente che Franco è sempre più assente e lei stessa si convince dell’ineluttabilità della fine, annotando nel diario:

«Sento l’imminenza del nostro distacco. Sarà fatale un giorno lasciarsi, – ed è questa fatalità che ha costituito il tragico del nostro rapporto, tragico sempre crescente e che ora minaccia di soverchiarmi».

Sibilla, però, ancora innamorata, non vuol rinunciare, anche se è costretta a scrivere:

«Sofferenza, sofferenza. Abbiamo avuto altri periodi io e Franco d’angosciosi dissensi, in cui ci pareva a tratti di non poter oltre sopportare la vita in comune e perfino ci parve di non più amarci. Li abbiamo sempre superati. Ma in questi giorni lo sgomento minaccia di travolgere ogni nostra più profonda difesa. Siamo alla deriva. Incapaci di vedere più chiaramente dentro di noi. Sbattuti, cenciosi».

La guerra, con le sue immani tragedie, alimenterà una corrispondenza fitta e numerose pagine dolorose del diario. Franco le scriverà, alla fine del conflitto, una lettera d’addio, ricordandole con cinismo:

«Della nostra lunga storia si salvano soltanto due stagioni, una mia, una tua. La mia quando tornai tra la mia gente, che combatteva contro i tedeschi per sopravvivere e mi unii a loro. La tua, quando nell’inverno di Roma occupata, sei rimasta senza di me, dotata solo della tua forza e della tua sofferenza, che era la forza e la sofferenza di migliaia di altre donne intorno a te, le donne e le madri che si angustiavano per i due chilogrammi di pane da dare ai loro figli».

E il nostro amore, si domandava angosciata Sibilla?

Nel 1947, quando Franco si sposa, è tutto finito. Si era spenta anche l’ultima illusione. Sibilla continuerà però a covare nel cuore quell’amore impossibile che le farà scrivere ancora nel 1954:

«Mi sento atterrita dinanzi alla grandezza di quella mia ultima, per fortuna, illusione d’amore». Fino alla definitiva ammissione della sconfitta, tre anni dopo: «Mi sono chiesta come ho potuto talmente illudermi e per tanto tempo che quel ragazzo mi amasse».

Sibilla sopravvisse fino ad ottantaquattro anni, spegnendosi nel 1960. Nonostante l’ultima atroce disillusione, rimase fino alla fine fedele alla sua indomabile utopia di credere nell’amore e nella poesia alla quale chiedeva che le fossero restituiti i suoi tanti, infelici amori scrivendo:

«…e tu che sei mai poesia, / se fra le mie mani non riporti il suo viso?».