Leonardo Chiari, Ritratto di Dino Campana

 

 

INSEGUENDO LA CHIMERA

 

NUOVI PERCORSI NELLA POESIA DI DINO CAMPANA

 

di  Leonardo Chiari

 

da: Il nuovo Nautilus, Studi e ricerche del Liceo Torricelli - Ballardini, Faenza. Anno 2022

 

La vita barocca pluriforme a tradimento mi titilla piano. Dino Campana Quando immaginiamo la chimera di Dino Campana, spogliandola però dei sensi figurati di “sogno”, “fantasticheria”, “illusione” e dei soprasensi allegorici di “Donna”, “Divinità”, “Poesia”, pur così radicati, gli uni e gli altri, nella poetica dei Canti Orfici, immaginiamo, innanzitutto e perlopiù, un leone con una seconda testa di capra e coda di serpente1, come quello scolpito nel bronzo etrusco di Arezzo; quel bronzo che è, d’altra parte, il perno immaginativo, fors’anche per ragioni biografiche, della chimera dannunziana, così simile e diversa da quella del poeta di Marradi2.

 

Ma è probabile che Campana, a differenza nostra e di d’Annunzio, avesse in mente, e fors’anche per ragioni biografiche, un’altra specie di chimera: certo leonina,


1 A parte qualche piccola variante, queste sono le fattezze della chimera nella mitologia classica (fin da Esiodo e Omero). In greco χίμαιρα significa, letteral., “capra”. La chimera alata con testa di donna, invece, è di area mediorientale ed egiziana, ed è precedente a quella greca che da essa discende. Le sfingi greche sono, p. e., quelle raffigurate dal pittore simbolista parigino Gustave Moreau (1826-1898). Per approfondire il significato della chimera in Campana, N. Bonifazi, Dino Campana. La storia segreta e la tragica poesia, Longo Angelo, Ravenna 2007, cap. III. Per orientarsi nella letteratura campaniana, imprescindibile il monumentale lavoro di M. Verdenelli, G. Vincenzi, La sua critica mi ha ridato il senso della realtà, Bibliografia campaniana ragionata dal 1912 etc., Edilet, Roma 2011.

2 Vedi G. Bàrberi Squarotti, Le due Chimere: d’Annunzio e Campana in M. Verdenelli (a cura di), Dino Campana «una poesia europea musicale colorita», Eum, Macerata 2014, pp. 17-29. In particolare, «la Chimera dannunziana contiene in sé l’immagine di violenza, di crudeltà e di voluttà suggerita dal bronzo di Arezzo, che Gabriele contempla la prima volta mentre si aggira fra le statue insieme con la Clematide» (p. 22).


ma con le ali e con testa di donna, non di capra (dunque più rassomigliante alla sfinge greca): ricavata, iconicamente e per suggestioni, più che da un tuttotondo aretino, da un rilievo genovese; o, cosa ancor più incredibile, da un cappello femminile. In una versione primitiva di Crepuscolo mediterraneo3, non accolta però nella lezione degli Orfici, si vagheggia di un «Dolce illusorio Sud»4:

 

(Dolce illusorio Sud, strade marine seminate di bianchi trofei, grandi crepuscoli che sulla città tonante sembrano continuare un eterno sogno! Sud dell’arabesco e del barocco, fanciulle marine per le vie dove l’arte dei miti ingenua si esprime (arabeschi, grifi, chimere, cortei dei giovani re della leggenda) sui bianchi e azzurri palazzi marini […]).

 

A Genova5, tra i mostri gotici scolpiti in acroteri, fregi, mascheroni e intarsi che decorano, come alla maniera liberty, gli angoli, le piazze e i vichi stretti tra gli enormi «palazzi marini» vi sono grifi, sfingi e «chimere», che «nell’arte


3 La prosa, senza partizioni interne e aperta da cinque interrogative, precede, nella triade genovese finale degli Orfici, Piazza Sarzano e il poemetto Genova. Nella sintesi di Fiorenza Ceragioli: «Crepuscolo si configura come una scenografia barocca, con la duplice visione di quanto avviene in terra e di quanto avviene contemporaneamente in cielo, così frequente nella pittura di quell’epoca e che la magnificenza stessa del crepuscolo mediterraneo nella sera estiva può suggerire. Lo conferma il motivo finale, giocoso e fantastico: fuggono verso un loro inferno le brune fanciulle mediterranee, mentre dal fronte della chiesa volano gli angeli di gesso» (D. Campana, Canti Orfici, a cura di F. Ceragioli, Bur, Milano 1989, p. 299).

4 D. Campana, Dolce illusorio Sud, a cura di G. Cacho Millet, Edizioni Postcart, Roma 1997, pp. 45-46; quindi, sempre a cura di Cacho Millet, in Dino Campana sperso per il mondo, autografi sparsi 1906-1918, Leo S. Olschki, Firenze 2000 (riproduzione pp. 47- 51). Quest’ultima l’edizione cui farò riferimento. Esiste un’altra versione di un terzo Crepuscolo mediterraneo in D. Campana, Fascicolo marradese inedito del poeta dei Canti Orfici, a cura di Ravagli F., Giunti Bemporad Marzocco, Firenze 1972, pp. 53-58.

5 Scrive Gianni Turchetta: «Città-porto per eccellenza, infatti, Genova accoglie in sé un po’ come l’essenza del movimento partenza-ritorno, della dialettica ambigua di avvicinamenti e di allontanamenti, di desiderio e repulsione, che vi si ritrova moltiplicata, ripetuta, insieme polverizzata e amplificata nella vicenda sempre rinnovata e sempre uguale delle partenze e degli arrivi. Su Campana, con ogni evidenza, Genova esercita un potere d’attrazione irresistibile» (G. Turchetta, Vita oscura e luminosa di Dino Campana poeta, Bompiani, Milano 2020, cap. 9, p. 236).


dei miti ingenua»6 fungono da «arabeschi» di questa città tortuosa e portuale; la quale, ancor più che naïf, liberty o gotica, è barocca7; «Sud dell’arabesco e del barocco»: Genova è la capitale marina di questo «dolce illusorio Sud»8. Più oltre, nello stesso lacerto, ma dopo tanti altri schizzi ecfrastici di «porte seicentesche nobiliari», di «antichi bassorilievi», di «decorazioni convenzionali», si legge di una «vecchia chimera alla prora», ovvero una polena di un «vascello» che si «culla in un angolo azzurro del porto»: pur fra le implicature allegoriche del porto e della nave, «la vecchia chimera»/polena che addobba il vascello avrà le sembianze di una donna (forse alata, data anche la grande diffusione del soggetto per le polene); e da ciò la sua parentela con le sfinge, e da ciò il termine “chimera”. Basta poi seguire il simbolo della polena, raffrontandolo sempre al plesso chimera/sogno, per risalire a Le Cafard (Nostalgia del viaggio): «Ai venti, ai venti, presso l’augurale / Forma di che affacciato a le fortune / L’inquieta prora ha il Sogno suo navale» (11-13)9,


6 «Chimere» gotiche e altri mostri adornano l’esterno (e l’interno) della chiesa di San Lorenzo (probabilmente, «la chiesa azzurra e bianca» di Le Cafard 19). Il sintagma «cortei dei giovani re della leggenda» potrebbe riferirsi al bassorilievo dell’adorazione dei Magi in via degli Orefici. Il grifone (anch’esso alato) è il simbolo araldico del capoluogo ligure e ne orna gli edifici. Per «sfinge», cfr. «le sfingi sui frontoni» di Genova I 10.

7 In tutto il XVII secolo fino alla prima metà del XVIII, la Repubblica di Genova visse un periodo di straordinaria prosperità in cui fiorì quello stile conosciuto come “barocco genovese” che modificò profondamente il profilo artistico-architettonico della città. Nella Superba del Seicento, dove operarono, tra gli altri, Rubens, Van Dyck e Puget, le stanze e le volte dei «palazzi nobiliari» si arricchirono di grandi decorazioni illusionistiche ad affresco (come quelle di Valerio Castello), quelle «decorazioni convenzionali che vestono d’illusione la carne» cui fa cenno il poeta in Crepuscolo mediterraneo.

8 Il Sud di Campana, ideale, estetico, non reale e perciò ambientato in Liguria, racchiude altri Sud, come la Francia meridionale delle ultime parole di Beethoven («Südliches Frankreich, dahin! dahin!», che il poeta rievoca in una lettera del 1915 a Prezzolini), la Genova della Gaia Scienza di Nietzsche, e soprattutto, quale tappa mitobiografica, l’America latina. «Genova, “divina rovina”, è l’ultimo porto dell’illusorio sud, dove, per colpa di quel suo mare, “la bellezza si veste d’avventura” e la calda illusione s’allunga fino all’emisfero australe» (G. Cacho Millet, op. cit., p. 32).

9 Cfr. La Messa a S. Maria della Fortuna (Genova), 10-12: «Come scivola ai venti l’augurale / Forma di che affacciato a le fortune / L’inquieta prora ha il sogno suo navale» (in D. Campana, Opere e contributi, a cura di E. Falqui, Vallecchi, Firenze 1973, vol. II, p. 376). Invero, i commenti riferiscono il componimento a una polena lignea del XVII sec. (la “Madonna della Fortuna”) tutt’oggi visibile nella chiesa dei Santi Vittore e Carlo (via Balbi) alla quale vengono attribuiti miracoli.


dove il «Sogno navale» (con la maiuscola!) è, mutatis mutandis, la chimera (alata) protesa «ai venti»; e siamo sempre a Genova, qui evocata o invocata nei versi antenati di Barche amorrate come porto e sepolcro insieme. Anche nel carme che chiude il volume, Genova, compaiono «Chimere» (sempre in maiuscolo ma stavolta al plurale): «Ed io gli occhi alzavo su ai mille / E mille e mille occhi benevoli / Delle Chimere nei cieli:[…] » (vv. 49-51: poi subito accade, «melodiosamente», la «visione di Grazia»); che sono forse bianche nuvole «nei cieli»10 i cui molteplici occhi sono stelle; simili a volatili ornamentali come migrati dai «bianchi arabeschi» dei palazzi marini di due versi prima (si rammentino anche gli arabeschi e le chimere di «Dolce illusorio Sud», nonché le «sfingi sui frontoni / Benigne» di Genova I, vv. 10-11): sarà infatti la «vicenda infaticabile / De le nuvole e de le stelle» ad avviare la musicale colorita «visione di Grazia» della quarta strofe, visione che sarà anch’essa “rabescata” di ali (vv. 59-60). Anche queste «Chimere nei cieli», nuvole dai tratti femminili e gli occhi di stelle, sono aeree e bianche; “alate” come le loro sorelle scolpite nel marmo dei palazzi barocchi della Superba, o nel legno delle sue polene11.


10 Cfr. il primo verso di Genova: «Poi che la nube si fermò nei cieli». Eccetto che qui, la locuzione spiritualizzante «nei cieli» ricorre, negli Orfici, sempre nei pressi di «Chimera» o «Chimere». Non è da escludere un’interferenza col «Regina coeli»: ne La Chimera (v. 9) si invoca una «Regina», così come una «Regina», che è poi Genova stessa, si invoca nella lezione de Il più lungo giorno della prima strofe di Genova. Il manoscritto de Il più lungo giorno è consultabile in rete: https: //it.wikisource.org/ wiki/Il_più_lungo_giorno.

11 Altre «chimere» minori non tradiscono il punto: «L’étreinte désésperée / Des Chimères fulgurantes / Dans le miasme humain» (Da una poesia dell’epoca, vv.14-16, in esergo a Il Russo) dipendono dalle «chimères» di area simbolista francese (in testa Baudelaire); così, sempre ne Il Russo, «il respiro sordo dei pazzi addormentati dietro le loro chimere» in cui il lessema ha il senso consueto. Persino l’aggettivo «chimerico» è allusivo della volatilità, della fluttuazione dell’oggetto cui è applicato: «L’acacia sa profilarsi come un chimerico fumo» (La Verna II, Monte Filetto 25 settembre). Studiando queste occorrenze, C. Geddes da Filicaia rileva «una sorta di ossequioso timore a nominare in forma diretta colei che appare essenza e fonte ispirativa della sua arte» (Dino Campana. L’«universo mondo» dei Canti Orfici e altri studi, Franco Cesati Editore, Firenze 2018, p. 30).


La chimera dramatis persona fa invece la sua prima apparizione ne La Notte II, 17:

 

Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore.

 

E anche se al posto delle ali ha i “ginocchi” e le mani, siamo sempre nel capoluogo ligure, come si evince da «i ritorti vichi» dell’incipit, da «le porte moresche», dai rilievi e dagli altri artifici del barocco genovese; dai quali anzi «Ella», la chimera, sembra scaturire, ancorché onirica ed «evanescente», scollandosi, in un complesso intrigo di analogie e permutazioni iconografiche, dalle cariatidi e dai frontoni, cariatide anch’essa12; fusa, morfologicamente, con una prostituta in un vico e con una donna affacciata alla finestra (forse la «siciliana» del finale di Genova).

Come Amore nel sogno della Vita Nova essa stringe il cuore del poeta13; visione e sogno, come in Dante, sono la stessa cosa: la creatura barocca della visione è un «sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci», così che i sensi figurati di “sogno” e “illusione” entro “chimera” sembrano distribuirsi, rispettivamente, nell’«ombra» e «nelle luci», queste ultime «fallaci» come fallace è il «Sud teatrale, Dolce illusorio Sud, la sublime patria del barocco». In quanto cariatide di un «cielo artificiale» la chimera de La Notte II allegoricamente sorregge le volte illusionistiche della scenografia barocca genovese; e quelle illusorie, in quanto «cariatide


12 A garanzia della natura architettonico-scultorea della chimera genovese, sfogliando Il più lungo giorno all’antecedente dello stelloncino in esame: «Ai lati dell’angolo delle porte – si legge – sedevano notturne chimere – bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso poggiato alla palma». Ne La Notte II 19 riappare una visione analoga, ma rovesciata: è la donna, «cariatide notturna di un incantevole cielo», che siede sulle ginocchia del poeta. Nondimeno, anche qui il corpo femminile, mediante cui il poeta canta di «Amore», è fumoso, lieve, aereo, come le ali di una colomba, come una nuvola bianca.

13 D. Alighieri, Vita Nova I, 15-16; dove, peraltro, Amore è aereo: «mi parea che si ne gisse verso il cielo» (v. 18).


dei cieli di ventura», del «Dolce illusorio Sud», l’Eldorado popolato di chimere, percorso da «fantasmi d’oro» che promettono felicità posticcia14. Il suo habitat privilegiato è la città della «gioia barocca», entro la quale «Ella» si annida, arabesco di gesso marmo o lavagna, erotica, esotica, volatile, volatilizzata; e infine teatralmente appare/scompare da una finestra che si spegne in un gioco barocco di ombre e luci, «fantasmagoria» nel porto, chimera o «Piovra» che sia15Così ritorta, in un «torto giuoco» chiaroscurale abita la «città tortuosa» di cui è alter e simbolo, la chimera del Sud.

Si obietterà che la chimera più celebre e antologizzata, quella del Notturno omonimo16, fu concepita, fra icone leonardesche e con vocabolario dannunziano, sulle montagne alpine, o forse appenniniche, e non già sul mare ligure; del resto, la prima versione uscì nel 1912 sul “Papiro”, insieme a Le Cafard (nostalgia del viaggio) e Dualismo – Ricordi di un vagabondo, proprio col titolo Montagna – La Chimera; del resto, i versi sembrano alludere a una sorta di pareidolia suscitata da una china o da un picco roccioso tra le montagne.

Sarà un caso che nel sommario preventivo del “Papiro” il redattore annotò, al posto di Montagna – La Chimera, proprio il titolo Genova, e che la poesia fu pubblicata insieme a due testi piuttosto sintonizzati sul «Dolce illusorio Sud»: è questa dei Notturni una chimera nordica, montana, che ammicca a leggende di principesse alpine, che gravita intorno a miti barbari e germanici,


14 «…quel fantasma soleggiato di felicità che credetti intravedere molto tempo fa laggiù sul mediterraneo», come scriverà il poeta a Cecchi nel 1916: D. Campana, Lettere di un povero diavolo, Carteggio (1903-1931). Con altre testimonianze epistolari su Campana (1903- 1998), a cura di G. Cacho Millet, Polistampa, Firenze 2011, p. 170.

15 La scena teatrale della finestra che si chiude celando una presenza/assenza di donna ricorre nei luoghi genovesi del poema: «…e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero su di una duplice ombra» (La Notte II, 17: appena prima del passo riportato); «La grande finestra verde chiude nel segreto delle imposte la capricciosa speculatrice, la tiranna agile bruno rosata» (Crepuscolo mediterraneo); «Una donna bianca appare a una finestra aperta. È la notte mediterranea» (Piazza Sarzano); «[…] tu / la finestra avevi spenta» (Genova VII, vv.156-157).

16 Che è anche «la più vecchia la più ingenua delle mie poesie, vecchia di immagini, ancora involuta di forme: ma Lei sentirà l’anima che si libera», come scriverà Campana a Prezzolini (Marradi, 6 gennaio 1914). D. Campana, Lettere di un povero diavolo, op. cit., p. 21.


come quelli wagneriani, come quelli ossianici. Eppure, persino questa «Regina adolescente» esoterica, liberty (il «cerchio delle labbra sinuose»)17, col corpo di montagna e il viso preraffaellita, sembra alla fine (vv. 27-32) spiccare il volo dalle «bianche rocce», come farà poi dai bianchi marmi liguri, e dileguarsi per «teneri cieli» con «lontane chiare ombre correnti», quasi spiegando le ali (ed è anche per questo che forse il poeta notturno la chiama), al pari di una sfuggente stilnovistica donna-angelo venuta dai cieli che però «nei cieli» fa ritorno: «E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera» (v. 32).

Poco importa quale di queste due chimere abbia precedenza genetica sull’altra: esse sono il duplice filamento, montano e marino, nordico e latino, dello stesso mostro, della stessa femmina metamorfica, «evanescente», che abita l’antro roccioso della montagna e intanto si attorce nel marmo dei palazzi marini, chimera cariatide o sfinge. L’ambiguità, l’ambivalenza del mostro intercetta in allegorie una tensione dialettica programmatica dichiarata fin dal sottotitolo, quando Campana/Orfeo si presenta come «letzten Germanen in Italien»; ossia, come chioserebbe Montale, «un tardo poeta germanicus sperduto nei paesi del sud», «Orfeo barbaro»18 e barocco. In formule, la chimera del Nord richiama lo spirito germanico, barbaro, alpestre, notturno; quella del Sud lo spirito italico, barocco, marino, solare; in un modo o nell’altro, entrambe hanno le ali.


17 Per le componenti liberty di Campana, con attenzione al Quaderno, vedi M. Verdenelli, Campana liberty? In M. Verdenelli, G. Vincenzi, «Le vostre parole sono come luce di stella dolce e lontana». Transiti nella scrittura di Dino Campana, Aracne Editrice, Roma 2014, pp. 141-162. Marcello Verdenelli individua un «tratto liberty» anche nel titolo, «dove le due lettere maiuscole (C e O) si prolungano in un significativo, capriccioso e molto sensuale ricciolo interno, due lettere che sembrano quasi baciarsi, un seduttivo e avvolgente bacio, come Il bacio di Francesco Hayez» (p. 151), intuizione confermata da S. Drei in Dino Campana al Caffè Orfeo: un ‘piccolo’ enigma svelato, in “La Biblioteca di via Senato”, anno X, n.1-gennaio 2018, pp. 63-67; e in Un’insegna per Orfeo (ancora sul titolo dei Canti Orfici), in “La Piê”, anno LXXXVII, n. 4, luglio-agosto 2018, pp. 155-159.

18 Vedi R. Martinoni, Orfeo barbaro. Cultura e mito in Dino Campana, Marsilio, Venezia 2017. 


Poi vi sono le contaminazioni, le riscritture e le fonti: Nietzsche, d’Annunzio e gli altri (in primis francesi, come Flaubert19) che pure coabitano il testo campaniano; e vi sono, ovviamente, le sublimazioni mitiche dei dati biografici: dare la caccia al termine “chimera” entro le intricate varianti del corpus non serve certo a recidere collegamenti, quanto a renderne altri più robusti (qui, risalendo la china delle analogie, quello tra la chimera e Genova, entrambe divinità, entrambe sogno); e a lasciar traspirare, fra gli autografi, una discussione filosofica silenziosa20.

Fin qui la chimera d’ornamento, congelata in rilievi e trofei alati benché volatile e sfumata; ma in che modo, come anticipato, un cappello da donna può aver contribuito a modellarne, nell’immaginario, la figura? V’è un altro luogo di «Dolce illusorio Sud», il primo e forse più importante, in cui spicca la parola “chimera” (solo qui con la maiuscola; perdipiù seguito dall’evocativo “Genova”)21; dopo l’attacco con le interrogative retoriche parzialmente recuperato negli Orfici, prima che si pronunci l’inno alla Dea Genova, tra «vichi e piazzette marine»

le fanciulle severe passano armate del casco notturno della Chimera, Genova, ultimo porto, divina rovina, arce tortuosa sul mare dove la bellezza si veste d’avventura […].


19 Ne Le Tentation de Saint Antoine, Flaubert inscena un dialogo tra la Sfinge e la chimera: quest’ultima, alata, incarna alcune componenti, compresa la dialettica Mare/Montagna, rinvenute nella chimera campaniana:

«Je galope dans les corridors du labyrinthe, je plane sur les monts, je rase les flots, je jappe au fond des précipices, je m’accroche par la gueule au pan des nuées ; avec ma queue traînante, je raye les plages, et les collines ont pris leur courbe selon la forme de mes épaules […] Moi, je suis légère et joyeuse ! Je découvre aux hommes des perspectives éblouissantes avec des paradis dans les nuages et des félicités lointaines. Je leur verse à l’âme les éternelles démences, projets de bonheur, plans d’avenir, rêves de gloire, et les serments d’amour et les résolutions vertueuses. Je pousse aux périlleux voyages et aux grandes entreprises».

20 Ancorché il frammento di «Dolce illusorio Sud» si impunti almeno cinque volte sul maiuscolato «Sud», non viene scelto, si diceva, per l’edizione del 1914. La ragione risiede, presumibilmente, nella poetica maturata nel frattempo: la «discussione» estetico-filosofica, come parrebbe questa sul «Sud» o quella sull’«arte mediterranea», viene omessa o quantomeno oscurata in virtù della sua restituzione espressiva.

21 La contiguità tipografica tra “chimera” e “Genova”, nonché la stessa costruzione sintattica del periodo, rilasciano ambiguamente l’impressione di una (parziale) sovrapponibilità semantica dei termini.


Campana ha una specie di ossessione per le teste, le acconciature, i cappelli. Sovente, i personaggi del suo poema sono ritratti, secondo una speciale attitudine alla ritrattistica coltivata, forse, tra Dante, il Rinascimento e i romanzieri russi, attraverso il particolare della «testa» (in ombra o sottinteso il resto del corpo) o un suo dettaglio (occhi, fronte, viso, capelli etc.), talora volto ad agganciare un mondo, dalla Bibbia («la barba giudaica di un vecchio», La Notte I, 1) alla filosofia classica tedesca («l’occhio strabico fisso sul fenomeno», L’incontro di Regolo, 3), al mito («il sorriso di Cerere bionda», La Verna I, 3); ritratti a mezzobusto, ritagliati di profilo o ripresi in pose plastiche, con gusto affatto particolare per gli abiti e i costumi del tempo, quasi da bozzetto naturalistico, miniatura raffinata di un pezzo di società alla moda.

Nella fattispecie, i cappelli femminili hanno tipicamente la «penna», la «piuma», o l’«ala» come la chiama lui: «Il piccolo viso armato dell’ala battagliera del vostro cappello, la piuma di struzzo avvolta e ondulante eroicamente»; così si rivolge a Manuelita Etchegaray, fornendone al tempo il ritratto; sul modello di quelle già tratteggiate nel Quaderno con «…le fanciulle / Di sotto i cappelloni ultima moda», «i cappelloni battaglieri / Che armavano di un’ala gli occhi fieri»22, che alfine confluiranno in Frammento (Firenze).

Quest’idea dell’armamento, una sorta di elmo di Hermes, è tutta in quel «cappello battagliero» con l’ala23: negli Orfici, i cortei femminili alla moda passano in sincrono, sfilano come eserciti in straniante spettacolo: il ritrattista, il bozzettista Campana ne fa un reportage studiandoli, ma con stupore, come animali esotici, creature allegoriche: «…sotto lo scorcio dei portici seguivo le vaghe creature rasenti dai pennacchi melodiosi…» (Scirocco (Bologna)); «Languida scende ne l’aquilonare / Cappello, ricca femminile turba» (La Messa a S. Maria della Fortuna (Genova), 7-8).


22 Firenze Cicisbea, v. 4 e vv. 7-8 (D. Campana, Opere e contributi, op. cit., p. 305).

23 Che anche potrebbe alludere al cappello dei bersaglieri, «inclinato» e con le piume (anche la «fanfara» è termine campaniano, come in Arabesco-Olimpia): devo quest’ultimo suggerimento a Silvano Salvadori.


Nella Giornata di un nevrastenico, ambientata sempre a Bologna, «passavano pomposamente sfumate figure femminili, avvolte in pelliccie, i cappelli copiosamente romantici, avvicinandosi a piccole scosse automatiche, rialzando la gorgiera carnosa come volatili di bassa corte»: con quest’ultima similitudine che scaturisce, si direbbe, sempre dai copricapo piumati, ma in tal modo, poiché la Giornata cala freudianamente nei turbamenti sessuali dell’Io lirico, si connette al canto dei lussuriosi, paragonati da Dante, come noto, a schiere di volatili24. Altrove, è l’arte che media le rappresentazioni poetiche, come nel Quaderno all’antecedente della seconda strofe di Genova (qui Piazza S. Giorgio)25: «Irraggia lo splendore orientale / Genova nelle donne dalla testa / Sibillina, dal carco profumato della lor chioma grave lungo attorta»: non vi sono ali o cappelli ma c’è la «testa / Sibillina»: indubbiamente la Sibilla e l’annesso richiamo all’oriente, che oltre contamina anche la «torre», sono imboccati, sempre via analogie, dal «carco», in eco con «casco», della «chioma grave lungo attorta», come nelle tele barocche della Sibilla Cumana (in primis di Guido Reni, visibile a Bologna o Genova). A proposito di barocco, ma tornando ai cappelli con piuma, tra i brani inediti del marradese compare un curioso dialogo tra un osservatore e una donna raffigurata in un quadro, Il cappello alla Rembrandt, il cui incipit suona: «Giovane donna, il vostro cappello rosso ondulato sul vostro viso fiorente, i vostri occhi neri mi invitano a riflessioni strane e ambigue»; e anche senza penetrare nel testo26, pur così ricco di intuizioni estetiche, basterà sbirciare in un compendio di moda femminile per scoprire che «a partire dal barocco, il largo cappello ornato di piume o fiori tornò ripetutamente di moda; più tardi fu


24 La connessione di ascendenza dantesca tra la lussuria, o l’amore in genere, e gli uccelli è visibile altrove; addirittura, negli Orfici tipi diversi di amore sembrano reagire specie diverse di uccelli; cfr. p.e., ne La Notte, la differenza simbolica tra «piccione» e «colomba».

25 D. Campana, Opere e contributi, op. cit., p. 345; ossia piazza Caricamento su cui si staglia palazzo San Giorgio con affreschi inerenti sulla facciata (Campana però richiama solo il corpo medievale dell’edificio: «…l’arcato palazzo rosso dal portico grande», Genova II 22). L’associazione tra san Giorgio uccisore del drago e Bellerofonte uccisore della chimera è diffusa nella letteratura fin de siècle: p.e. «Beau saint Georges, tueur des chimères immondes!» (Iwan Gilkin, La Chimères, 24).

26 Per approfondire, S. Sitzia, «Il cappello alla Rembrandt» di Dino Campana, «ITALIA MAGICA», Letteratura fantastica e surreale dell’Ottocento e del Novecento, 2008, pp. 544- 561. Sitzia suggerisce che il quadro messo in scena dal poeta sia Saskia sorridente (1633) che egli poté ammirare ad Anversa (p. 550).


detto cappello alla Rubens o alla Rembrandt»27; e sarebbe tornato di moda nella Belle Époque di Campana.

«Il casco notturno della Chimera» di cui passano armate le fanciulle genovesi del «Dolce illusorio Sud» è un tipo di cappello femminile, alla Rembrandt, dall’ampie tese, alato come alata è la chimera, di taffetà o velluto; ed è lo stesso cappello con la «piuma di struzzo» di Manuelita Etchegaray che ha il «viso armato dell’ala battagliera».

La conferma proviene da una fonte diretta, forte, recepita dal marradese in tutto il suo portato allegorico, a testimonio, pertanto, della stratificazione letteraria, inverata in origine entro il simbolismo ottocentesco parigino, di certi motivi, di certi moduli pure suscitati, eccitati, come sempre, da cose viste davvero, e da vissuti: Baudelaire, in uno dei Petite poèmes en prose dello Spleen de Paris, racconta, in un flash allegorico (Chacun sa chimère), di uomini che camminano ricurvi in un corteo, che portano sulla schiena, aggrappata, una «énorme Chimère», la quale ricopre la testa di ciascuno come fosse l’elmo di un fante romano; tantoché «sa tête fabuleuse surmontait le front de l’homme, comme un de ces casques horribles par lesquels les anciens guerriers espéraient ajouter à la terreur de l’ennemi». Inequivocabile: «Il casco notturno della Chimera» che ricopre la testa delle fanciulle «armate» in corteo è il casque della Chimère di Baudelaire che ricopre la testa degli uomini-guerrieri in corteo; con l’aggiunta, però, che nel lacerto campaniano l’allegoria baudelaireana, appena sfiorata, appena pronunciata, reagisce, meravigliosamente, con l’abbigliamento femminile anni Dieci, con i modaioli cappelloni alla Rembrandt piumati di struzzo o d’aigrettes, che somigliano a elmi28. Quale che sia la matrice originale delle suggestioni, sono tutte muliebri parvenze della chimera del Sud, sfinge ambigua e sinuosa, «tortuosa» come la città


27 M. Lamarovà, O. Herbenovà, L. Kybalovà, Enciclopedia illustrata della moda, ed. italiana a cura di G. Malossi, Mondadori, Milano 2002, p. 417 (cfr. p. 400). L’espressione «cappello alla Rembrandt» è anche in Proust, nel primo volume della Recherche (Dalla parte di Swann).

28 In Forse che sì forse che no (1910), romanzo, per l’appunto, ambientato nel mondo dell’aviazione e il cui protagonista, Paolo Tarsis, è una specie di aviatore nietzschiano, si prolunga a più riprese sui motivi dell’«ala» e del volo; fin dalla prima pagina nella quale, dopo poche righe, si legge (a riguardo del copricapo di Isabella): «…di sotto alle due ali ferrugine che le coprivano gli orecchi inserite nel suo cappello a guisa d’elmetto…».


ligure che la esibisce appollaiata sui cornicioni o sui cappelli Belle Époque delle passanti, simbolo e icona del barocco campaniano.

Più facile intuire, che spiegare, le correspondances: per rintocchi segreti, sepolti sotto il testo e camuffati dai rimaneggiamenti continui, dai bassorilievi in marmo si giunge alle nuvole, ai femminili «cappelli armati di un’ala», alle chimere alate, passando per Rembrandt, il barocco genovese, e i grandi temi del viaggio, dell’amore e del sogno che affiorano in superficie; dove Baudelaire e gli altri si sono stratificati, sovrapposti con le avanguardie, coi crepuscolari, con le tre corone del Novecento; dove, tuttavia, certe idee-guida o figure non sono mai decadute, tutt’al più sprofondate: recuperarle, immergendosi fra le varianti, non significa portare alla luce inerti reliquie ma anelli mancanti, termini impliciti nei sillogismi simbolici (sondando così la resistenza di Campana «l’Oscuro»); e non sarà nemmeno sufficiente, giacché in lui, all’origine del suo verso, nell’attimo della sua scaturigine, v’è sempre un pezzo di biografia, solido, trasmutato in mito o in archetipo, ma senza il quale a noi manca la chiave. Misteriosamente, ad esempio, nel cosiddetto «foglietto volante» del Fascicolo marradese29 fa la sua comparsa una fanciulla «improntata a una certa grazia primitiva», «corpo quattordicenne», che sale, forse seguita da qualcuno, un’erta via genovese; ma un dettaglio colpisce il poeta di Marradi:

Sopra un morione di velluto nero erano appiccicate esternamente due penne di colomba.


29 D. Campana, Fascicolo marradese, op. cit. pp. 112-117. Nel foglietto sono anche riportati i vv. 21-27 di Sorga la larva di antico sogno, altra lirica del Quaderno (cfr., tra l’altro, «Passa la larva di antico sogno / Nel Nulla» di La messa a S. Maria della Fortuna vv. 20-21) in cui torna, variata, la scena della fanciulla col morione: «Sventoli, contro il vento / Battagli: i cigli lunghi / traenti in arco tendi / Sotto il morione nero / Che una penna commenta…» (vv. 4-8). D. Campana, Opere e contributi, op. cit., p. 378. A proposito di Sorga la larva antica, Scrive Silvio Ramat: «Se ora constatiamo la quasi identità tra le seconde parti di Sorga la larva e di Pei vichi fondi, verrebbe da pensare che la fanciulla spaventata dell’una sviluppi il personaggio della stretta al magro padre unica figlia apparso nell’altra poesia» (Ivi, p. 452). E poiché quest’ultima scena è l’antecedente della famigerata quarta strofa di Genova, non è da escludere che le ali che qui “rabescano” l’ombra siano le stesse lì appiccicate al morione della fanciulla.