La morte a Roma di Sibilla Aleramo scrittrice, e donna di grandi passioni

 

di Nicola Adelfi

 

La Stampa, 14 gennaio 1960

 

CREDETTE DI POTER FARE DELLA VITA UNO SPECCHIO DELL'ARTE

 

 

Lottò contro le convenzioni, cercò di superare i vincoli della morale, fece sempre dono di se stessa con libertà e lealtà - Con Giovanni Cena andò per le desolate campagne romane a tentare un'opera di redenzione: i singolari amanti gettarono tra quelle povere popolazioni germi di speranza - La tempestosa relazione con il poeta pazzo Dino Campana  -I suoi scritti le diedero vasta fama: a Parigi, D'Annunzio e Rodin si contendevano l'onore di ospitarla. Nonostante l'esistenza romanzesca e travagliata aveva conservato un candido aspetto di soave innocenza

 

(Nostro servizio particolare)

 

Roma, 13 gennaio.

Sotto la data 20 settembre 1942 Sibilla Aleramo scriveva nel suo Diario: «Mi guardo attorno, la povertà che di solito non curo mi sembra improvvisamente vergognosa, così irrimediabile, che mi accompagnerà ormai fino all'ultimo giorno. Polvere, tarli». E nove giorni dopo: «Questa notte alle quattro mi sono destata, la pioggia cadeva a grosse gocce sul cuscino accanto alla mia chioma. Mi sono alzata, ho tratto il giaciglio nel mezzo della stanza, mi sono ricoricata». E un po' più, innanzi: «Oggi ho fatto cosa per me assolutamente nuova in tanti anni che vivo: ho lavato il pavimento... Ho deciso di compiere da sola la pulizia della soffitta, non volendo che Franco, quando arriverà, la trovi così fasciata di polvere».

In questi appunti troviamo un primo squarcio di luce per orientarci nella lunga vita di Sibilla Aleramo, che fu donna di grandi passioni, di generose dedizioni, di una sensibilità acutissima. La scrittrice aveva allora 66 anni, ma non era ancora stanca di amare, e quel Franco che cosi spesso appare nel suo Diario era un poeta di quasi quarant'anni più giovane di lei; eppure, attraverso i suoi scritti, vediamo Sibilla Aleramo sentirsi ancora avvampare di intense emozioni al pensiero del suo Franco, vegliare su di lui con gelosia, assediarlo di cure, nutrirlo con tutta se stessa, col suo stesso sangue. E' famosissima; alcuni suoi libri, come il romanzo Una donna, sono stati tradotti all'estero in otto lingue, certe sue raccolte di versi hanno ricevuto i maggiori consensi dalla critica, da Gobetti a Emilio Cecchi; e tuttavia, è povera, vive di sussidi, la sua casa è una mansarda in via Margutta, con muri screpolati e pochi mobili. E ama col tenero trasporto di una giovinetta.

Sibilla Aleramo era nata ad Alessandria nell'agosto 1876, in una famiglia borghese. Decisiva fu l'influenza che su di lei ebbe il padre Ambrogio, e di lui la scrittrice scriveva: «Mio padre, scienziato, ed ateo, aveva ereditato da mio nonno, mazziniano, alcuni concetti morali, sincerità, lealtà, onestà, libertà, quelli che oggi si chiamano ideologie ottocentesche. E ad essi uniformava rigidamente la propria esistenza, e dai miei primissimi anni me li trasmise come una specie di religione, umana religione, unitamente a un senso, panteistico e commosso, di tutte le cose ». La madre Ernestina invece era di carattere molto debole, assai impressionabile, una volta tentò di uccidersi e poi fu chiusa in un manicomio. Sibilla Aleramo (il suo vero nome era Rina Faccio) frequentò le scuole elementari a Milano e poi segui il padre in un paesino delle Marche. Fu un'autodidatta, e studiò piuttosto confusamente. Del resto, a quindici anni venne unita in matrimonio a un uomo che non amava e dal quale ebbe un figlio. E molto più tardi, con quella sua singolare, spietata sincerità la scrittrice scriverà: «L'unico figlio io l'ho concepito per mezzo dell'unico maschio che m'ha avuta senza amore, di colui che m'ha rubata, di sorpresa, a quindici anni: mio marito».

Fu un matrimonio infelice, come del resto quasi tutti infelici furono i molti amori che travagliarono la esistenza di questa donna. E' lei stessa a spiegarci che negli uomini cercava istintivamente colui che potesse dargli «un figlio dell'amore, una creatura che fosse insieme un capolavoro della sua carne, del suo cuore, del suo spirito». Oppure era una specie di sentimento materno che la spingeva a rifugiarsi nelle braccia degli uomini. Fu probabilmente il caso del suo forsennato amore per il poeta «maledetto» Dino Campana. Alcuni anni fa Sibilla Aleramo consentì alla pubblicazione delle lettere che lei e il poeta toscano si erano scambiate; non so se sia un documento letterario, ma so di certo che poche letture sono più avvincenti e allucinanti. Più, che due amanti latini si direbbero personaggi demoniaci trasferiti da Dostoiewski, dalla Russia in un clima mediterraneo, tanti sono gli amplessi e le percosse, i contorcimenti interiori dei protagonisti di quella vicenda tutta vera, gettata all'impensata su biglietti postali, moduli telegrafici, cartoline, immagini sacre.

Di ben altra natura fu l’amore che per molti anni legò Sibilla Aleramo a quella specie di apostolo socialista che fu lo scrittore canavesano Giovanni Cena. Insieme, a piedi o su traballanti carri, andavano per le campagne desolate dalla malaria dell'Agro Romano e delle Paludi Pontine per portare una parola di conforto e per gettare un seme di speranza. Erano popolazioni abbrutite dalle malattie, dall'ignoranza e dalla mancanza di contatti col mondo civile, ma pure a poco a poco alcune si risvegliarono, capirono l'intento umanitario che muoveva i due giovani amanti, e così sorsero via via una settantina fra scuole e asili d'infanzia, qualche dispensario farmaceutico. Sibilla Aleramo fece allora la maestrina, l'infermiera, portò qualche pezzo di pane nelle case dei più poveri, qualche pannolino presso il letto delle puerpere, un fiore sulle bare.

E trovava anche il tempo di scrivere. Dopo il romanzo Una donna, seguirono altri romanzi: Il passaggio, Amo, dunque sono, Il frustino; e raccolte di prose come Andando e stando, Gioie d'occasione, che ottenne a Parigi il Premio della Latinità, e Orsa minore; e poi raccolte di poesie: Momenti, Poesie, Sì, alla terra, Aiutami a dire. Non tutte erano cose belle, e alcune anzi venivano criticate per essere intinte di dannunzianesimo oppure per essere «troppo floreali». Ma, tra alti e bassi, il successo continuava, si allargava, si consolidava. Nel campo della letteratura Sibilla Aleramo diventava un personaggio internazionale; e se per esempio si recava a Parigi, fra Gabriele d'Annunzio e lo scultore Rodin scoppiavano seri malumori a chi dovesse ospitarla. E di lei s'interessavano vivacemente letterati che fra loro avevano pochissime affinità, come l'austriaco Stephan Zweig, il francese Benjamin Crémieux e il russo Massimo Gorki. Se, inoltre, con gli scrittori Luigi Pirandello e Alfredo Panzini ebbe grande dimestichezza letteraria, col pittore futurista Umberto Boccioni e con Papini i suoi rapporti furono di natura molto più intima.

Sarebbe ingiusto giudicare Sibilla Aleramo col metro della morale corrente. Quel che si deve dire è che lei fece sempre dappertutto dono di se stessa con una libertà e una lealtà che corrispondevano fedelmente alla sua natura di donna e di artista. Credeva nell'arte e volle che la sua vita fosse lo specchio esatto delle sue idee artistiche; lo volle con una fede molto ferma, lottando contro tutte le convenzioni e superando tutti gli ostacoli. Perciò, nonostante la sua vita travagliata, Sibilla Aleramo ha conservato fino agli ultimi suoi giorni un'aria di candore, una soave innocenza che non mancavano di affascinare chiunque l'avvicinasse.

Aveva 83 anni e mezzo ed era ancora bella. Quando entrava in un salotto o partecipava nella sua veste di comunista a una festa popolare, con quei suoi famosi capelli candidi, con quei suoi occhi dolcissimi, era come se arrivasse un raggio di sole. Negli ultimi tempi si era anche rasserenata, e grazie a un paio di pensioncine viveva abbastanza agiatamente. Aveva abbandonato la sua soffitta di via Margutta e si era trasferita in un appartamentino molto grazioso nel signorile quartiere dei Parioli. Poiché tutta la vita era stata un'attenta raccoglitrice di lettere e di fotografie, la vecchia signora trascorreva i suoi giorni rimembrando il passato, i tempi di Cena e di Papini, i giorni in cui era accorsa a scavare i morti dalle macerie di Messina, le tempeste con Dino Campana, i viaggi nella Parigi dannunziana.

Ed era quasi felice. Ma un mese fa incontrò per strada Maria Bellonci e le disse: «Lo vedi come sono smagrita? E' il fegato sai, cara, non posso più mangiare. Anche se prendo un dito di tè, poi non lo reggo. Dimmi, cara, sono diventata davvero brutta?». Maria Bellonci la abbracciò, le disse che lei, Sibilla Aleramo, col suo candore, con tutta la luce che conservava negli occhi «sarebbe stata sempre la più bella di tutte quante».

Ma di lì a poco la vecchia scrittrice dové entrare in una clinica. Non c'era niente da fare: carcinoma epatico. I medici della clinica cominciarono a praticarle iniezioni per attenuare le sue sofferenze. Sibilla Aleramo è morta stamane verso le quattro mentre dormiva. E ora, stesa sul letto di morte, pare che sorrida tranquillamente, senza rimpianti.