Paolo Mauri

 

 

Fantasmi a Montevideo

 

di Paolo Mauri

 

da La Repubblica, 7 agosto, 2000

 

 

Montevideo Le acque livide del Rio della Plata mettono a disagio. è il fiume, penso, che mette a disagio noi europei: è troppo vasto, troppo largo, troppo imponente. In verità è l'estuario di due fiumi, un'insenatura dell'Atlantico tra Buenos Aires e Montevideo. Con i battelli veloci di oggi tutto si risolve in una gita di poche ore: si va e si torna in giornata. Trovandomi a Buenos Aires decido che ci vado. Ma perché ci vado?

 

Perché voglio vedere quello che ha visto Dino Campana, autore di una lirica intitolata Viaggio a Montevideo dove si dice di

 

"un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume".

 

Dal porto si sale rapidamente in città: i taxi hanno ancora il vetro divisorio con un pertugio che complica il passaggio dei soldi. Accettano la moneta argentina, ma cambiare in moneta locale non è difficile, nonostante sia sabato e le banche siano chiuse. Ci sono botteghini appositi, come ormai dappertutto. L'addetto staziona fuori, in maniche di camicia, e cambia qualche banconota senza calcolatrice e senza ricevute.

 

"Limpido fresco ed elettrico era il lume / della sera e là le alte case parevan deserte...".

 

Montevideo è soprattutto una lunga strada, l'Avenida 18 luglio, molto commerciale, che dalla grande piazza, che ricorda l'Indipendenza, col suo bravo monumento equestre a Josè Artiguas, corre abbastanza diritta fino all'obelisco moderno, messo lì per il centenario, appunto, dell'Indipendenza nel 1930. Oltre l'obelisco, attraverso un parco, si scivola nella zona dello Stadio del Centenario. Non resta che camminare.

Lo avrà fatto anche Campana? Le vetrine non dicono più nulla, da nessuna parte: la globalizzazzione è arrivata anche qui, naturalmente, anche se l' aria è dignitosamente povera, come di chi scopre oggi un po' di consumismo. Una folla incredibile riempie un negozio di elettrodomestici che promette sconti folli, un po' dappertutto spuntano ragazzi che ti porgono volantini commerciali dalla grafica assai modesta: sconti e ancora sconti. La promessa è sempre quella.

Mi sposto dalla via principale di poche centinaia di metri: c' è un mercatino, ma offre jeans e magliette, magliette e jeans, scarpe a buon mercato. Riguadagno la via principale dove un ragazzo sta per cominciare il suo numero da artista di piazza. è un contorsionista: espone fotografie della sua performance che consiste nel farsi legare il più stretto possibile con una grossa fune per poi liberarsi con abili movimenti del corpo. Ha la pelle scura e la parlantina sciolta, dice di aver lavorato un po' dappertutto, anche in Spagna, a Barcellona.

Una piccola folla lo circonda mentre un ragazzo e una ragazza scelti nel pubblico si danno da fare per legarlo. Ecco, penso, un piccolo show di questo tipo potrebbe averlo visto anche Campana, se è vero che venne qui, mezzo zingaro, intorno al 1909. Quando era internato a Castel Pulci come pazzo e raccontava la sua storia allo psichiatra Carlo Pariani, Dino disse d'aver fatto un po' di tutto in Sud America. Scrive Pariani nel suo libro, la Vita non romanzata di Dino Campana, del periodo in cui si fece girovago, saltimbanco...

 

"Facevo qualche mestiere. Per esempio temprare i ferri; tempravo una falce, una accetta. Si faceva per vivere. Facevo il suonatore di triangolo nella Marina argentina. Sono stato portiere in un circolo a Buenos Ayres".

 

Secondo altre testimonianze Campana sarebbe stato anche poliziotto in Argentina, carbonaio nei bastimenti mercantili, fuochista... oltre che in America del Sud e in Francia e Belgio dove fu anche arrestato diceva d' essere arrivato anche a Odessa, in Russia. "Vendevo le stelle filanti nelle fiere".

Sebastiano Vassalli, nella Notte della cometa, il suo romanzo-biografia dedicato al poeta di Marradi, dice di non credere al viaggio in Russia: forse Odessa era solo il nome di una nave sulla quale Campana si era imbarcato. La storia del viaggio di Campana in Argentina e Uruguay è piena di buchi e di incertezze.

Gabriel Cacho Millet, che ha scritto molto su Campana e setacciato archivi di ogni genere, è riuscito ad arrivare a due certezze o quasi: che un passaporto Campana l'aveva chiesto e che in famiglia ricordavano ch' era stato accompagnato a Genova per partire per l'America.

Dino soffriva di amnesie e lo confidò a Pariani: a volte non ricordava nulla. Altre volte tutto gli tornava chiaro nella mente. Dalle poche pagine scritte sull' Argentina e su Montevideo non si cava, come è logico, nulla di preciso. Ungaretti dubitava che quel viaggio fosse mai avvenuto e così Ruggero Jacobbi.

Eppure quel mare giallo sembra già da solo un indizio abbastanza concreto: e poi che importa? Da poeta quel viaggio lo ha fatto certamente e addirittura ne descrive la rotta, il passaggio in Spagna con quell' immagine goyesca delle

 

"gravi matrone di Spagna / da gli occhi torbidi e angelici / dai seni gravidi di vertigine"

 

e l' approdo a Capoverde... Nella Fantasia su un quadro di Ardengo Soffici balena una

 

"taverna café chantant / d' America: la rossa velocità / di luci funambola che tanga...".

 

Seguitando la passeggiata cerco qualche traccia primonovecentesca, cerco Montevideo "la civettuola", come la definisce un altro scrittore leggendario che vi è nato, quell' Isidore Ducasse meglio noto come Lautréamont, o per dirla tutta, come conte di Lautréamont: titolo inventato, visto che il padre, nato in Francia, era un maestro elementare che ebbe qualche piccolo incarico diplomatico.

Lautréamont sembra l' antenato ideale di Campana: vita inquieta, incerta, immaginaria e un' opera folgorante, pubblicata con sovvenzioni e difficoltà, senza gloria immediata ma destinata a rappresentare la letteratura assoluta. "è il vangelo della Dannazione", scrisse Léon Bloy. E Sollers attento studioso dell' opera luminosa: "Lautréamont veniva da Montevideo e questo conta". I canti di Maldoror come i Canti orfici.

Opere senza parentele, indimenticabili. Lautréamont muore a soli 24 anni a Parigi, nella Parigi del 1870 assediata dai prussiani. Montevideo la civettuola la ritrovo nel museo del gaucho ospitato in una villa di fine Ottocento costruita da un architetto francese.

L'ingresso è gratuito e c'è poco da vedere: lazos, ricostruzione di scene della prateria, bardature per cavalli. Recipienti per il mate. Ma se si guarda alla villa, tirata a lucido e con le custodi evidentemente orgogliose del loro museo, si intuisce una vita elegante, il duplicato coloniale del trambusto da capitale europea, qui ridotto anche per le diverse proporzioni della città.

Non era spaventosamente vuota anche l' Argentina agli inizi del secolo? "Governare è popolare", dicevano i politici di allora e segnavano sui registri i nomi degli emigranti, in gran parte, come si sa, italiani. Ma Cacho Millet il nome di Campana nei registri non l' ha trovato e la banda della Marina non teneva conto di eventuali suonatori stranieri di triangolo.

Entro in una grande libreria ma non trovo le opere di Lautréamont. Il commesso sorride ma dice che non le ha, che le ha avute però. Una specie di palchetto d' onore è dedicato allo scrittore Eduardo Galeano: è appena uscito un suo libro illustrato con le incisioni di un certo Borges che ovviamente non è Borges lo scrittore.

Galeano, che è stato tanti in anni in esilio in Argentina e poi a Madrid, ha scritto l'opera più singolare che io conosca sull'America del Sud, La memoria del fuoco, una trilogia costruita con la tecnica paziente del collage. Galeano ha letto tutto sull'America Latina e pazientemente ha estratto i documenti più curiosi, le testimonianze più crude, i brani di diario più interessanti e li ha messi in fila, implacabile, citando o riscrivendo. Se ne esce con l' idea che il mondo sia da sempre in preda a un delirio sanguinario, tra sopraffazioni e ingiustizie. (In Italia La memoria la tradusse Sansoni e da non molto l'ha ristampata Rizzoli).

Ci sono anche, nella libreria in cui indugio un po', i libri di un'altra gloria nazionale, Mario Benedetti. Da noi è appena uscita Lettere dal tempo (editore Le Lettere), una soffice raccolta di racconti brevi. Ce n'è uno dedicato al Vecchio Caffè Tupài che stava davanti al Teatro Solis dove si riunivano giornalisti, attori, operai, attori, politici, è stato distrutto e mi dispiace di non poterlo vedere: i vecchi caffè hanno sempre un loro appeal, come il magnifico Tortoni di Buenos Aires.

Scrive Benedetti: "Il turista che allora (la fine degli anni Cinquanta) giungeva a Montevideo, sapeva che i punti chiave della città, le cartoline che non poteva omettere, erano il Palazzo del Governo, il Mercato del Porto, il monumento a La Carreta, il Giardino Botanico, il casinò del Parque Hotel, Lo Stadio Centenario, il Teatro Solis, il lungomare del quartiere Pocitos e naturalmente il Vecchio caffè Tupài".

Profittando di Benedetti ho così citato anch'io i luoghi canonici di questa città dove i giardini sono opera dell' architetto Giovanni Veltroni, italiano, e dove ha combattuto Garibaldi (c'è una casa museo). Ma mi interessa di più citare la frase successiva di Benedetti: "La città in quegli anni stava assumendo un' aria nostalgica, ma non era chiaro che cosa le mancasse". Non c' è dubbio, le città le senti vivere e cambiare. Son cose che avverti nell' aria, nel modo di fare della gente. Ho preso un autobus, per tornare al porto.

Ci sono ancora i bigliettai con i loro mucchietti di monete come da noi un tempo ormai lontano. Il fuoco rosso del tramonto è tutto per Campana, per il suo viaggio metafisico, sublimato in poesia. Ripenso al verso

"fiammelle rosse si sono accese da sé"

Alla fine restano solo le parole.