Edoardo Sanguineti

 

 

La cometa Campana

 

di Edoardo Sanguineti

 

da L’Unità, sabato 29 dicembre 1984

 

 

Anno nuovo, anniversari nuovi. E quest'anno, per le lettere italiane, la mobilitazione generale sarà in favore di Manzoni, con quella sua culla che ha la bellezza di due secoli. Sulla linea di partenza centenaria, meno clamorosamente, si sta raccogliendo comunque un bel drappelletto di nomi, più e meno celebrati e celebrabili: Campana, Moretti, Onofri, Palazzeschi, Rebora...

E, per Dino Campana, potrebbe essere anche l'occasione giusta di un confronto serio e serrato, considerando che entusiasmi e diffidenze, fanatismi e cautele, si saranno pure raffreddati, nell'affrontarsi, con il tempo, ma non certamente spenti.

E i «Canti Orfici» stanno ancora lì, anno 1914, per alcuni inciampo rispettabile, per altri insigne monumento, e per qualcuno finalmente scandalo consumato e impallidito, ma buona pietra di paragone, comunque, per gli umori, non esclusivamente estetici, di ogni generazione che si affaccia sopra le balze del nostro vecchio Parnaso.

Da più di un decennio è stata anche ritrovata e pubblicata, come è noto, la stesura originaria di quel suo libro unico, «Il più lungo giorno», detenuta tra le carte di Soffici, cui Campana l'aveva affidata. Ma, se non si è giunti a elogiare Soffici, per quella famosa requisizione di manoscritto, la reazione generale, pesato bene tutto, è stata l'elevazione di un pensiero riconoscente, secondo i gusti, all'oculata provvidenza o alla cieca fortuna, non soltanto per aver essa costretto il povero Dino a riscriversi da capo i suoi testi, arricchiti, migliorati, riordinati e corretti, ma anche per averci conservato così intatto quel fondamentale laboratorio cartaceo del poeta di Marradi, nel quale, volendo, rimane molto ancora da esplorare e riconsiderare con calma.

Ma Campana non è soltanto un libro, con contorno di quaderni, taccuinetti, fascicoli vari. E’ naturalmente, come capita a tutti quelli che ci vivono, anche una vita.  E la vita di Campana è di quelle, sventuratamente, lo si dice per lui prima di tutto, ma anche un po' per noi, che fanno romanzo. Irregolare, vagabondo, difficile, incompreso, lunatico, e finalmente disperatamente psicotico, Dino finì recluso nel manicomio di Castel Pulci nel 1918, e vi morì nel 1932. Il suo primo biografo impegnato e zelante fu proprio uno psichiatra, Carlo Pariani, molto clinicamente prebasaliano, per forza, ma pieno di ammirazione, almeno, per la sua scrittura, e non privo di goffaggini, è vero, ma nemmeno di eccellenti intenzioni, che sono già ostentate in titolo, dove si vanta una «vita non romanzata».

Fece commentare dal medesimo Campana, se non altro, i «Canti Orfici», per quel tanto che era ormai possibile, e ottenne qualche precisazione non indifferente dalla totale indifferenza dell'autore per i propri trascorsi lirici. Poi, nel 1941, arrivò Federico Ravagli, che ci restituì, da testimone diretto, in «Dino Campana e i goliardi del suo tempo», un quadro dello studentato bolognese 1911-1914, con le prime redazioni a stampa di qualche suo testo memorabile, impresso su fogli unici dei meglio scapigliati universitari d'epoca. Un terzo capitolo, integralmene documentario, fu procurato nel '58, con la pubblicazione delle lettere scambiate con Sibilla Aleramo nel 1916 e 17, a illustrazione di un robusto delirio erotico e mentale.

Preludio al centenario, è apparso adesso presso Einaudi, con il titolo  «La notte della cometa»,  «Il romanzo di Dino Campana» di Sebastiano Vassalli. Paradossale definizione, poiché il libro si propone come la biografia più accurata e meno leggendaria oggi disponibile, e porta infatti non pochi chiarimenti su non pochi punti oscuri, in modi definitivi, con qualche ragionevole ipotesi indiziaria su resistenti punti vuoti, e probabilmente incolmabili. Si dichiara, ed è in effetti, scritta   «con accanimento, con scrupolo, con spirito di verità», anzi con la partecipabile convinzione terminale che non ci sia più molto da scoprire, in materia, e forse niente affatto.

Ma questo «romanzo» è pure un romanzo, organizzato in quel genere appunto, da nipotino, del romanzo storico di illustre memoria, che è la biografia romanzata, sempre a un passo, fatalmente, e a dispetto di tutti i più rigidi propositi di onesta demistificazione, da quella «realtà romanzesca» che così lungamente educò al meraviglioso nel quotidiano, dalle pagine della «Domenica del Corriere»,

e che ha autorizzato tante bravissime persone a replicare, infallibilmente, nelle sale d'attesa delle principali stazioni:   «Lei non lo sa, ma la mia vita è un romanzo».

Il Vassalli, che è uomo di provata lealtà, scrive che, se Dino non fosse esistito, egli l'avrebbe proprio «inventato così», e questo torna a tutto onore, manifestamente, delle sue ricche capacità inventive. Ma non sarà nemmeno il caso che, autobiograficamente incorniciata da una pensosa giornata di malinconioso bilancio dopo la fatica, al Ristorante Albergo Lamone di Marradi, settembre 1983, questa biografia di Campana prenda subito un'aria di terribile parentela con il «Galileo eretico»  di Pietro Redondi.

In una congiuntura ormai già manzoniana, che dovrà rimetterci in causa i «componimenti misti di storia e d'invenzione», anche se la realtà, come si dice ogni giorno in bus e al bar, supera regolarmente ogni più sfrenata immaginazione, e l'invenzione può fare dunque tranquillamente corpo con le strette risultanze di una lunga e paziente inchiesta («una valigia piena zeppa d'appunti e di fotocopie»), è un evento bello e ardito. E’ come il passaggio di una cometa nel cielo delle stelle fisse delle biografie di consumo, di quelle che stanno in testa, come garantiscono le cifre, alle classifiche più credibili.

Ma non è nemmeno il ruotare paziente di uno di quei rari pianeti, come il «Jacques Offenbach» di Siegfried Kracauer, tradotto di recente presso Marietti, che, come «biografia sociale», prende tutte tutte le giuste distanze da ogni «biografia personale». Non che nel Vassalli manchi la società familiare, la paesana, l'universitaria, la letteraria, e persino la nazionale e l'internazionale, a dare spazio e respiro all'individualità del suo eroe, a definirlo nel tempo.

Ma è una biografia «asociale», questa, piuttosto, con un genio da una parte, che è tutto una sregolatezza, e con i persecutori che sfilano, dall'altra, ciascuno a suo turno, a conculcarlo e perturbarlo, e quindi a fargli perdere il senno, con la complicità della solita sifilide. Quanto alla cometa del titolo, per l'esattezza, è quella di Halley, che parve minacciosissima e apocalittica, stile Flammarion, nel 1910, e di cui si attende, con animo meno esagitato l'imminente ritorno. Il Pascoli, in quell'anno cosmicamente pseudo climaterico, si fabbricò per il «Marzocco» una sfilza di terzine, che oggi stanno in «Odi e Inni», lavorando molto di seconda mano, e tirando in ballo Dante, l'universo e l'oltremondo.

Per il Vassalli, più moderatamente, quella cometa è soprattutto Dino Campana. Il quale appare come il «puro artista», anzi proprio il «tipo morale superiore», alla luce delle sue medesime maniacalità iperumanoídi, essendo di quelli che soltanto corpi astrali d'eccezione, ma fortunatamente periodici, vengono a segnalare agli uomini, e che, a titolo esemplificativo, sarebbero poi, tutti in un mazzo, Criso e Giovanna d'Arco, Villon e Campanella, Gérard de Nerval e Nietzsche.

Così, dopo tanto penare per sottrarre Dino alla leggenda, deprimendo il doloroso e patetico pittoresco del caso, e insomma tutto il romantico romanzesco del personaggio uomo, capita che l'ultimo e più rigoroso a penare in questo ambito, forse in senso assoluto, si ritorni a insinuare la peregrina idea che i «poeti autentici», ovvero «quelli per mezzo dei quali la poesia parla», appartengano a «una specie diversa», «primitiva», «barbara», da sempre estinta eppure sempre in grado di rinascere come quella dell'araba fenice. Sarà tutto un effetto della famosa cometa, magari, e non discuto. Ma è soprattutto un segno dei tempi.

Che ci possano salvare i poeti unicorni, diversi e martiri, con tanto di tragico vissuto romanzabile, e con tantissimo di vivere inimitabile, nel sublime o nel paranoico, nel teppistico o nel levrieresco, con contorno di Pulzelle o di Sibille, quanto a me, ne dubito forte. E non è mai un buon segnale quando, nelle librerie, la fame di vita prevale sopra la fame di teschi. A noi basteranno le pagine dei   «Canti Orfici» tenute sgombre, al possibile, non soltanto dal leggendario arbitrario, ma anche dal romanzesco certificato, e messe accuratamente al riparo da ogni e qualunque fatale interferenza di luminarie celesti.

Quanto al problema generale delle esistenze avventurose o mediocri degli uomini di penna, riciclate in opere d'inchiostro, e della «biografologia» in genere, conviene rivolgersi, per ulteriori informazioni, al dibattito che si è svolto sopra l'ultimo numero del quadrimestrale «Sigma», gennaio-agosto 1984, che ha un suo titolo piuttosto eloquente: «Vendere le vite: la biografia letteraria».