Michele Mari

 

 

Campana. La maledizione di essere un poeta

 

Versi estremi. Si stampano i taccuini inediti dell’autore dei Canti Orfici.

Sono la riconferma di un grande genio. La sua vita?

Una tragica favola, oggi diventata un best seller.

Dal Corriere della Sera


15 luglio 1990

 


 

Oh avere un cielo nuovo. Dove fuggire

 

di Michele Mari

 

 

NeIl'inverno del 1913, mentre si recavano alla tipografia Vallecchi, Ardengo Soffici e Giovanni Papini furono improvvisamente accostati da uno strano personaggio. «Ci disse che si chiamava Dino Campana — racconta Soffici che era poeta e venuto appositamente a piedi da Marradi per presentarci alcuni suoi scritti, aveme il nostro parere e sapere se ci fosse piaciuto pubblicarli nella nostra rivista [Lacerba]. Tirò fuori di tasca un vecchio taccuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compere e vendite, e lo consegnò a Papini”.

Era il manoscritto dei Canti Orfici, di cui l'incauto poeta non aveva avuto l'accortezza di redigere una copia per sé: si comprende dunque la sua disperazione allorché, pochi mesi dopo, lo stesso Soffici gli comunicò di aver smarrito il taccuino nel corso di un trasloco («Ainsi ces chacals m'avaient volé ce qui devrait être ma défense et la justification de ma vie», scriverà Campana a Boine, e a Papini: «Verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò»); e altrettanto bene si comprende la sua volontà di ricostruire a memoria la raccolta poetica perduta, anche se l'inaspettato ritrovamento di quel mitico taccuino, una ventina d'anni fa, ha poi dimostrato che la «ricostruzione» dei Canti Orfici, editi nel 1914 a spese dell'autore, fu, in realtà un vero e proprio rifacimento, in gran parte indipendente dalla primitiva raccolta.

A testimonianza di quell'amoroso conato mnemonico, in ogni caso, disponiamo di diversi abbozzi autografi, alcuni dei quali, contenuti nel cosiddetto «Taccuinetto faentino», sono ora pubblicati da Fiorenza Ceragioli insieme a quelli di un altro taccuino, presumibilmente del 1915 (Taccuini, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1990).

Entrambi i taccuini erano già stati pubblicati (rispettivamente da Domenico De Robertis nel 1960 e da Franco Matacotta nel 1949), ma la presente edizione ha il duplice merito di rispettarne maggiormente l'ordine interno e le caratteristiche grafiche, e soprattutto di fornire, accanto alla trascrizione, la riproduzione fotografica dei manoscritti, che assicura al lettore l'emozione di scoprire la scrittura campaniana nella sua fisicità.

Innanzitutto, se ancora ci fosse bisogno di confutare il pregiudizio dell'immediatezza e dell'«invasamento» di Campana (pregiudizio, come ha recentemente ribadito Gianni Turchetta, derivante da una insufficiente separazione fra vita e poesia), questi abbozzi dimostrano che alla lezione definitiva il poeta giunse attraverso un'elaborazione tormentata e — com'è dei grandi poeti, ed esemplarmente di Leopardi — caratterizzata da un sorvegliatissimo procedimento «a levare».

Si prenda un testo come Faenza: nel «Taccuinetto» troviamo: «Ho letto in un libro che i Greci conobbero tutti i simboli dell'uomo ma non conobbero l'uomo. Da ciò si deduce che la gioventù latina è molto più spirituale della gioventù greca.

E non è forse questo fascino spirituale che forma l'incanto delle belle matrone? ed è perciò che ogni ruffiana romagnola mi pare sacerdotessa», considerazioni che nella redazione conclusiva si concentrano e quasi raggrumano nelle velocissime immagini di «qualche matrona piena di fascino» e del «riflesso», colto sulle labbra mordicchiate di un'ostessa, «dell'antica gioventù latina».

Oppure, tornando al «Taccuinetto»: «Se Firenze è l'imagine della musica, Faenza è l'imagine della danza latina - Spagna danzante - Spagna - simbolismo naturalistico», e nella stampa soltanto: «Nell'aria si accumula qualcosa di danzante». E anche altrove scompariranno i raccordi logici e gli elementi narrativi (a favore di una più intensa evocatività della parola), nonché i passaggi più immediatamente teorici come questa lucida dichiarazione di poetica simbolista, costruita con materiali nietzschiani: «Il valore dell'arte non sta nel motivo ma nel collegamento e quindi nel punto di fusione si ha la grande arte: e la grande arte come la grande vita non è che un ponte di passaggio».

Con il taccuino del 1915, dedicato all'Aleramo («A Sibilla gioconda e tranquilla»), siamo invece oltre la soglia dei Canti Orfici: vi si trovano infatti gli abbozzi di testi editi successivamente o rimasti inediti, e in generale un atteggiamento meno estatico, meno «orfico», e viceversa più risentito e polemico. Bersaglio degli umori di Campana sono il «giolittismo» e il «camorrismo sbirro» della società contemporanea, l'«industria del cadavere» (cioè la guerra), il «frasaismo borghese», gli arcipreti che «cantano con voce di bue», la sordità poetica del «rozzo toscano» Carducci, crepuscolarismo di maniera alla Civinini, la nuova retorica dei letterati fiorentini (di Papini, con tecnica del centone e con effetto straniante, Campana isola e raccoglie espressioni come «Acetilene su l'Arno» o «ascelle di maestrine in sudore» per concludere: «Vo alla latrina e vomito»; quanto Soffici, gli è attribuito questo fulminante «autoritratto»: «Essendo una carogna in decomposizione abbraccio l'universo. Guardate il mio cromatismo i miei verdi e violetti...»).

Su tutto, alita un senso di insofferenza per ogni forma di letteratura «pigra» e convenzionale, e insieme presuntuosamente edificante: «Decrepito cielo padre nobile di tutta la letteratura nazionale chi meglio di te ha espresso la grazia e il dolore di tutta la poesia italiana?» si chiede Campana (e poche pagine dopo: «dappertutto trovo cattolico cielo»), forse pensando agli antichi versi, affidati a un altro taccuino ancora, di Ho scritto. Si chiuse in una grotta:

 

«Oh avere un cielo nuovo, un cielo puro / dal sangue d'angioli ambigui / senza le zuccherine lacrime di Maria / un cielo metallico ardente di vertigine / senza i miasmi putridi dei poeti e delle fanciulle / che accolga il respiro vergine violento e sublime della prateria / dove il tramonto bruci in fiamma vera / col solo aroma purificatore della forza / nuova, infinita, intatta; un cielo dove / frati e poeti non abbiano fatto / la tana come i vermi».

 

Sono versi che si riferiscono al viaggio di Campana in Sudamerica, nel 1908: fuggire dal compromesso cielo europeo significò allora, oltre che conseguire una rinnovata verginità letteraria, evadere dalle angustie e dal filisteismo di Marradi, trovare nel vagabondaggio, cioè nel movimento, la propria vera dimensione. Con Baudelaire, Campana avrebbe potuto esclamare:

 

«Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau, / plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu'importe? / Au fond de l'Inconnu pour trouver du nouveau!».