DINO CAMPANA: I CANTI MARINI

 

di Enrico Gurioli

 

Pendragon 2013

 

 

Potrà sembrare strano, o per lo meno singolare, trovare canti marini in Dino Campana, un poeta del Novecento italiano vittima di una leggenda letteraria tesa a mostrarlo errante e vagabondo per l'Europa pervaso da una inquietudine creativa, ispirato soprattutto da montagne e boschi, e infine, perchè negarlo, segnato sino alla seconda metà del secolo scorso da un isolamento culturale sembrato irrevocabile. «Abbiamo avuto notizie sicure» scriveva tra il sarcasmo e l'ira, nell'articolo Pazzi in rialzo, pubblicato sulla rivista «L'Ultima» nel 1946, lo scrittore Giovanni Papini, emarginato di fatto dal mondo della cultura e appoggiato dai soli cattolici tradizionalisti,

 

«che si stia ridicolmente e pericolosissimamente esagerando il significato storico e il valore artistico dell'infelice poeta di Marradi Un esame sereno della sua opera dimostra a chiare note che egli fu scarsamente originale - s'era nutrito molto di letteratura francese dell'ultimo Ottocento - e che non può, essere presentato, se non da fanatici tendenziosi, come autentico e grande poeta».

 

Concludendo poi che «anche l'Italia ha il suo "poète maudit", il suo mentecatto di genio». Ciò che era accaduto fra le onde durante i suoi vagabondaggi era percepito come estraneo alla natura di Campana, e si pensava che la vita del mare non avesse esercitato alcuna influenza culturale sulla poesia dei Canti Orfici. Invece Campana stesso aveva celato nella sua stesura dei Canti liriche di ispirazione prettamente marinara, abbandonate in qualche quaderno della sua casa a Marradi. Il mare era per lui diventato una ulteriore esperienza di vita; una testimonianza vissuta, rappresentata in versi come un ricordo e un orizzonte pittorico sotto traccia: spesso forma il rumore di sottofondo in un lavoro portuale d'ambiente oppure il fragore di un'onda che percuote una prora, come se fosse un telaio su cui intessere l'ordito della propria poesia. Campana insomma, con i suoi Canti Orfici, era da considerarsi fuori dai codici e dai canoni secondo i quali un poeta del Novecento italiano avrebbe dovuto vivere e raccontare il mare. Ma più che lo stile di vita del poeta stesso era la sua poesia a turbare gli animi dei letterati del suo tempo.

C'era poi una questione non risolta: la raffigurazione del mito nei Canti Orfici e il perchè di questo cambio di titolo da un sofisticato e lirico Il piu lungo giorno - e non il banale Il giorno più lungo, manoscritto consegnato ai distratti Papini e Soffici - al ben più complesso richiamo ai Canti di Orfeo. Perchè mai il poeta marradese avrebbe dovuto sentire la necessità di reclamare, sin dal titolo (che in ogni opera degna di questo nome non ha mai un ruolo casuale o secondario) l'appartenenza del suo percorso poetico a una esposizione letteraria solamente orfica, lasciando da parte l'ulteriore piano di lettura rappresentato dalla definizione stessa di uno spazio immenso in cui far muovere il canto di Orfeo: il mare appunto e il Mediterraneo.

II mare, qualsiasi mare, era estraneo all'ambiente letterario fiorentino dei primi anni del Novecento. Dino Campana non poteva certo andare d'accordo con il prolifico Papini, artista riconosciuto prestigioso dalla cultura dominante e intellettuale, a cui aveva scritto nel maggio del 1913:

 

«E se di arte non capite più niente cavatevi da quel focolaio di cancheri, che è Firenze e venite qua a Genova e se siete un uomo d'azione la vita ve lo dirà e se siete un artista il mare ve lo dirà».

 

Erano passati poco meno di trent'anni dall'invettiva spedita da Campana da Genova al disprezzato Giovanni Papini, quando un gruppo di letterati fra cui Emilio Cecchi, Domenico De Robertis, Enrico Falqui, Franco Matacotta, Federico Ravagli, «ben armati» di argomenti convincenti sull'opera letteraria del poeta morto in circostanze misteriose, ricostruì in tempi e con modalità diverse il puzzle letterario campaniano. Ciò nondimeno si deve essenzialmente a Enrico Falqui la sistematica raccolta e divulgazione completa dei componimenti del poeta: raccolta di testi, frammenti, abbozzi e varie scritture disvelate con parsimoniosa generosità dal di lui fratello Manlio Campana all'editore Enrico Vallecchi, il quale, dopo avere raccolto l'eredita della casa editrice dal padre decise, nel 1939 - appena un anno dopo la pubblicazione a Firenze di Vita non romanzata di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore - di riprendere la pubblicazione dell'opera del poeta "pazzo" nato fra i monti del Mugello.

Quanto sia stato problematico questo lavoro "rivoluzionario" di recupero dei testi disgiunti dal destino tragico del poeta italiano e quanto sia stato poco collaborativo il fratello di Dino Campana (figura quasi silenziosa durante gli anni di vita del poeta) testimoniato da una lettera che Falqui stesso inviava a Vallecchi:

 

«Bisogna assolutamente svegliarlo. Scrivigli (via Hauel, 4 Palermo) che gli eventuali scritti inediti del fratello poeta saresti pronto a comprarli, purchè li mostri, li dia e così offra il modo di far cosa degna. Che razza di tipo».

 

Dopo la stampa della princeps, il manoscritto venne nuovamente custodito dalla famiglia a Marradi: il saggista Giovanni Bonalumi, recatovisi nel 1946 per studiare il manoscritto, apprese dalla moglie di Manlio che «durante la battaglia d'Appennino» il quaderno era stato «bruciato» e «con molte altre carte del poeta gettato nel fiume sottostante la casa». Irrimediabilmente perduti? E’ opportuno sottolineare che la riscoperta di Campana incontrava ancora serie perplessità in una vasta area di scrittori legati alla cultura accademica: l'operazione editoriale messa in piedi da Enrico Falqui era stata considerata deprecabile dal direttore alla Scuola Normale di Pisa, Luigi Russo, il quale scrive nel suo libro La critica letteraria contemporanea che, «nonostante vari De Robertis, i vari Falqui, i vari De Michelis, i vari Bo e Muscetta», i lavori di Dino Campana potevano «tutt'al più interessare i medici ed essere registrati nella cartella clinica del povero e caro malato», biasimando aspramente i nuovi critici colpevoli di annunciare «la nascita di un grande poeta, a ogni volgere di stagione».

La querelle investiva e divideva la critica letteraria italiana. Tra gli avversatori Antonio Baldini che, in un articolo pubblicato nel «Corriere della Sera» del primo febbraio del 1941 chiedeva a gran voce il rispetto nei confronti dei classici, gravemente messo in crisi «oggi, dalle medesime cattedre, dove si ammettono, quando non proprio si suggeriscano, esercitazioni e tesi su Marinetti, Ungaretti, Quasimodo». Con uno scenario di questo tipo nel panorama letterario del tempo si possono solo immaginare le resistenze e le motivazioni degli eredi di Dino Campana, anche se alla fine e a piu riprese alcuni scritti, non sempre autografi, del poeta marradese vennero messi a disposizione della critica letteraria.

Insomma, nell'arco di poco più di trent'anni - e siamo al 1971, con il sorprendente ritrovamento, annunciato da Mario Luzi, del manoscritto II piu lungo giorno fra le carte di un negligente Ardengo Soffici - la frammentata opera letteraria di Dino Campana poteva dirsi completata, assieme al preziosissimo lavoro di Gabriel Cacho Millet, giornalista e scrittore di origini argentine, il quale, attraverso una infaticabile ricerca di documenti inoppugnabili sul poeta scrive:

 

«nessuno pensi di aver raschiato il fondo. Il poeta di Marradi, autore di un piccolo libro infinito, vi darà molto filo da torcere. Non ho dubbi».

 

Questa affermazione, sebbene fatta a distanza di quasi cento anni e da una angolazione critica diversa, ricorda e riprende il giudizio di Giovanni Boine, che aveva intonato già, «tra plausi e botte», un Te Deum per Dino Campana «pazzo sul serio».

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