Maledetto tra i poeti

 

di Edoardo Esposito

 

da: L’Unità del 20 agosto 1985

 

 

 

20 agosto 1985: ricorre oggi il centenario della nascita di Dino Campana, poeta di un solo libro - I Canti orfici, pubblicati nel 1914 — e poeta di breve e tragica vita, biograficamente chiusasi nel 1932 ma chiusa alle lettere assai prima, nel 1918, quando fu internato nel cronicario per malati di mente di Castel Pulci, presso Firenze.

Campana è infatti noto a molti come il «poeta pazzo», il Rimbaud italiano dalla vita sregolata e errabonda, il «veggente» o «visivo» (a seconda delle interpretazioni) precursore della poesia pura e degli ermetici, e della sua vicenda si è presto parlato e si è continuato a parlare in termini che partivano dalla suggestione per arrivare al mito, il mito appunto del folle ispirato: con valutazioni differenti circa il carattere e la qualità di questa «ispirazione». Sarebbe ormai tempo (c'è anzi da augurarsi che si muova secondo questa linea il convegno che su Campana si terrà a Marradi in settembre) di staccarsi da questi stereotipi e di valutare in maniera criticamente più oggettiva il significato della poesia di Campana; bisogna tuttavia riconoscere che in molti casi la mancanza di dati precisi e di testimonianze chiaramente attendibili non facilita il compito, e d'altra parte che il rapporto arte-follia costituisce nella nostra cultura una sorta di archetipo, un parametro di riferimento così radicato che è difficile ignorarlo, specie di fronte a una vicenda emblematica come quella di Campana. Lo ha dimostrato ampiamente il libro di Sebastiano Vassalli La notte della cometa, di cui si è già discusso su queste pagine e che ha suscitato vivaci commenti e polemiche.

Animato dall'intento di ricostruire la «vera» vicenda del poeta colmando le antiche lacune e smentendo le testimonianze false o interessate (sia pure attraverso una esposizione di carattere romanzesco: Il romanzo di Dino Campana, suona infatti il sottotitolo), Vassalli arriva invece ad affermare un mito di nuovo segno: quello di un uomo la cui follia è solo il risultato di una persecuzione vera e propria, messa in atto ora con consapevole ipocrisia, ora con miopia stupida da tutti coloro che hanno avuto a che fare con lui. Ma Vassalli, legato all'idea per cui i poeti appartengono ad una specie diversa, “primitiva”, “barbara”, nonchè a strane idee sull'influsso della cometa di Halley, non era probabilmente la persona più adatta ad affrontare criticamente questo problema; e nonostante l'impegno documentario che gli va riconosciuto non si può dire che ci abbia dato molto di più che un libro di piacevole lettura.

Pure bisogna parlarne, appunto per liberarci dai miti, per non cedere alla suggestione delle belle parole, quelle che per esempio fanno diventare Campana, sia pure «forse», addirittura «l'ultimo dei poeti». Ma Vassalli arriva buon ultimo in questa opera di mitizzazione; è stato altre volte detto che in Campana «la poesia coincide con il destino di un uomo», frase ad effetto dalla cui ambiguità è facile lasciarsi fuorviare, e la cui verità sta semplicemente nel fatto che, della travagliata vita di lui, l'unica testimonianza che ci resta — l'unica, almeno, che valga a distinguere questa vita da tante altre che in analoghe vicende drammatiche la storia ha sommerso nel suo mare — è proprio quella della poesia: una poesia che ha saputo farsi riconoscere come tale e che non è rimasta un semplice e privato sfogo autobiografico e sentimentale.

Quali i caratteri di questa poesia? Leggiamo le prime righe dei Canti orfici:

 

Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell'Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell'acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.

 

Non siamo, anzitutto, in presenza di versi, ma di prosa, anche se si tratta più che altro di una serie di immagini prive di collegamento sintattico: un verbo all'inizio, che allontana la visione in un tempo imprecisato, lontano e tuttavia immobile per sempre nella memoria, e un verbo alla fine che afferma appunto questa immobilità: «del tempo fu sospeso il corso». E’ una prosa, inoltre, che non tende alla razionale trasmissione di un certo messaggio, ma ad evocare qualcosa, e che si avvale di espressioni linguistiche suggestive: «archi vuoti di ponti», «fiume impaludato», «barbaglio lontano di un canneto», «palude afona», ecc. Se continuassimo la lettura ci accorgeremmo che la prosa di Campana rimanda continuamente all'immaginazione e al sogno, e che presuppone una sensibilità accesa, continuamente sollecitata a stabilire fra le cose relazioni impensate, metafore ardite: è di fatto una prosa tessuta con il filo della poesia, e non mancano, alternati ad essa, i versi veri e propri.

Il libro si chiude appunto con una lirica, la famosa Genova:

 

Poi che la nube si fermò nei cieli

Lontano sulla tacita infinita Marina chiusa nei lontani veli, 

E ritornava l'anima partita 

Che tutto a lei d'intorno era già arcanamente illustrato dei giardini il verde

Sogno dell'apparenza sovrumana

De le corrusche tue statue superbe.

 

e via di seguito, in una serie lunghissima prima di endecasillabi, poi di versi di varia natura cui sembra qua e là tornare a mescolarsi la prosa e che rivelano squarci di intensa bellezza.

Non esiste in fondo, in Campana, una vera distinzione fra prosa e verso, perchè quello che conta è in lui la tensione del discorso, la febbre interiore che lo spinge ad allineare — ora seguendo un motivo musicale, ora la suggestione delle forme e dei colori — immagini e immagini che solo raramente si compongono nell'organicità di un discorso concluso. In questo sta il suo pregio e il suo limite: la capacità di attingere con la propria sensibilità alle fonti della bellezza — e di esprimerla linguisticamente in forme indubbiamente nuove per la sua epoca (basti pensare al libero flusso di associazioni che caratterizza la sua pagina) — e la difficoltà, legata del resto alla forzata brevità della sua esperienza, di stabilire la conquista di questo territorio, di farlo definitivamente suo e di renderlo, nell'organicità della sua forma, comunicabile fino in fondo agli altri. 

In questo i problemi della sua psiche hanno evidentemente avuto un peso determinante, e non si può negare che la stessa intensità o purezza di certi suoi accenti risalti singolarmente proprio per il confuso magma in cui si trovano immersi. Evitiamo, perciò, l'enfasi dell’ «ultimo dei poeti», e cerchiamo meglio di valutare quale sia stato effettivamente l’apporto da lui dato al rinnovamento letterario della prima metà del secolo; o cerchiamo di ricostruirne in maniera più oggettiva gli aspetti biografici che rimangono di lui oscuri.

Va segnalato in questo senso il libro di un giovane studioso, Gianni Turchetta, che nel suo Dino Campana. Biografia di un poeta (Milano, Marcos y Marcos - Imagommage, pp. 134) sa unire con proprietà di discorso le fasi biografiche dell'esistenza di Campana alle sue realizzazioni artistiche, e sa usare con l'opportuna discrezione delle fonti e delle testimonianze relative alla sua vita. Non si creda, naturalmente, di vedere risolti tutti i dubbi: continueremo a non sapere se Campana è partito per l'Argentina nell'ottobre 1907 (Vassalli) o nel febbraio 1908 (Turchetta), e se ha incontrato i Bossiaki a Odessa in un imprecisabile periodo dopo l'esperienza argentina (forse tra il 1910 e il 1911; Turchetta) oppure in Svizzera nel 1906, dato che a Odessa Dino non c'è mai stato (Vassalli); le più o meno fondate interpretazioni di Vassalli valgono, quando le testimonianze appaiano carenti, quanto le più o meno caute ricostruzioni di Turchetta.

Ma nell'opera di quest'ultimo vedremo meglio affrontate molte questioni relative all'opera o alla personalità di Campana, e troveremo notazioni sia letterarie (il suo rifiuto dell'avanguardia, il suo perfezionismo) sia psicologiche (la natura del suo vagabondaggio) che aiutano finemente a definire l'esperienza di quest'uomo: esperienza tragica, indubbiamente, e di cui pure sarebbero meglio da sottolineare, come osserva Turchetta, i momenti e i motivi della gioia, il «filo d'oro della felicità» che strettamente si intreccia a quello della sua poesia.