Leonardo Chiari

 

 

«Purità di accento»

 

Tracce dell’actio nei Canti Orfici

da: Nautilus. Studi e ricerche del Liceo-Ballardini, V, Fratelli Lega Editori, Faenza, 2018, pp. 119-139

 

di Leonardo Chiari

 

 

 

Pronuncia, dizione, articolazione – sono fattori apparentemente estranei al regno della parola scritta; anzi, sebbene a detta dei linguisti l’oralità sia primaria per ontogenesi e filogenesi, la scrittura sembra scongiurare la relatività e l’alea della sua controparte orale in tratti di penna o grafemi (come i segni di interpunzione): tutto ciò che non è catturato da questi espedienti diacritici è contingente, collaterale, e vago; o peggio, tutto ciò che non è espresso in segni, non esiste.

Questa tirannia della parola scritta sulla parola detta ha avuto conseguenze anche in merito alla valutazione estetica della letteratura: così come (direbbe il common sense) il valore estetico di un copione teatrale o di una partitura dipende da come questi sono stati scritti e non da come sono recitati o eseguiti, il valore di un testo letterario dipende da come il testo è stato scritto (la qualità della sua scrittura), non già da come è pronunciato; che è come dire, in fondo, che il mio particolare modo di declamare le terzine della Commedia non turba minimamente il loro valore o significato: il significato, se c’è, è altrove e fisso, e la scrittura è il suo immobile veicolo. 

Eppure Dino Campana, in una nota lettera del 6 gennaio 1914 a Prezzolini1, avanza a garanzia della qualità della propria scrittura, e come autocertificazione di idoneità per la pubblicazione, una qualità eminentemente orale: per lui, «povero diavolo» che scrive «come sente», la parola stampata è un certificato ontologico («per provarmi che esisto»), e la sua «purità di accento», che «oggi è poco comune da noi», il suo «merito» poetico. L’espressione ‘purezza di accento’ si adotta, solitamente, per esprimere la qualità della pronuncia di una lingua ad opera di un dato parlante: una pronuncia corretta, senza inflessioni, cadenze dialettali o appunto ‘accenti’ stranieri. Il termine ‘purezza’ forse richiama alla mente una sfumatura razziale connessa alla lingua, mentre il termine ‘accento’ ha assunto, in tali contesti, un significato simile a quello che ha nel linguaggio poetico: ‘parola fonica, prosodica’, come si usa in locuzioni del tipo ‘accento francese’, ‘accento tedesco’, e così via. Il poeta marradese utilizza tuttavia la variante lessicale ‘purità’, permeabile a una rete di semantemi che provengono dalla sfera religiosa, come ‘innocenza’, ‘candore spirituale’ e simili. Pertanto, avverte la critica2, la purezza/purità campaniana ha ben altro portato: il tema della purezza è quasi il mot clé di un manifesto poetico, ad esempio, in quegli appunti-citazioni in esergo al manoscritto de Il più lungo giorno: «E come puro spirito varca il ponte» (Nietzsche), «Essere un grande artista non significa nulla: essere un puro artista, ecco ciò che importa» (André Gide), «L’arte dev’essere considerata oramai nella sua purezza […]  Quello che importa però è la sua musicalità.

 


1 Dino Campana, Lettere di un povero diavolo, Carteggio (1903-1931). Con altre testimonianze epistolari su Campana (1903-1998), a cura di Gabriel Cacho Millet, Polistampa, Firenze 2011, p. 21.

2 Vedi p.e. M. Petrucciani, Poesia pura e poesia esistenziale, Loescher, Torino 1957.


 

E per musica non si deve intendere sonorità o melodia, ma quello stato […] elementare armonico con tutte le cose» (Ardengo Soffici). Il sostrato culturale è indubbiamente quello della poesia pura decadentista, annunciata da Gautier, Baudelaire e Poe, esplorata dai maudit, poi compiutamente teorizzata da Mallarmé ed Apollinaire, il cui compito primario consiste nel liberare la musique del verso purificandolo dalle costrizioni e dai vincoli logicosintattici della parola scritta: il residuo di questo processo depurativo è immagine sonora, nuance, suggestione, simbolo, infine musica assoluta – le vie di accesso, come in Soffici, allo stadio mistico di comunione con tutte le cose3. Nelle parole dell’antesignano Poe: 

 

   The Poetic Sentiment, of course, may develop itself in various modes – in Painting, in Sculpture, in Architecture, in the Dance  –  very especially in Music […]  Music, in its various modes of metre, rhythm, and rhyme, is of so vast a moment in Poetry as never to be wisely rejected […] It is in Music perhaps that the soul most nearly attains the great end for which, when inspired by the Poetic Sentiment it struggles – the creation of supernal Beauty4

 


3 Dalle Storie II «... sì che noi nel più semplice suono, nella più semplice armonia possiamo udire le risonanze del tutto come nelle sere delle stridenti grandi città in cui lo stridore diventa dolce (diviene musique enervante et caline semblable au cris loin de l'humain douleur) perché nella voce dell'elemento noi udiamo tutto», Dino Campana, Opere e Contributi, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze 1973, pp. 445.

4 E.A. Poe, The poetic principle, in The works of Edgar Allan Poe, Edit by John H. Ingram, vol. III, London 1899, p. 204. È nota la predilezione che Campana aveva per questo poeta e scrittore americano (confermata anche da calchi testuali e moduli stilistici); p.e., confessa al Pariani: «Poe anche [mi piaceva molto]; l’ho letto molto Poe», C. Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana, SE, Milano 2002, p. 39.


 

Questa poetica della purezza in senso musicale, già latente ne Il più lungo giorno (d’ora in poi PLG), verrà esasperata dalle conquiste formali dei Canti Orfici (d’ora in poi, CO); a titolo d’esempio, invero magistrale, la famigerata quarta strofe di “Genova”, la quale, dopo un Quando (v. 52) calcato sull’ed ecco dantesco delle apparizioni e dopo il settenario in dieresi melodiosamente (v.53), versi entrambi monorematici, tenta di dire l’indicibile; e, coscientemente, fallisce, ché la visione di Grazia (in maiuscolo nel testo), la quale come Venere botticelliana emerge d’alto sale, oltre che l’evento culmine, preludio di paradiso, manifestazione della Poesia (forse della supernal Beauty di Poe), è, dantescamente, ineffabile; ma al posto dell’aposiopesi, il poeta dei CO sceglie (in un travaglio pluriennale) di mettere in scena la disgregazione delle risorse affabulatorie della lingua che per voli troppo alti diviene balbettio: anzi, è la stessa natura biplanare della lingua, in tutte le componenti, a cedere: la parola, scollegandosi dal suo significato, diviene oggetto fonico puro, quindi esplode e si innesta in ritornelli, mentre il ritmo, concitandosi, travalica le possibilità di metrica e sintassi: la svolta linguistica del «balbettio» di “Genova” è questo, la metamorfosi della parola in melodia di timbri5

Ma il discorso pare ancora più complesso di così: la ‘purezza’ dei CO ha un’accezione affatto particolare estranea a quelle adombrate fin qui (che invece giungeranno intatte a Valery e agli ermetici italiani): ‘puro’, in Campana, significa anche ‘primitivo’; quest’ultimo termine, a sua volta, incrocia un campo semantico-poetico molto vasto che avrà incidenze ancora più vaste nello stile. Un germe dell’idea è riscontrabile proprio nel seguito del passo attinto da Poe:

 

The old Bards and Minnesingers had advantages which we do not possess – and Thomas Moore, singing his own songs, was, in the most legitimate manner, perfecting them as poems. To recapitulate then: – I would define, in brief, the Poetry of words as The Rhythmical Creation of Beauty6.

 

Secondo questo mito dell’unione originaria della poesia con la musica7, della parola col suono, andrà anche intesa la poesia pura di Campana, e forse la sua poesia orfica. Il ‘mito’, la ‘natura’, il ‘barbaro’, il ‘rito’8: sono Leitmotiv e parole-chiave che nel simbolismo dei CO vagheggiano, quasi in un sentimento nostalgico dei primordi, la dimensione archetipica, pseudostorica o mitica, di etnie ancestrali9, di un’umanità nascente che è ancora in contatto

 


5 Già Sanguineti (Cultura e realtà, Feltrinelli, Milano 2010, p. 1997), a proposito di questo passaggio campaniano, aveva evocato la Klangfarbenmelodie di Schönberg, quella melodia costruita da strumenti con timbri diversi. 

6 Vedi n. 4.

7 Che Nietzsche chiama: «Il fenomeno più importante di tutta la lirica antica, l’unione, anzi, l’identità, considerata dappertutto naturale, del lirico con il musicista», Die Geburt der Tragödie aus dem der Geiste der Musik, E.W. Fritzsch, Leipzig 1872, trad it. La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 2005, p. 41. Cfr. n. 14.

8 Queste e molti altri aspetti della variegata cultura campaniana sono approfonditamente indagati in R. Martinoni, Orfeo barbaro. Cultura e mito in Dino Campana, Marsilio, Venezia 2017.

9 Emblematica, la prima pagina dei CO che effettivamente sembra evocare, sia sul piano dell’espressione che del contenuto ma ancor più per via di una certa Stimmung, i residui di un’umanità archetipica, multirazziale, ma scarnificata come il paesaggio dechirichiano in cui si aggira, la quale compie, per mezzo di canti ‘ripetitivi’ come la «nenia primordiale, monotona e irritante», qualche sorta di rito cultuale in riva al fiume impaludato. Per l’iconografia che sta dietro questa scena cfr. S. Drei, «Ricordo una vecchia tempera». Memorie figurative nella prima pagina dei Canti Orfici (in Dino Campana. Ritrovamenti biografici e appunti testuali, Carta Bianca, Faenza 2014, pp. 77-83). La musica della nenia, invece, corrisponde quasi sicuramente a qualche canto popolare argentino (in specie, le vitalidas) che Campana aveva imparato a memoria durante il soggiorno americano. Cfr. M. Beyor, Dino Campana a Bologna 1911-1916, Società Tipografica Editrice, Bagnacavallo 1943. Un esempio di nenie-vitalidas che Campana avrebbe potuto conoscere si trova a questo indirizzo  (minuto 6 ca.).  Del resto, Faenza subisce spesso un certo influsso spagnolo argentino. Questa pagina, soprattutto nella chiusa, lascia trasparire anche i contorni di un bozzetto cosmogonico: l’acqua morta (prestito virgiliano-dantesco) e la palude afona richiamano una sorta di placenta ancestrale o caos dal cui mezzo emerge il Suono primordiale in forma di nenia (simbolo della parola-suono che partorisce il mondo: così avviene in molte teogonie antiche) la quale determina l’epoké temporale e l’avvio della narrazione in medias res.


 

simbiotico, forse ingenuo in senso schilleriano, con la natura10, e che, legata a una cultura potentemente orale, non conosce distinzione tra poesia e canto, tra musica e parole. Orfeo, San Francesco11, Dante12, Walt Withman sono forse membri13, bardi o rapsodi, di questa razza14 mitica e atavica che ha esperito la simbiosi originale della parola col suono e al contempo ha incarnato inconsapevolmente gli ideali della purezza poetica. Il canto, in questo senso specifico, è una delle manifestazioni concrete della ‘poesia pura’ intesa come poesia non contaminata dalla parola scritta, ingenua, e dunque primitiva e barbara15.

Il canto è del resto una costante nell’opera e nella vita di Campana16. Sotto un profilo meramente statistico, senza contare la poderosa massa terminologica attinta dal campo


 

10 Una breve ma intensa ricostruzione della ‘natura’ alla luce della dimensione coloristica-musicale si trova in C. Geddes de Filicaia, Dino Campana. L’«universo mondo» dei Canti Orfici e altri studi, Franco Cesati Editore, Firenze 2018, pp. 49-54. 

11 È probabile che nella mitopoiesi campaniana de La Verna (pellegrinaggio purgativo verso i primordi della poesia pura) il santo di Assisi divenga allegoricamente una sorta di «Orfeo cristiano» per dirla con D’Annunzio. San Francesco e Orfeo hanno in comune di essere padri della poesia (rispettivamente italiana e greca), di essere in qualche modo ‘cantori’, di aver un rapporto privilegiato con la natura, e di essere depositari di un messaggio spirituale o mistico. Al di là delle tangenze più o meno visibili, in quegli anni affiancare le due figure era divenuto quasi topos. Oltre a D’Annunzio e altri, il poeta Le Cardonel (1862-1936) aveva simbolicamente, ma esplicitamente, affiancato i due personaggi nella sezione Orphica della sua raccolta maggiore Carmina sacra (conosciuta da Campana; vedi  S. Drei, Ritrovamenti biografici e appunti testuali, cit., pp. 91-92).

12 Nei CO ha la duplice funzione di fonte letteraria che di personaggio dell’opera, forse addirittura alterego di Campana (li accomuna un viaggio nell’aldilà). La poesia di Dante è per il poeta degli Orfici «poesia in movimento»: v’è senz’altro, dietro questa espressione, la sensazione che il poetare dantesco sia animato da una certa gestualità teatrale e da una certa intelligenza ritmica che ne determinano la predisposizione naturale  alla recitazione (a differenza di altri autori come il Petrarca che vanno più gustati, per così dire, con gli occhi che con l’orecchio). Ad ogni modo, «la poesia toscana che fu» con a capo Dante, evocata ne “La Verna”, è senza dubbio un altro appello alle origini della poesia latu sensu orfica, ovvero nata tra il canto, l’oralità e la natura.   

13 Altri membri appartenenti a questa sorta di  mitico Urvolk provengono dal regno dell’arte; in primis, Leonardo il «divino primitivo». Martinoni ricorda che Peladan (autore noto al poeta) in una conferenza fiorentina aveva parlato di Leonardo come artista che suona la lira «come un aedo elleno», Orfeo barbaro. Cultura e mito in Dino Campana, cit., p. 179. 

14 Questa idea di una razza pura, germanica appunto nel senso etimologico, e quindi senza sfumature politiche (il genio che vi appartiene è il primo di qualcosa ed è «il tipo morale superiore») è latente in quella «purità di accento» di cui abbiamo parlato più sopra, e ben più esplicita nella dedica e nel sottotitolo dei CO. Dino Campana, narratore- personaggio, si crede a tutti gli effetti (come testimonia il sottotitolo, ove ‘germano’ significa latamente ‘puro’) un discendente di questa stirpe mitica e superiore (e senz’altro qui incidono le letture dallo Schuré e da altri): Orfeo cantore è alterego, o padre spirituale, di Campana. Che il discorso dell’orfismo vada collegato alla teoria della purezza, e non già, come fanno alcuni, a quella pletora di mitologie orfiche di cui non v’è traccia nei CO, è confermato, sensibilmente, da un largo seguito di appunti, lettere, aforismi che qui purtroppo non possono prendersi in esame.

15 La poetica pura-orfica di matrice francese e inglese è sempre mediata dalla filosofia di Nietzsche. I primi paragrafi della Nascita della tragedia al proposito contengono ampie riflessioni sulla dimensione ancestrale della musica che fuor di dubbio costituiscono un sostrato filosofico della nenia primordiale e dei canti popolari che costellano i CO. Giusto per fare un esempio: «Ma il canto popolare rappresenta per noi prima di ogni altra cosa uno specchio musicale del mondo, una melodia primordiale, che cerca poi per sé un’apparenza di sogno parallela e la esprime nella poesia. La melodia è dunque l’elemento primario e universale», La nascita della tragedia, cit., p. 46.

16 Vedi l’esaustivo Gabriel Cacho Millet, Notizia su Campana e la musica delle parole, Appendice III, in Lettere di un povero diavolo, cit., pp. 421-426. Il recentemente scomparso Gabriel Cacho Millet, che è stato il più grande studioso della biografia di Campana, insistette spesso con me, in conversazioni telefoniche, sull’importanza della musica e del teatro in Campana, adducendo prove e fonti. Di molte suggestioni di questo articolo, come quella che la poesia del marradese andrebbe recitata ad alta voce più che letta con gli occhi della mente, gli sono ampiamente debitore.


 

semantico della musica che va da generi musicali, come ‘tango’ o ‘fanfara’, a strumenti come ‘violino’ o ‘chitarra’, a forme come ‘notturno’ o ‘sinfonia’ e così via,  il lessema ‘canto’, in tutte le varianti morfologiche ed etimologiche, occorre 44 volte nei CO (compreso, a fortiori, il titolo), tralasciando le volte, davvero numerose in realtà, in cui la dimensione canora è evocata indirettamente come in ‘nenia’ o ‘coro’17. Anche molte fonti biografiche concordano su questa predilezione campaniana per il canto e in generale per la recitazione poetica. Oltre alle varie testimonianze su un Campana ‘cantore’ di canti popolari, di canti liturgici, arie melodrammatiche o di canzoni nelle commedie di Anacleto Francini, sono noti e innumerevoli gli episodi in cui il poeta si sarebbe cimentato nella dicitura della poesia sua, e altrui18. Il gusto per la recitazione, per l’esecuzione orale della poesia, è confermato del resto a più riprese dal poeta stesso19

 


17 A confronto delle decine di ricerche sull’iconografia campaniana, sembra nondimeno immotivato il silenzio della critica di fronte a una così ingente massa di dati ‘musicali’. Vedi comunque F. Tuscano, Aspetti del pensiero musicale dei Canti Orfici, in «Misure critiche», Nuova serie, Anno XIII, n. 2 - XIV n. 1, La Fenice, 2014-2015, pp. 128 e ss.

18 Vedi G. Cacho Millet, Notizia su Campana e la musica delle parole, cit. (cfr. n. 10).

19 Come si evince dalle lettere (cfr. Lettere di un povero diavolo, cit.) e da vari aforismi e appunti disseminati lungo il corpus campaniano, come il celebre dalle Storie: «Il popolo d’Italia non canta più. Non vi sembra questa la più grande sciagura nazionale?».


 

I dati lessicologi e biografici corroborano solo quanto è già impresso in forme e intenti e ancor più profondamente nello stile. Tra figure di dizione, variazioni ritmiche, stratagemmi prosodici e intonativi, l’effettistica sempre presente dei rimandi fonici e i parallelismi esasperati, la poesia pura simbolista, ‘poesia della parola’, pur conservando il suo istinto alogico, o per meglio dire pre-logico, e musicale, è potenziata da una sorta di ‘poesia del gesto’: per gustare, o addirittura comprendere, la poesia di Campana, occorrerà recitarla, come faceva lui. Questa tensione all’oralità, o meglio all’’auralità’, nei CO, del resto percepibile già da una prima lettura purché sia “ad alta voce”, rientra a pieno titolo, per mezzi e intenti, in quell’ultima parte della retorica che prende il nome di ‘actio’ (gr. hypókrisis), ovvero l’arte oratoria per eccellenza della declamazione, che coinvolge, oltre a recitazione e modulazione di voce (propriamente, pronuntiatio), anche il gesto, e il movimento: il “porgere” dell’oratore20.

 


20 Memoria e actio sono le parti della retorica (le altre, seguendo Quintiliano, sono inventio, dispositio, elocutio) più legate alla dimensione orale, e come tali anche quelle meno indagate. La prima viene confinata a studi specifici di mnemotecnica o ars mnemonica tangenti rispetto a quelli della retorica vera e propria; sarebbe interessante, tuttavia, approfondire l’arte della memoria in Campana che si manifesta sia teoricamente (la prima parola dei CO è ‘Ricordo’) sia stilisticamente nell’uso costante di formule, moduli ripetuti o addirittura epiteti; la seconda, di pari grado, viene perlopiù trascurata dagli studiosi di retorica in quanto considerata, come accennato all’inizio di questo articolo, trasversale o addirittura non pertinente rispetto alle qualità estetiche, per dir così, visibili nella parola scritta. L’actio corrisponde a quella parte della linguistica che studia la prossemica, la cinesica e la prosodia e che prende il nome di ‘paralinguistica’: a sua volta poco studiata. Per indicare la parte relativa a pronuncia e intonazione distinguendola da quella relativa a gestualità etc., in retorica si usa il termine ‘pronuntiatio’, e in linguistica ‘prosodia’: quest’ultima si occupa propriamente dei ‘tratti soprasegmentali’ (così chiamati perché non discreti e lineari come gli altri segmenti) che corrispondono a fenomeni di frequenza, durata e intonazione.


 

L’energia «cinetico-gestuale»21, sovversiva rispetto al resto del materiale poetico, di questa action poetry (come la chiamano gli inglesi) è tanto più difficile da studiare a causa della sua natura sfuggente, impalpabile, e tutto sommato in tensione con le consuete funzioni dello stile il quale, già dall’etimo, denuncia un rapporto esclusivo con la parola scritta, quanto più ci si accosta al testo: l’immersione solita nella lettera, tramite i soliti mezzi dell’esegesi, non basta: per arginare il pericolo della vaghezza, occorre esplorare l’impatto che l’actio ha in micro su elementi retorici ben più visibili alla luce degli strumenti dell’analisi tradizionale: la figura della repetitio22, a tal proposito, fungerà da lente di ingrandimento per sondare gli effetti, invisibili nella scrittura, di questa ‘poesia del gesto’. Articolata in tutte le sue forme, la repetitio è, come noto, il tratto retorico-stilistico distintivo dei CO, quasi la sua pennellata inconfondibile (Mengaldo chiama a più riprese Campana «il poeta per eccellenza dell’iterazione»): un rapido inventario mostrerebbe che le prose e le poesie dei CO racchiudono la pressoché completa casistica delle figure di repetitio23; in particolare, la repetitio campaniana è sovente intrecciata linguistica ‘prosodia’: quest’ultima si occupa propriamente dei ‘tratti soprasegmentali’ (così chiamati perché non discreti e lineari come gli altri segmenti) che corrispondono a fenomeni di frequenza, durata e intonazione.  

 


21 M. Pazzaglia (in Teoria e analisi metrica, Pàtron, Bologna 1974, p. 223) propone una distinzione del verso libero novecentesco tra «un verso lirico-musicale e un verso chiamare cinetico-gestuale; il primo come sviluppo della “musique” verlainiana, il secondo giocato sulla dissonanza e, per usare una metafora, armonico piuttosto che melodico, rapportato non alla musicalità incantatoria, ma alle cadenze del parlato, all’impulsione energetica che accompagna il concreto discorso».

22 Data la sua natura acustica, la repetitio è forse la figura retorica più vicina alla prassi e all’estetica musicali: da filosofi e musicologi (vedi p.e. G. Piana, Filosofia della musica, Guerini e Associati, Milano 1991) viene addirittura considerata cellula genetica ed eretta a elemento costitutivo della musica tout-court. Sorta in antichissimi rituali magici, fra formule, antifone e cantilene quando poesia e musica erano ancora unite, la ripetizione avrebbe depositato, alla sopravvenuta scissione di queste ultime, un germe che, se nel caso della musica divenne «la legge fondamentale» cui obbedisce l’organizzazione delle forme ritmico-musicali e quindi parte integrante del suo significato, nel caso della poesia incarnò, più modestamente, uno dei due principali procedimenti dell’amplificazione (l’altro è l’aggiunzione), confinato fra le figure di suono o di parola la cui funzione è prevalentemente esornativa; o almeno così per i manuali di retorica. L’esito è comunque intuitivo: nella musica, in cui forma e contenuto coincidono, la ripetizione è essenza; nella biplanare poesia la ripetizione è finita nel piano dell’espressione. La maggior parte delle nozioni retoriche utilizzate in questo articolo è attinta da B.M. Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 2016. Cfr. anche H. Lausberg, Elementi di retorica, trad. it, Il Mulino, Bologna 1969 [1949]; C. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, trad. it. Einaudi, Torino 1966 [1958]. 

23 Solo per dirne alcune (seguendo la tassonomia di B.M. Garavelli, Manuale di retorica, cit.) ripetizioni ‘con uguaglianza di membri a contatto’ come epanalessi («sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare»), epizeusi («Più più più»), anadiplosi («colei che piega, che piega e non posa»), climax o gradatio («Io che non sapevo Manuelita io che non potevo ripensare a voi»); ripetizioni ‘con uguaglianza di membri a distanza’ come epanadiplosi («La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluriche»), anafora («Così vasta / così ambigua»), epifora («... è fatua la sera e tremola ma c’è / Nel cuore della sera c’è,», simploche («Dentro il vico marino in alto sale . . . / Dentro il vico ché rosse in alto sale»); ripetizioni ‘con differenze fra i membri per variazioni di forma’ come paronomasia («All’alterno pensier pare e dispare»), poliptoto («... una forma nera cornuta immobile mi guarda immobile con occhi d’oro»), figura etimologica («Volubil che l’onda che ammorza / Ne l’onda volubile smorza), che in tal caso coinvolge anche la sinonimia; ripetizioni ‘con differenze fra i membri in forma immutata, come la diafora di cui si dirà più precisamente nel corso dell’articolo. Per approfondire, S. Giri, I Canti Orfici: forme della ripetizione tra temporalità e movimento, in M. Verdenelli (a cura di), Dino Campana. «Una poesia europea musicale colorita», Giornate di studio Macerata 12-13 maggio 2005, Eum, Macerata 2007. In particolare, la studiosa anticipa e svolge molti dei temi toccati dal presente articolo tanto da costituirne, insieme all’articolo di Cacho Millet (Notizia su Campana e la musica delle parole, cit.) una sorta di introduzione ideale.


 

alla sua controfigura retorica, la variatio24. La disputa se la repetitio dei CO sia solo decorazione25 o ornamento acustico o piuttosto un modo di pensare (poetante)26, assomiglia molto, in versione musicale, alla disputa se Campana sia visivo o visionario. 

Ma la soluzione del primo caso è senz’altro più semplice: a parte le ragioni teoriche, l’evidenza principale è data proprio da un fattore stilistico: la ripetizione dei CO agisce non solo localmente, ma anche ‘in lontananza’, giacché istaura un ponte ipertestuale, e virtuale, tra materiali eterogenei altrimenti non-comunicanti. Molti testi dei CO sono sovente collegati da queste ripetizioni dilatate che in fondo non sono altro che autocitazioni. “La Notte”, ad esempio, utilizza immagini e formule per parlare di Faenza, di Bologna, di Genova e della Pampa che saranno riprese alla lettera dalle prose rispettivamente dedicate. Questa figura di repetitio ipertestuale è giocoforza figura di pensiero nella misura in cui traduce l’intenzione dell’autore di mettere in contatto, per via di richiami, brani che presentano gli stessi intimi motivi, o addirittura sono scaturiti dalle medesime esperienze biografiche, e che dunque vanno letti come unità proteiformi, e non come frammenti isolati. Ma il discorso in Campana è ancora più complicato di così; anche in vista di quell’idea, accennata più sopra, della poesia pura che liberandosi dalle costrizioni della scrittura aspira a diventare musica: il pensiero ad ogni costo vuole farsi suono e ritmo ottenendo così, di converso e per inerzia, che suono e ritmo divengano pensiero; ovverosia, in Campana la ripetitio è anche figura di pensiero; cionondimeno, ma in straordinaria coerenza, la carica sovversiva dell’actio, con tutti i suoi risvolti prosodici, è talmente forte che sussistono luoghi nei CO, per così dire, retoricamente indecidibili se si prescinde dalla recitazione. Spieghiamo. La repetitio (figura di parola per aggiunzione, sottoprocedimento dell’amplificazione a sua volta iscritto nella macrocategoria del parallelismo) è ripartita in due gruppi principali: ‘con uguaglianza di membri’ e ‘con differenze di membri’: il primo gruppo è sua volta diviso a seconda che i membri siano ‘a contatto’ (come nell’epanalessi), oppure ‘a distanza’; il secondo gruppo a seconda che le differenze fra i membri siano ‘per variazioni di forma’ o in forma immutata (come la diafora). Epanalessi e diafora si trovano dunque agli antipodi di questa tassonomia27: tradizionalmente, solo la figura della diafora è in grado di presentare due termini indistinguibili per il significante ma diversi per il significato: nella maggior parte dei casi, la differenza semantica è data nondimeno dal ricorrere dei due termini identici in posizioni differenti e dunque in relazioni semantiche diverse con i termini vicini; il che significa, in senso lato, che una diafora è un fenomeno contestuale (in genere in forma di tautologia) basato su un’ambiguità semantica o equivocazione.

Ma se i due termini identici sono contigui? È chiaro che le risorse contestuali qui non giocano più alcun ruolo; essendo poi difficile sostenere che i membri in questione (identici e contigui) abbiano significati divergenti28, siamo di fronte a un’epanalessi.

 


24 Ancora Poe, p. e., in Philosophy of Composition (1864) e altrove, ha insistito molto sull’importanza della repetitio e del ‘refrain’ (variato).

25 P.V. Mengaldo, che opta appunto per un Campana “decorativo”, scrive appunto: «... si può [...] mostrare [...] la natura tutta letteraria della sua pervicace stilizzazione, in ultima analisi decorativa, del caos», da “Cappello” a Dino Campana, in Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1981 [1978], p. 277.

26 Vedi S. Giri, I Canti Orfici: forme della ripetizione tra temporalità e movimento, cit. Cfr. fine di n. 25.

27 B.M. Garavelli, Manuale di retorica, cit., p. 186.

28 Eccezion fatta per le espressioni come ‘caffè-caffè’ per intendere “vero caffè”.


 

La figura dell’epanalessi (o geminatio) prevede appunto che i termini ‘geminati’ siano ‘a contatto’; ad esempio, da “La Notte”: «Amore, primavera del sogno sei sola sei sola che appari nel velo dei fumi di viola», la geminatio (configurazione …/XX/…) è peraltro amplificata dall’omoteleuto in viola: in questo caso, le due espressioni sei sola sei sola non hanno significati diversi; semmai il secondo amplifica il primo, funge da cassa di risonanza. Nei CO vi sono tuttavia momenti dove le parti geminate sono ‘a contatto’, ma è difficile stabilire se si tratti di una diafora o di una semplice epanalessi. Il fatto è davvero curioso: la decidibilità circa la classificazione di una figura di repetitio dipende unicamente dall’intonazione con cui i membri coinvolti vengono pronunciati. Un esempio fra tutti, l’ultimo verso della “Chimera”. Il componimento, primo nella settuplice silloge dei “Notturni”29, imita le fattezze di un ditirambo, che però sotto il profilo greco-nietzscheano, l’innodia, le icone leonardesche e la patina liberty, tradisce invero una vocazione liederistica; e non tanto per il suo taglio romantico e amoroso magari modellato su Leopardi, Novalis o Nerval, quanto per le sue movenze delicate, schubertiane, pianistiche, intimistiche, quasi psicologiche – le sue curve 'liriche' in senso stretto, e in senso lato ‘cantabili’. Qui, come altrove, fanno comparsa sinonimie, omofonie e geminazioni (in intesa, d’altronde, con i modi ritornellanti di preghiere e Lied); e qui, come altrove, esiste anche un senso stretto di ‘cantabile’ che va  ancora indagato. L’ultimo verso, sigillo in cui appare per la prima volta nel canto il sostantivo ‘Chimera’ affida incondizionatamente al suono ciò che prima era affidato in prevalenza alla pittura:

 

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera

 

La verbigerazione, questa volta, è situata esattamente al centro del verso (configurazione epanalettica /…XX…/), in un dispositivo prosodico di quattro anfibrachi trisillabici autentici (dodecasillabo) in eco ai ritmi dei piedi precedenti; anche qui, ogni parola risuona con l’altra, fra le consonanze (ancora-Chimera), le occlusive velari stemperate sulle nasali, e i grumi fonici o fonosimbolici come la triplice sillaba chi. La lettura prosodica suggerisce dunque un verso composto-barbaro con l’unico dubbio (ma a questo punto il dubbio è davvero rilevante), di dove deporre le cesure, a seconda che si tratti di un doppio senario, in cui la cesura spezzerebbe la reiterazione, o di una sequenza di trisillabi, per conservare la texture ritmica senza lacerazione che termina in cursus planus. L’ipotesi recita così: è impossibile stabilire il punto esatto della cesura semplicemente da come è scritto il verso, così come in certa musica è difficile sancire la posizione della stanghetta di battuta. Quello che pare un cavillo per specialisti, è in realtà un potente esempio dove il ritmo scavalca il metro, e dove, per così dire, l’orecchio supera l’occhio, dacché la parola scritta non basta più. Secondo i commentatori, i due sintagmi ripetuti, secondo l’artificio caro a Campana dell’ambiguità che spesso sfocia nel polisenso, possono incorporare sia valore vocativo che predicativo, cioè significare sia «ti invoco» che «ti nomino»: la differenza è anche pragmatica in quanto nel primo caso si tratterebbe di apostrofe, che in congiunzione con Chimera celerebbe la classica ‘o’ dell’invocatio, nel secondo di un atto performativo come quello di battezzare con un nome. Questi due sensi dell’epanalessi centrale appaiono più nitidi, o scompaiono, a seconda di come si recita il verso. Vi sono almeno tre probabili soluzioni ritmiche del verso che corrispondono ad altrettanti contorni intonativi30.

 


30 Per semplicità, indico con una stanghetta '|' la pausa breve, il respiro, e con due '||' la pausa più lunga.


 

La prima (a), legge: E ancora ti chiamo | ti chiamo || Chimera; la seconda (b), legge: E ancora ti chiamo ti chiamo || Chimera; la terza (c), legge: E ancora ti chiamo || ti chiamo Chimera. La resa (a) è un senario più due trisillabi disgiunti che dunque ben tre focus o apici nella curva melodica in corrispondenza delle prominenze metriche, con predominanza dell’ultima parola, ‘Chimera’, che si carica per via delle pause precedenti e dell’allungamento prepausale; con tre picchi di cui l’ultimo è dominante, siffatta lettura privilegia il valore vocativo del verso. (b), invece, legge un novenario standard più un trisillabo: la mise en relief del colon finale staccato dal resto si adagi più sull’onda ritmica inerziale ingenerata dall’iteratio (un po’ come ne «Le vele le vele le vele») lasciando nell’ambiguo la bivalenza illocutiva e vocativa  del verbo; corrisponde a una sorta di grado zero della lettura che accoglie solo la forza melica della ripresa, il suo effetto a eco, piombando al termine con uno scéne tir, quasi aprosdòketon, del sostantivo che ora potrebbe ergersi a verso isolato, monorematico, nominale, la cui dizione risulta comunque accelerata come clausola iperaforistica.  La terza scansione (c), forse, fra le tre, quella meno probabile, recide in due emistichi simmetrici il verso, cioè in un doppio senario con una sola pausa al mezzo: questo modo recitativo guadagna pragmaticamente il senso perlocutivo (chiamare qualcosa con un nome) della predicazione, perdendo, per così dire, di contro, l’aura, o l’aureola, del nome ‘Chimera’ che è in fondo il soggetto della lirica (come annunziato dal titolo). Senza dubbio il declamatore Campana, allorquando rianimava i suoi «antichi» versi de “La Chimera”, decantava la chiusa in una di queste tre soluzioni; ma a meno di non voler inciampare nella intentional fallacy, a noi non serve sceglierne una; anzi, la ennupla di possibilità esecutive è a fortiori garanzia all’ambiguità31 della scrittura, spia della purezza del verso.

 


31 «La stessa parola ambiguità deriva dal latino agere, equivalente a to act» come ricorda E. Raimondi in La retorica d’oggi, Il Mulino, Bologna 2002, cap. III, riportando e commentando alcune analisi dell’antropologo Victor Turner (tratte dal suo famoso libro Dal rito al teatro): la parola ‘acting’, più che l’italiano ‘agire’, è vicina semanticamente al termine agere, da cui proviene actio, che oscilla tra i significati fondamentali di compiere azioni ed eseguire performance. Tale ambiguità dell’actio è altrettanto tanto bene espressa dal corrispettivo gr. hypokrisis che allude appunto alle finzioni dell’attore e alle maschere teatrali.


 

Qui, come altrove, la parola poetica (giusta l’intuizione di Poe, nel passo succitato, riguardo a Thomas Moore che «cantando le sue canzoni le stava perfezionando come poesie nel modo più legittimo») è un corpo semanticamente insaturo da completare con il di più di suono e di senso che proviene dalla voce: siamo nel regno del teatro.

Artifici simili, figure di parola la cui decidibilità semantica dipende dalla scelta esecutiva,  non sono radi; un caso-limite, ma esemplare, che coinvolge la ripetizione intertestuale schiude le liriche maggiori degli Orfici, “Immagini” e “Genova”, i canti che attaccano con ‘poi che’, congiunzione scomposta che accenna allo sviluppo di un ragionamento silenzioso che precede, micromodulazione a un nuovo senso, quello anagogico, della palingenesi e delle peregrinazioni dell’anima, collaterale rispetto alla vocazione affabulatoria delle prose anteposte (rispettivamente “La Verna” e “Piazza Sarzano”) dove è ancora l’anima incorporata nel narratore-protagonista che si muove tra gli eventi allucinati del mondo, e il corpo in tutti i sensi è il suo carcere; le liriche escatologiche introdotte da ‘poi che’, espediente ortografico che apre il varco dei soprasegmentali, consciamente ambiguo tra il valore temporale (tempo dell’anima immortale) e causale (dipendenza dell’anima, ancora, dai processi contingenti del reale), laddove la prima strofe di entrambe sceglie Platone come auctoritas per narrare le vicende dell’anima immortale, nel primo caso uscente dal buio della ‘caverna’ dopo la liberazione dalle catene, nel secondo planante, in mirabile ripresa cinematografica  prima pagina del libro, in una specie di reincarnazione nell’io lirico al termine del processo di contemplazione di un iperuranio mitigato in parnaso, sono collegate in esordio da questa repetitio intertestuale, la quale, seppure ingeneri quell’ambiguità semantica che in queste circostanze è anche anfibologia ché lascia in dubbio fra l’attacco di una subordinata causale oppure temporale, anche qui, come ne “La Chimera”, è diafora o epanalessi a seconda della sua resa esecutiva nel verso; anche qui, la pronuncia, a seconda che calchi la prominenza sulla prima sillaba o sulla seconda (rispettivamente, dando valore temporale o causale), determina l’univocità del senso; e ancora non è detto che una sola realizzazione sia quella giusta: anche il verso, come l’essere polivoco e simbolico di medievali e poeti maledetti, si dice in molti modi

 

…….. poi che nella sorda lotta notturna (Immagini del viaggio e della montagna, v. 1) Poi che la nube si fermò nei cieli (Genova, v.1)

 

Suggestioni a parte, vi sono ragioni sottili per propendere per un modo recitativo o un altro: se i puntini iniziali di sospensione, in “Immagini del viaggio e della montagna”, prima del poi che sono davvero da considerarsi pausa integrata nella texture ritmica, allora, l’esecuzione prosodica, che scavalca la scansione metrica, farebbe cadere l’ictus su pòi, ora seconda sillaba (in levare), essendo la prima fantasma, andando a costruire un settenario fino a sorda (primo emistichio) più un quinario di lotta notturna (secondo emistichio). Questa forma del 7+5 (dodecasillabo bizantino) scongiura quindi che si tratti di un endecasillabo malformato con accento su 5°, conservando lo shock trocaico centrale, dovuto al passaggio dal battere al levare nonché il culmine della curva melodica, con prominenza metrica, in lòtta

Prima di passare al poi che di “Genova”, una rapidissima incursione nella prima stanza delle “Immagini”32 rivelerà che tutta la tessitura è segnata proprio da ritmi che scavalcano metro e sintassi, ritmi provenienti, più che da certo anisosillabismo delle origini o dal Carducci barbaro, dal verso emule della cadenza del versetto biblico (del resto contraddistinto da parallelismi e ripetizioni), di Hopkins, di Claudel, di certo Nietzsche o meglio ancora dell’adorato Whitman.

… poi che nella sorda lotta notturna 

La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene

Noi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:

Come ombre d’eroi veleggiavano:

      5     De l’alba non ombre nei puri silenzii

De l’alba

Nei puri pensieri Non ombre

De l’alba non ombre:

Piangendo: giurando noi fede all’azzurro.

       .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .         

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

 

I versi brachilogici 6-9, che alternano trisillabi e senari, sono invero novenari dattilici spezzati (De l’àlba nei pùri pensièri / Non òmbre de l’àlba non òmbre); altresì, al v.10, potrebbero essere incapsulati un trisillabo (piangendo) suscitato dai versi anfibrachi precedenti, e appunto un novenario standard. Anche il dosaggio dei due punti, in Campana, è sempre un’operazione ritmica, di scansione nella recitazione-canto, pausa (come di quarto) o respiro: quasi mai i due punti hanno la consueta funzione metasemantica di chiarificazione; pertanto, rispetto alla variante del Più lungo giorno, “Alba”, il v. 3 suona: «Noi ci svegliammo piangendo: ed era l’azzurro mattino»; i due punti vengono cassati solo giacché la pausa è avvertita come troppo forte e inceppa la continuità dell’immagine-evento che ora andrà letto con un unico respiro, trasformando la congiunzione da cellula avversativa a connettivo logico di conseguenza fra i due congiunti, e quindi i due eventi. Invece, il v.10 di Immagini separerà i due gerundi (piangendo: giurando) coi due punti sia per riecheggiare i ritmi ternari spezzando il verso in 3+9 nella lettura, sia per scindere semanticamente le due azioni in tensione del piangere e del giurare. Campana compone con l’orecchio: l’esecuzione trionfa sulla scansione33. La lotta dell’anima seconda34 del noi collettivizzante che si libera dalle catene delle ombre della montagna e degli antri per emergere alla luce del sole è un chiaro riferimento all’allegoria della caverna35.

 


33 Nondimeno, v’è il sospetto che anche la veste iconica dei versi, e non solo la musica, interessi in qualche modo al poeta (e ancora qui il futurismo docet): la dispositio grafica a forma di conca forse richiama visivamente l’antro della montagna; del resto, la scomposizione sillabica dei metri da novenari puri a composti o ibridati non ha ragione se non per motivi ritmici e iconografici (Campana dà prova di questa sensibilità anche altrove, come in Batte botte, ove però il ritmo è binario-marziale e non ternario come qui); del resto, le due file di punti in sospensione, quasiché a mancare fossero due versi lunghi come quelli in incipit, favoriscono l’idea del calligramma; del resto (illazioni a parte), il poeta sta evocando l’immagine della caverna di Platone (come nota per primo S. Drei, Dino Campana. Ritrovamenti biografici e appunti testuali, cit., pp. 75-76).

34 Come noto, Platone tripartisce l’anima in razionale, concupiscibile e irascibile: l’anima seconda sarebbe dunque quella degli istinti primordiali, conativi, della libido freudiana in senso lato; ma il poeta, secondo quel principio delle fonti di seconda mano, ha forse in mente (o meglio, come suo solito, nell’orecchio) il Dante della tripartizione dell’anima (questa volta aristotelica) in vegetativa, sensitiva e intellettiva (Cv III II 11-14, sulla scorta appunto di Aristotele, An II 2): la potenza sensitiva, bestiale, ero(t)ica e primitiva è dunque la più potente anima seconda capace di spezzare le catene del corpo o meglio del sogno. In riferimento alla teologia biblico-ebraica, un commentatore di Dante scrive: «La seconda anima (Ruha) è l’anima brutale; esercita i cinque sensi, e le appartiene la forza motrice da un luogo a un altro [...] E l’anima seconda è mediana tra le due anime».

35 Cfr. n. 35.


 

Se i gruppi fonici del v.1 in ‘or’ e ‘ot’ in cadenza trocaica mimano un certo risuonare di catene, e quindi le vicende della lotta, che è sorda come poi muti saranno i carmi che vanno a la notte verso la fine del componimento, e se già dal v. 2 si assiste, sia prosodicamente nel respiro più ampio sia sul piano fonosimbolico, coi gruppi più morbidi in ‘en’, ‘an’, ‘on’ («la più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene») ma eco dei primi, con focus intonativo su frante, alla liberazione dell’anima dalle catene, il v. 3, col suo largo movimento di doppie e dattili, annuncia il risveglio dell’anima immortale dal torpore del sogno catastrofico della montagna, ma non più solo esperienza individuale del poeta ma evento collettivo di un noi come condizione platonica dell’umanità in catene. L’anima si sveglia dal sogno della montagna-caverna, e come ogni risveglio o rinascita è accompagnata dal pianto («noi ci svegliammo piangendo») degli occhi che si scontrano con la luce del mattino dopo le ore dell’ombra: in germe, e ancor più diafana nei versi mozzi a venire, la dottrina della metempsicosi dell’anima. Tralasciando il senso anagogico dei versi, un senso che riapparirà scopertamente come qui solo in Genova, stupisce ancora il passaggio repentino dal v. 4, il quale sembra evocare la presenza di ombre d’eroi seppur attraverso una similitudine spezzata (solo il secondo termine di paragone), al v.5, improvvisamente più concitato, che invece nega per via di litote (non ombre) la quasi-asserzione del verso precedente. Qui la maglia retorica della repetitio è molto fitta e troverà analoghi, come sempre, solo in “Genova”. Riguardo al sostantivo plurale ombre, il sospetto è sempre quello che si tratti di una diafora camuffata, mediante il potere dell’intonazione, in qualcos’altro (in tal caso, anadiplosi); anzi, ancor più del contorno intonativo, qui è l’esecuzione ritmica, spezzata e affannosa, che smaschera il camuffamento: le ombre a venire non sono le ombre degli eroi (quest’ultime quasi larve di un mondo platonico come quello descritto nel Fedro), bensì le immagini e «ombre» illusorie che abitano la caverna e qui si frappongono alla luce solare dell’alba (e di certo il sole ha valore simbolico, sempre in prospettiva platonica), e che il recitativo, ritmicamente incalzante coi suoi focus dislocati, sembra scacciare attraverso formule ripetitive; effetto retrospettivo, o causa prossima, forse, di quel giuramento, per la luce e contro la tenebra, del v. 10. La brevità del verso in Campana segnala sempre una propulsione ritmica, un’accelerazione delle pulsazioni; di contro, il verso breve, lento ed evocativo, ermetico, come se lo spazio vuoto della pagina fosse al più pausa integrante del verso in tempo di adagio, è lontano dall’agogica in allegroaddirittura presto dei versi corti dei CO: la ripetizione serrata, piuttosto, cancella lo spazio vuoto-pausa della pagina concitando il discorso, come in certi componimenti futuristi.  

Tornando a “Genova”, ma sempre sul filo dei soprasegmentali, il poi che, stavolta non preceduto da sospensioni, sembra prediligere la lettura con prominenza sulla seconda sillaba, in senso causale, che instaurerebbe un seppur fievole parallelo ritmico con i tre endecasillabi a venire (qui la scansione metrica in endecasillabi piani ha un peso maggiore) che esibiscono all’ingresso parossitone (lontàno, marìna, e rìtornàva, che tùtto):

 

Poi che la nube si fermò nei cieli

Lontano sulla tacita infinita 

Marina chiusa nei lontani veli,

E ritornava l’anima partita

5    Che tutto a lei d’intorno era già arcana-

mente illustrato del giardino il verde 

Sogno nell’apparenza sovrumana

De le corrusche sue statue superbe:

E udìi canto udìi voce di poeti

invero, l’ipotesi discende da più solide considerazioni semantiche, siccome la principale di quella subordinata introduttiva arriva solo ai vv. 12-13 («… dai segreti / Dedali uscìi») e il poi che regge altre subordinate, in imitazione sintattica  dei contorti voli dell’anima, finora in terza persona, prima di reincarnarsi nella prima persona dell’io lirico, il poeta esce dai labirinti genovesi dal momento che la nube si è fermata nei cieli (il plurale spiritualizza) rappresentando allegoricamente, ma con sapore cinematografico, il fermarsi del tempo (si ricordi anche “Salgo (nello spazio, fuori del tempo)” de “La Verna”): l’immobilità del tempo cronologico è pertanto il segno in cui termina della prima pagina dell’opera («e del tempo fu sospeso il corso») e in cui comincia il viaggio del personaggio Campana; là l’intemporalità platonica, tuttavia, giungeva al termine di una contemplazione estatica di regioni archetipiche come causa del viaggio; qui, al termine del libro, è nuovamente causa dell’ultimo viaggio nel porto di Genova, in cui l’adepto riceverà dal mare la mistica visione di Grazia; fermo restando, che sarà proprio “Genova” (in PLG chiamata “Il canto di Genova. Preludii mediterranei”), con la sua la quarta strofe, il luogo privilegiato in cui l’actio, la repetitio, la prosodia e il melos troveranno la sintesi stilistica più grandiosa: solo per accennare, nella lavoratissima quarta strofe (vv. 43-86) il poeta intenterà la resa mimetica di un fugato le cui voci principali sono tre: 

 

Che bianca e lieve e querula salì! (v. 62)

Che bianca e lieve e tremula salì! … (v. 65)

E bianca e lieve e attonita salì .  .  .  .  .  .  . (v. 73) 

 

Il soggetto logico-grammaticale dei tre endecasillabi tronchi, i quali, retoricamente concentrano asindeto, variatio, poliptoto, allitterazione rima identica e naturalmente anadiplosi e anafora, è ancora la visione di Grazia del v. 54 (come si evince anche dalle stesure precedenti): la dispositio dei termini (senza contare i clitici, due piani, uno sdrucciolo e un tronco) è calcolato, al punto che i tre aggettivi identici incastonati nella parte sinistra (bianca) sanciscono il colore, nella parte destra gli sdruccioli (querula, tremula, attonita) alludono palesemente alla dimensione vocale (sono, tipicamente, attributi della voce, usati in specie nel melodramma); mentre, al centro, l’aggettivo lieve è ambivalente, quasi funge da ponte semantico, ché può essere attributo sia del colore (qui forse in interferenza con l’associazione bianchezza-neve) che della voce. Nel ritmo, i tre versi sembrano davvero ‘salire’ in forza prima dei giambi che scandiscono accenti di 2°, 4° e 6° poi di quello di 10° che impenna il verso. Ancora, la pronuncia (velocità di esecuzione, curva intonativa etc.) di questi refrain variati modifica anche la loro valenza semantica36; ma ancora, qui la spinta teatrale dell’actio è talmente forte che, con molta probabilità, il passo andrà, virtualmente, recitato così: le tre voci (triplice coro), che si sollevano a fianco della visione e salgono nei cieli, dovranno sovrapporsi ogni volta ripartendo dal verso reggente 54 (che contiene il soggetto visione di Grazia) per terminare poi nuovamente in uno dei tre ritornelli, proprio come in una fuga – deriva ultrastilistica di una poesia soprasegmentale. Questa ipotesi, che può sembrare azzardata, è di fatto confermata pienamente dalla ricostruzione, come in una specie di puzzle, della strofe, strofe la cui parafrasi, fino ad ora, è sembrata impossibile37.  

 


36 Basti pensare che in PLG la quartina che contiene il verso «E bianca e dolce e querula salì» era preceduta da una annotazione di dinamica, «pianissimo», simile al ‘pp’ di partitura: a meno che l’appunto non sia parte integrata del testo, si tratta di un’indicazione precisa su come recitare i versi. Nei CO un carattere tipografico, il corsivo, verrà utilizzato (come in Genova) al posto di glosse eventuali per segnalare la presenza del canto (o meglio, che il passo corsivato andrebbe cantato), come avverte a più riprese la Ceragioli (Dino Campana, Canti Orfici, Introduzione e commento di Fiorenza Ceragioli, Bilioteca Universale Rizzoli, Milano 1989).

37 Per ragioni di spazio, purtroppo l’ipotesi verrà in questa sede solo accennata; ma ripresa in altri lavori.


 

Tutte queste suggestioni, teoriche, lessicologiche, biografiche, stilistiche, retoriche e così via, ognuna delle quali richiederebbe uno studio apposito, impongono nondimeno di ripensare il significato del titolo ‘Canti Orfici’, il quale, a discapito di una vigente vulgata ermeneutica38 che sostituisce al sostantivo quello di ‘carmi’, cioè in accezione traslata, possiede, evidentemente, un significato reale: i Canti Orfici sono letteralmente ‘canti’39; o perlomeno, laddove certa materia lirica di partenza non riesce a convertirsi formalmente in poesia, giacché ancora trattenuta nel prorsus dei ritmi più distesi del periodare, resta al di qua del versus, e rimane prosa; laddove invece la materia viene talmente elaborata, attraverso tre, quattro, dieci tappe della lima onde soddisfare le esigenze ritmico-musicali, e simboliche, della poesia pura, finisce addirittura, per dir così, al di là del verso, col suo semplice e grafico andare a capo, e diviene ‘canto’; ancorché la dimensione-canto sia meta più o meno esplicita, più o meno consapevole, di tutto; e su tutto eserciti il suo potente influsso, persino sulla prosa. Vi sono peraltro frammenti, come i tre metricamente più ortodossi di tutto il libro della “Petite promenade du poète”, “Batte Botte” e “Barche amorrate”, i quali, invero distanti, per la loro facilità, rispetto alle forme, al respiro e al messaggio delle prove maggiori, si sono così impostati sotto la spinta del metro e della musique che hanno assimilato le sembianze di generi vocali veri e propri, canzoni, a cui spetta la qualifica, se si passa il termine, di ‘purissimi’: e non è solo l’impronta folclorica (il popolare è una faccia del primitivo campaniano) della “Petite” che richiama le «canzonette volgarucce» francesi dell’epoca, o le ariette del melodramma giocoso, né gli «effetti musicali»40 di “Batte Botte”, forse un po’ palazzeschiani, sotto il segno di danza e percussioni; né solo la vocazione ballatistica di “Barche amorrate”41 che sottende, invero, il frammento di un coro tragico sulle sorti dell’umanità; è semmai la disponibilità spontanea, o meglio, naturale, di questi testi alla canzone.


38 Forse iniziata da A. Asor Rosa, “Canti orfici” di Dino Campana, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Il secondo Novecento, Le opere 1901-1921, Torino, Einaudi, 2007, pp. 29-30, che ipotizza un legame tra i Canti di Leopardi e quelli di Campana. In verità, Asor Rosa è consapevole del significato reale del titolo: «anche Orfeo cantava, anche i suoi seguaci lo celebravano con il canto. E una “poesia delle origini” o, meglio, del “nuovo inizio”, non poteva che essere canto», p. 30.

39 L’interpretazione del titolo come ‘Carmi orfici’, ‘Poesie orfiche’, o simili, è, da un lato, lezione troppo difficile, in quanto delle 44 occorrenze “canore” nei CO non se ne trova una sola che abbia significato di ‘poesia’ e soprattutto escluderebbe l’aggettivo ‘orfici’ che allude a un Orfeo cantore peraltro raffigurato in tutte le iconografie alle prese con uno strumento a corde (compresa quella, determinante, dell’insegna del ‘Caffè Orfeo’ scoperta da S. Drei) dall’altro, troppo facile, giacché appunto insisterebbe su una maniera dell’epoca di intitolare le raccolte poetiche con ‘canti’: senza dubbio, Campana aveva in mente, o nell’orecchio, questa tendenza dei poeti coevi, ma al più voleva, polemicamente, distanziarsene, apponendo l’aggettivo ‘orfici’ per rivelare appunto (sempre secondo quel motivo della purezza primitiva come superiorità morale del genio etc.) che i suoi canti, a differenza di quelli del tempo, sono davvero ‘canti’, dove il canto è l’origine della poesia. Più che a Leopardi (certo molto attivo nei CO), occorre dunque pensare, semmai, a Whitman, la cui opera poetica è tutta all’insegna del Song (anche per lui la critica parla di “bardismo”): titolo e colophon del libro di Campana sarebbero perciò collegati, circolarmente, dal comun denominatore del Whitman cantore elevato a personaggio mitico e modello. Inoltre, la prima traduzione italiana delle Leaves of Grass portava il titolo ‘Canti scelti’.

40 Come dice Campana al Pariani (Vita non romanzata di Dino Campana, cit., p. 46).

41 Una marradese ricorderà (S. Zavoli, Dino Campana in Campana, Oriani, Panzini, Serra, Cappelli, Bologna 1959, pp. 92-93): «[Campana] mi portava qua... alla fontanina, e mi diceva le sue poesie, perché poi voleva che le ripetessi. Ne ricordo una, non so se con esattezza: “Le vele, le vele, le vele / che schioccano e frustano al vento / si gonfian di vane sequele / le vele le vele le vele”. La parola “vele”, detta lui, sembrava una parola lunghissima...». Sembra dunque che il recitato campaniano eriga un accento melodico su quello dinamico del refrain, del tipo: <Le vēle le vēle le vēle>, onde emancipare, verso una dimensione oralizzante e dinamica, la prosodia (con tutti i suoi risvolti intonativi) dalla metrica, la quale invece renderebbe monotona, o meccanica, la scansione; e in questo senso, e a causa della regola dell’accento prepausale, la recurrence intonata non è solo pulsazione isocrona e metronomo, ma climax ascendente.


 

Ancor più, in questa ricerca esasperata del musicale, la stanza genovese ricordata farà addirittura a meno della parola, per divenire musica assoluta. E colore; dal momento che la musica è solo una delle sette arti42, benché forse la più importante per la poesia pura

Per concludere, la «purità di accento» dei CO risiede molto probabilmente in quei fattori della voce da cui dipendono pronuncia, dizione o recitazione; uno di questi fattori (l’intonazione) addirittura incide sull’ordito retorico: quelle che sembrano epanalessi  o abbellimenti di parola si trasformano in diafore attraverso i processi soprasegmentali dell’actio, che è, d’altro canto, l’incarnazione  retorico-stilistica più compiuta della poesia pura, primitiva, e orfica. Chiamerò “diafora intonativa” questo artificio, ovvero quella figura della pronuntiatio che distingue semanticamente i due termini reiterati solo per mezzo dei fenomeni di intonazione. Riassumendo, tale figura di costruzione e di pensiero, che si articola vocalmente ma che impatta sul significato, si cela, in modo totalmente inedito, nell’opera di Campana; ad esempio, nell’ultimo verso della “Chimera”, e nei versi delle “Immagini” e di “Genova”. La diafora intonativa, proprio per il suo carattere acustico, è un espediente retorico che accomuna la poesia ad altri tipi di semiosi, come quella teatrale o musicale43. Le variopinte interpretazioni esecutive che rifuggono dagli automatismi della lettura dello spartito o del copione si basano proprio su principi affini a quelli della diafora intonativa di Campana; resta da chiedersi, a questo punto, se quello che nella musica o nel teatro è norma e prassi, nella poesia, arte allografica par excellence, e specialmente nella poesia dei Canti Orfici, sia soltanto una figura retorica.

 


42 Quando Campana confessa al Pariani: «ho voluto creare una poesia europea musicale colorita» è molto probabile che si riferisca alla Gesamtkunstwerk, prima del Wagner nietzschiano del dramma musicale poi degli artisti coevi, come Schönberg e Kandinskij, ma anche del fervore pletorico e totalizzante delle avanguardie e dei futuristi: esempio, fra tutti, l’arte totale teorizzata dal manifesto di Carrà, La pittura dei suoni, rumori, odori, pubblicato nel settembre 1913.

43 Un termine come ‘fraseggio’ indica, difatti, che due linee melodiche identiche sullo spartito possono essere eseguite (pronunciate dallo strumento) in modo affatto differente ingenerando un significato diverso (questa volta non linguistico però) e una diversa comprensione del medesimo oggetto.