Silvano Slavadori

Silvano Salvadori, foto di Marcantonio Perugino

 


 

A MARIO NOVARO

                        

CANTO PROLETARIO ITALO-FRANCESE

 

Intervento di Silvano Salvadori

 

al Teatro degli Animosi a Marradi nel 2011, per il 150 Anni dell'Unità d'Italia

                                                       

Come delle torri d’acciaio

Nel cuore bruno della sera

Il mio spirito ricrea Per un bacio taciturno.

….

….

         (parti variate)

Se là c’è un rosso giardino                 

là se c’è un fulvo giardino

Che cosa è il bianco con il turchino? 

E se è elegiaca con il turchino

…. …

Sull’Alpe c’è una scaglia di lavoro

Del povero italiano non si sa. 

Tra i pioppi

Al margine degli occhi

Bruni della sera

Se c’è una pastorella non si sa

……..?….

Che pare far vane le torri           Al taglio di un pioppo che brilla:

perché fan vano le torri

Italia.                                      

(manca)

Ma come torri d’acciaio            

Nel cuore bruno della sera

Il mio spirito ricrea

Per un bacio taciturno.

Come delle torri d’acciaio

…                                          

Italia

…                                          

Ti amo con smisurato dolore

…                                          

E brilla la scaglia del cuore

                                              

Del tuo lavoro che si tingerà

Hai domati i picchi irsuti           

Hai fatto strada per le montagne

Con poco canto con molto vino

Sei arrivata vicino

Fin dove si poteva arrivar.

Sotto la luce dei picchi irsuti

Senza interrogare la giubba rossa delle stelle Hai sfondato finchè si poteva arrivare

Finchè sei andata a riposare                         

Laggiù nello straniero suol.

Italia non ti posso lasciare

La scaglia dell’italiano senza cuore

fin che ….

Brilla: stai fida l’onore                                

…stai fida: …

 

Te lo venderemo con nuova verginità.

L’edera gira le torri

E’ la vigna della tua passione

Italia che fai processione

Con il badile prendi il fucile ti tocca andar

Fora la giubba rossa delle stelle

Questa volta con il cannone

Italia che fai processione

Prendi il fucile guarda il nemico ti tocca andar.              Con il badile prendi il fucile/

Guarda il nemico che poi non t’importa

Ti sei fatta a forzare la pietra Prendi coraggio se batti la porta Questa volta ti si aprirà.

Cara Italia che t’importa

Ti sei fatta a forzare la pietra

Prendi coraggio questa volta

Che la porta ti s’aprirà.                                                …………. si…

…                                                                                        

…                                                                               

…                                                                               

…                                                                               

Nel paesaggio lente si spostano le rondinelle                           Come…

Il paesaggio è costituito dal ponte in riva al secondo fiume       ..era costituito… oltre …  

…                                                                                       Come nel paesaggio…

L’oro e l’azzurro dei tramonti decrepiti si è cambiato in verde           …si fosse…

…                                                                                       vedevo torri…

Ma come torri d’acciaio                                                        Come delle….

Nel cuore bruno della sera

Il mio spirito ricrea

Per un bacio taciturno

 

Dino Campana – poeta germanicus.

 

(In parentesi sono le varianti in “Domodossola, maggio 1915, sera”), che ha anche: (v. 5-6) “…Lo sprone è fulvo che ha/ scosso le nevi”

 

 

Il Canto proletario italo francese fu pubblicato da Matacotta nella Fiera Letteraria del 26 dicembre 1946, essendo stato rinvenuto in un Taccuino di proprietà di Sibilla. Altri titoli da Dino elaborati sono Canto dell’espatriato o all’Italia.

Nel manoscritto del Taccuino però il testo presenta altre varianti: “A la luce a la treccia bruna/ La sopra l’argine della capanna/ Scrivo di contro alle torri/ Al taglio di un pioppo che/ brilla”. Ed ancora: “Sei una pastorella decrepita italiana/ Là tra i pioppi sul margine/ Bruno della sera”; “Nel verde paesaggio si spostano lente le rondinelle vanno sotto il ponte in riva del secondo fiume (vedo) è l’oro e l’azzurro dei tramonti decrepiti che si è cambiato (si cambia) in verde. Come delle torri….”; “Perchè nell’intersecamento delle coste con il turchino Dell’Alpe ci è una scaglia di lavoro del povero italiano? non si sa perché fan vano le torri al taglio di un pioppo che brilla.”

Nel maggio del 1916 Dino aveva spedito A MN a Novaro dopo averla annunciata il 27 febbraio con una lettera: “ A lei che è stato per me così cordiale vorrei dedicare una poesia patriottica che scrissi ancora nel luglio scorso: però passata la prima fiammata la abbandonai ed è restata incompleta. La potrei rivedere e terminare nel senso di un “addio all’Italia” solamente. (Ma questo addio, anche praticamente, è terribilmente difficile poterlo fare).”   

In una carta intestata dell’editore Vallecchi, che fa parte delle carte Soffici, è riportata ancora questa redazione: Domodossola, maggio 1915, sera. Un’altra copia fu consegnata alla crocerossina Lusena. Ancora l’8 aprile del 1916 Dino riporta la prima parte della poesia in una lettera a Cecchi da Lastra a Signa. 

E’ stata anche rinvenuta una copia dei C.O. con la dedica  “A Luchaire e alla Francia perché ci vendichi. … osteria del gatto rosso, Domodossola 1915 (incompleta)” con il testo manoscritto.

 


 

COMMENTO

 

Il mio spirito si ricrea nel cuore ormai scuro della sera vedendo delle torri d’acciaio; ma anche: il mio spirito crea di nuovo una sorta di torri d’acciaio, emblema di te Italia, a cui indirizzo il mio bacio di poeta notturno, e taciturno è il mio bacio per te.

Qui sulle Alpi dove è stato scavato da poco il passo del Sempione (inaugurato nel 1906) e del Lotschberg (inaugurato nel 1913), emblema della forza lavorativa del popolo italiano, il bianco della neve e il turchino del cielo aspettano forse il rosso per completare la mia gioia: cioè quella guida rossa al rinnovamento socialista che si annuncia perfino nei colori della bandiera francese; il giardino della nostra pace che conquisteremo col sangue; una Italia finalmente proletaria; turrita questa volta di una forza nuova.

Anche se non la si vede e non se ne ha sufficiente considerazione, là nelle gallerie, sulle Alpi c’è una scheggia di pietra del lavoro di scavo compiuto dai lavoratori; sul profilo lontano del paesaggio, quasi una bruna palpebra, egualmente sta il cuore di una pastorella segantiniana piena di speranza, anche di questo non si ha coscienza, laggiù fra i pioppi e sembra contrastare questa moderna epoca di nuove torri, di fronte alle quali è patetico il taglio di uno di quei pioppi (onde riscaldarsi?) che brilla nell’ultima luce. Bastano questi frammenti e queste piccole cose: sono scaglie che fanno brillare il cuore, pur nel dolore, di una nuova speranza.

Con le nuove strade e i trafori, Italia, hai domato le vette delle montagne; ti sei spinta con tutta te stessa fin dove era possibile, facendoti forza con il vino, visto che i canti si spengevano nella fatica. I tuoi lavoratori, sfidando gli avversi destini, si sono spinti al limite, a volte scegliendo l’emigrazione. Io non ti posso lasciare, non ho cuore per farlo: quel lavoro compiuto è una luce che brilla. Stai fiduciosa che quell’onore che sembrava perso lo ristabiliremo reintegrandolo con il nostro impegno: Italia oltraggiata sarai di nuovo integra! 

L’edera attanaglia le torri (ma qui l’immagine si presta a vecchie torri di città), in quella tua vigna abbandonata che produce il rosso vino, emblema della passione; un sudore di sangue si aggiungerà a quello del lavoro. Tenace è l’umile edera, insieme ai pampini emblema immortale di Dioniso, proclama l’invitto amore mazziniano per una repubblica.

Italia che hai lavorato con il badile, mettendoti in lunghe code, è l’ora che tu prenda il fucile per andare contro il nemico. Questa volta vincerai gli influssi nefasti con i nuovi mezzi offensivi che gittano lontano, come il cannone; Italia cessa la lagnosa processione cristiana di sottomissione e guarda in faccia al nemico: questo è ora il tuo compito. Non ti far scrupoli nell’attacco, tu hai preso forza dal tuo lavoro e se questa volta vorrai aprire la porta del tuo futuro ti sarà aperta. Cara Italia non temere questa tua azione: batti e ti sarà aperto.

L’emigrazione, come quella delle rondini che vedo lentamente spostarsi nel paesaggio per planare verso la riva ristoratrice, deve cessare; un nuovo paesaggio ti attende tutto verde, questo il nuovo colore che sostituisce quell’antica tua grandezza ormai decrepita di dannunziani cieli bizantini e gotici o di un azzurro rinascimentale che in ogni tramonto ritornano, e come tale il verde entra nel colore della nostra bandiera. (Dino dice a Pariani che questi ultimi versi “sono frammenti dell’Isonzo. Sono versi tralasciati: un principio di poesia poi abbandonato”, ma il richiamo “sotto il ponte in riva al secondo fiume” ben si sposa con il paesaggio della val Divedro vicino alla centrale elettrica di Varzo, che presenta alcuni tralicci in metallo).

Il tuo nuovo paesaggio avrà nuove torri, mia Italia turrita di una nuova modernità. Ed a queste si modella il mio spirito, e queste ricreo in me, in questa sera in cui con devozione ti dedico questo soffio di un piccolo bacio di me pellegrino.

Nel brano Davanti alle cose … , estrapolato da una lettera a Sibilla, Dino, ricordando le Alpi da cui “la Dora scende in tumulto”, scrive:  “e il più leggero dei baci crea ancora forse come quando dicevo Come delle torri d’acciaio…” ecc, e qui fa seguire appunto i primi quattro emblematici versi di questa poesia. Potremmo ulteriormente parafrasare: il mio spirito (taciturno come il bacio) sa creare di nuovo per (in virtù di o  per il fine di) un bacio così leggero da non farsi sentire che a te rivolgo e che scende puro come l’acqua delle Alpi. Egli, lo spirito, è simile alle torri d’acciaio (incorruttibile, eccelso e forte), silenziose nel cuore notturno della sera; come esse stanno nel paesaggio, il mio spirito sta nella mia persona, votato a sfiorare con la poesia le cose viventi.

Brillano le torri come brilla il mio spirito. 

Dunque un senso eroico abita Dino, un convincimento interiore fermo. 

 


 

 

IL CONTESTO

 

Dino,come ricordato, così scrive a Mario Novaro, in una cartolina da Marradi del 27 febbraio 1916: “ vorrei dedicare una poesia patriottica che scrissi ancora nel luglio scorso: però passata la prima fiammata la abbandonai ed è restata incompleta. La potrei rivivere e terminare nel senso di un “addio all’Italia” solamente. (Ma questo addio, anche praticamente, è terribilmente difficile poterlo fare).”  

Dino scrive ancora a Prezzolini il 4 ottobre del 1915 per un consiglio sulla difficoltà di ottenere un passaporto per la Svizzera (in G. Prezzolini “Il tempo della Voce” Longanesi Vallecchi 1960, e in GCM “Lettere” pag 167) a cui segue, sul tema della guerra, un elogio: “Viva dunque la grande Francia”… “nel sud della Francia, laggiù, laggiù. Era l’ideale della musica” che lo stesso Nietzsche indica in Bizet; ed aggiunge: “dell’Europa moderna non si capisce proprio nulla”. Ancora il 25 dicembre dice che allo sgelo vuole riattraversare le Alpi svizzere. ed in una lettera a Franchi del 12 gennaio del 1918 scriverà: “Caro fratello una unione più stretta fra la Francia ed l’Italia s’avvera”. (Per inciso una delle più grandi esaltazioni del paesaggio alpino sarà la Alpensinfonie composta da Strass fra il 1911 e il 1915).

Nella lettera a Cecchi da Lastra a Signa dell’8 aprile 1916 riporta i versi della poesia 1-4 e 13-21 e continua: “così comincia una poesia nazionale che continua in un rude canto popolare” e ancora dice che vuole prendere cittadinanza a Nizza. In una lettera del 12 aprile 1916 a Mario Novaro ricorda che quando scoppiò la guerra era in Svizzera: “Ero riformato, ma venni in Italia per arruolarmi volontario.. Sono partito dal mio paese per avvicinarmi alla Francia dove prenderò oggi o domani la cittadinanza che credo di poter meritare”. Vuol respirare “aria di Francia” e tutte queste idee le riconferma in una lettera a Boine da Livorno il 19 aprile 1916.

Forse già nel maggio 1914 Dino è stato a Berna, dopo aver ottenuto dalla Società Operai di Marradi un salvacondotto per entrare in Svizzera; da qui forse manda a Bandini il manoscritto degli Orfici. Il 10 marzo del 1915 è a Torino e scrive a Cecchi: “Io anderò in Francia, non sono soldato, e curerò i feriti”. Il 14 aprile del 1915 scrive da Ginevra a Papini. Sempre da Ginevra scrive il 12 maggio a Soffici: “quando partii da Firenze andai in Sardegna poi a Torino per due mesi, mezzo morto di freddo e di noia, poi ho girato la metà della Svizzera a piedi e sono a Ginevra da un mese e mezzo” (GCM “lettere” pag 119).

Il Canto proletario, uscì,  nella Riviera ligure del maggio 1916 con la data “Domodossola 1915”. A giugno dona, sotto il fico ad Antignano, a Bianca Lusena, la ragazza ebrea crocerossina  impegnata durante la Grande Guerra, scrivendolo lì per lì un autografo della poesia dicendole che era inedita.

Lo spirito patriottico stava prendendo i giovani; Augusto Hermet ricorda nell’autunno del 1914:

Era, appena composto, l’inno d’Angnoletti per Trento e Triste. Ascoltò, s’affacciò alla finestra.

Gli amici gl’intimarono: Scendi subito, e via con noi!

Nella focosa schiera splendeva biondo barbaramente e virgineamente, con una rosea cera fiammea, gli occhi celesti e tra i fluenti baffi la gran bocca a clamorose fulminee risate, il randagio poeta della notte mediterranea, col suo libro solare e sporcamente stampato da qualche mese (la pazza dedica a Guglielmo II!), Canti Orfici: Dino Campana.” (Da: La ventura delle riviste, di Augusto Hermet, (1903-1940) Firenze, Vallecchi, 1941, pag. 151.)

L’inno di Fernando Agnoletti era stato pubblicato con la partitura musicale, su Lacerba nel n. 22 del 1 novembre 1914 e recita:

 

TRENTO E TRIESTE

Si batterà la carica sull’Alpi, su, coi cannoni! - su, con le mani! Le baionette sulle schiene ai cani le pianteremo – senza pietà!     Gioia bella - vo lontano,     dammi la mano – dammi l’addio.     Se ti nasce – un figlio mio

    TRENTO E TRIESTE –menalo a baciar.

Faremo la battuta della lepre, lepri tedesche – lepri magiare, vendicheremo per terra e per mare il Cappellini –  ed Oberdan.     Gioia bella –vo lontano,     ralleva i fiori – per la mia fossa.

    Sangue italiano –chiama a riscossa,

    TRENTO E TRIESTE – chiama a libertà.

Luigi di Savoia ha pronto i fuochi, pighiam le tende – tagliamo i cavi.

I marinai son tutti sulle navi,

l’Alpi ci aspettano e il nostro mar.     Gioia bella – se tu m’ami     dona all’Italia - questo amore;     nel sorriso – e nel dolore

    TRENTO E TRIESTE – ti benedirà.

In cima di quell’Alpe c’è la neve rossa di sangue – sangue italiano; c’è l’Austria che lo beve mano a mano, ma la vendetta – non tarderà     Gioia bella – asciuga il pianto,     sono d’Italia – soldato anch’io,     se ti nasce - un figlio mio

    TRENTO E TRIESTE – lo deve battezzar.

E gli dirai come morì suo padre faccia al nemico – bandiera al vento, e gli dirai dove morì contento TRENTO E TRIESTE – per salutar.     Gioia bella – se tu m’ami     ma più l’Italia – tu devi amare,     l’Alpi nostre – e il nostro mare

    TRENTO E TRIESTE – e la libertà.

 

( “il Cappellini” = Alfredo Cappellini, livornese, morì affondando con l’equipaggio e la sua nave “Palestro” a Lissa durante la 3° guerra d’Indipendenza; fu insignito di medaglia d’oro al valore. 

Per Oberdan lo spesso Carducci aveva a Bologna diffuso un volantino con il testo della lapide posta nel Palazzo d’Acquisto: 

 

« IN MEMORIA XX DICEMBRE 1882 GUGLIELMO OBERDAN MORTO SANTAMENTE PER L'ITALIA,

TERRORE AMMONIMENTO

RIMPROVERO AI TIRANNI DI FUORI AI VIGLIACCHI DI DENTRO - GIOSUÈ CARDUCCI XX DICEMBRE

1907. »)

 

Anche Apollinaire scriverà una lirica che fa pubblicare su n.17 de La Voce di Firenze il 15 novembre 1915: A l'Italie dedicandola poi ad Ardengo Soffici. Fu scritta nelle trincee di Francia nell’agosto di quell’anno e tradotta proprio da Fernando Agnoletti. La fratellanza fra Francia e Italia è anche qui al centro del componimento: ”L’amour a remué ma vie….C’est à toi que je songe Italie mère de mes pensèes…”. Altrove traduce Agnoletti: “saluto… la camicia rossa bella e santa/ ti mando il saluto del cuore, o mia Italia,/ e mi sporgo ad applaudire le gesta che compiono i tuoi ragazzi”, “Non ti fermare a riprendere terre irredente e basta/ invece getta tutto i tuo destino/ nella bilancia dove sta tutto il nostro”. Nella raccolta “Stavelot” del 1899 Apollinaire aveva innalzato anche lui un canto Al proletario; ma non sembrano esserci influenze dirette con Dino per questo suo inno ed è testimonianza solo del comune sentire nell’arco di quei mesi dell’intervento in guerra.

Nel 1911 c’era stata la prima celebrazione del cinquantenario dell’Unità d’Italia dopo le celebrazioni dell’anniversario anche della seconda guerra d’Indipendenza, ed una litografia del 1909 di Carlo Tallone mostra proprio l’Italia turrita abbracciata alla Francia con le rispettive bandiere che respingono insieme un soldato austriaco.

Fra i destinatari della richiesta di Dino di “cittadinanza italiana” allorché rientra in Firenze nel 1914 c’è anche l’Agnoletti, con il quale, per causa di Sibilla, si altereranno poi i rapporti.

Certo Dino conosce l’inno di Agnoletti di cui condivide l’invito a prendere il fucile, l’inizio sul paesaggio alpino, l’amore e l’invocazione all’Italia; forse anche l’invocazione alla gioia bella può trovar riscontro nella pastorella, che comunque in Dino è sempre legata al ricordo delle Alpi. L’invocazione alla giubba rossa delle stelle, memoria astrale di Lucrezio, pur contestato da Mario Manlio che invece la interpreta in chiave astrologica come qui nel senso di “destino”, forse vede interpolata, a “giubba delle stelle”, la parola “rossa” per reminiscenza delle “giubbe rosse”, colore delle giacche tedesche dei camerieri del famoso caffè fiorentino? Ma ha anche il significato di pressante calvario del destino.

A lato della pubblicazione di A MN sulla Riviera Ligure del maggio del 1916, di proprietà di Pietro Jahier, sono aggiunti, all’altezza dei versi 45-48, quattro versi della terza quartina del canto alpino “E Cadorna manda a dire”, sostituendo a novantotto, novantanove: 

 

E Cadorna - manda a dire   che si trova - là su i confini   e ha bisogno - degli Alpini   per potersi - avanzar.

La Fanteria è troppo debole i Bersaglieri sono Mafiosi ma gli Alpini son valorosi su pei monti a guerreggiar.

  

  Novantotto - su coraggio   che le porte - son bombardate   tra fucili - e cannonate   anche l’Austria - cederà. (il nemico)

  

Cara Mamma - non tremare   se non posso - piú ritornare   un Alpino – militare   deve fare - il suo dover.

Anche un’altra canzone recita:

E TU AUSTRIA

Su su cantiamo guerrieri alpini che delle Alpi noi siam bersaglieri

e fra le rocce e gli aspri sentieri

mai nessun colpo fallito sarà.

Noi siam giovani, forti e robusti sopportiam fatiche e sventure 

cara Italia tranquilla stai pure che gli alpini salvarti sapran.

E tu Austria non essere ardita di varcare d’Italia i confini, che sulle Alpi ci sono gli alpini che su per aria ti fanno saltà

 

Il 24 maggio del 1915 l’Italia entra in guerra, dopo il grande incitamento di D’Annunzio al Costanzi di Roma. Il mazziniano partito repubblicano (il più antico che ha mantenuto come simbolo l’edera) sposa l’interventismo. Potrebbe essere curioso ricordare che l’edera, simbolo di immortalità insieme ai pampini d’uva, costituisce la corona di Dioniso. Che nel richiamo a “L’edera gira le torri/ è la vigna della tua passione...” ci sia un indizio iconografico a questo? Non è peregrina l’idea di un Campana vicino a idee socialiste, ma più di stampo repubblicano, dato il suo incondizionato appoggio alla Francia repubblicana in cui vuole emigrare.

L’altra epopea che rivive nel Canto è l’esaltazione del lavoro al Sempione, a cui si accede da Domodossola per andare a Berna, di cui numerose sono le illustrazioni sulla Domenica del Corriere o su l’Illustrazione italiana, comprese perfino le figurine Liebig con immagini di donne locali in costume. Fu usata nell’immane opera una nuova perforatrice meccanica, ad aria compressa sul versante italiano ed ad acqua a 100 atmosfere su quello svizzero. Una epopea che certo ha lasciato il segno, ed infatti con orgoglio l’iconografia del tempo mostra i lavoratori a spezzare eroicamente la pietra.

Inoltre nel 1912 fu inaugurata una prima centrale idroelettrica a Varzo, con dei piccoli tralicci, vicino alla confluenza del fiume Diveria col Cairasca, prima di gettarsi nel Toce. Sul Diveria c’è pure un famoso ponte a grande arcata (“dal ponte in riva al secondo fiume”). 

Una intera città operaia era sorta lungo il fiume, poi spazzata via nel 1919 da una piena.

C’è probabilmente, in Dino, anche il ricordo delle grandi cattedrali della modernità: le centrali elettriche a torri del futurista Sant’Elia, ricche di un espressionismo industriale ed eroico per una nuova Italia, pubblicate nel Manifesto dell’Architettura futurista del 1914. Inoltre le fabbriche chimiche impiantate nella zona di Domodossola per la produzione di carburo e altre sostanze a uso delle gallerie, potevano aver torri di stoccaggio, contribuendo a formare un panorama di moderna industrializzazione.

Questa poesia cerca certo un nuovo fraseggiare in quel periodo in cui Campana compone anche “Arabesco Olimpia”, e nel Taccuino Matacotta gli appunti sulle due composizioni si intersecano. E per entrambe le composizioni, la spiegazione è alquanto ermetica. Forse Dino cercava di creare nuove poesie in vista di una riedizione dei suoi Canti Orfici.

Ma qui è giusto ricordare anche un’altra memoria: diversi marradesi intorno al 1906 erano emigrati per lavorare nelle gallerie alpine. Costoro, dopo il Sempione, affrontarono l’altra grande galleria del Lotschberg. Qui il 24 luglio del 1908 (dopo che in quello stesso anno una frana aveva travolto delle abitazioni operaie con già 15 morti) avvenne un grave incidente, dopo il brillamento di una mina, che ancor oggi si commemora: 25 minatori italiani rimasero uccisi nella frana della galleria e solo 24 corpi furono recuperati; ben sei erano di Forlì, uno di Bologna ed uno di Firenze. Dall’anagrafe di Marradi in quello stesso giorno e nello stesso luogo risulta deceduto Luigi Scalini di 38 anni.  Va ricordato che anche lo scalpellino Domenico Vanni, il socialista della sezione di Biforco nato nel 1889, lavorò ad Iselle di Trasquera, presso il Sempione, ritornando a Marradi intorno al 1913.

I lavori di questa nuova galleria di Lotschberg si conclusero solo nel 1913, con un totale di 116 morti. Nel cimitero di Kandersteg c’è un monumento che li ricorda; quel villaggio durante i lavori passò da 445 abitanti a 2.884. Mio nonno, Angiolo Mengozzi, che vi aveva lavorato, al bosco recitava una composizione in endecasillabi con rima (oggi ricordatami da mio zio) in cui si facevano i nomi dei caduti. A Marradi doveva dunque esserci eco popolare di tale tragedia, a cui testimoni oculari avevano assistito. Anche nel traforo del Sempione morirono, fra 67 operai, 8 sono toscani, di cui 4 di Vicchio;  6 romagnoli, per lo più ancora una volta forlivesi. Al Gottardo i morti erano stati 307.

L’epopea dell’emigrazione e il duro lavoro sulla pietra delle Alpi faceva parte già negli anni di Campana di una sorta di mitologia locale che alimentava la coscienza proletaria. Dino non può certo dimenticarla ogni volta che valica proprio in quel punto le Alpi.

Il titolo Canto dell’espatriato, poi cassato, dimostra il prevalente interesse del poeta per il fenomeno emigratorio; l’esaltazione dei lavoratori ai trafori non è retorica in Dino come quella del tempo: -“Bruno come la pece, seminudo, la lampada in una mano, sta immobile, in posa scultoria, col cappello in atto di saluto. Ha sul viso le stigmate della volontà, nell’occhio una serenità che è fatta di forza e fierezza. Pare un gladiatore antico, un soldato sulla breccia. È un italiano, come tutti gli altri”-. Le vittime del Lavoro di Vincenzo Vela per i caduti della Galleria del Gottardo mostrano invece un’altra pietà!

-“La convinzione che nel lavoro manuale fosse la grande forza economica della giovane nazione si diffondeva fino a permeare parti consistenti della classe operaia. Labor improbus omnia vincit, recava impresso una cartolina celebrativa del traforo, stampata a Losanna nel 1906, mentre il fisiologo Angelo Mosso, che aveva dedicato molte energie allo studio della fatica e dei suoi effetti sulla complessione fisica della popolazione, affermava in un intervento sulla Nuova Antologia  del 1905, che “nella resistenza dei muscoli alla fatica sta una grande parte della ricchezza futura del nostro paese”. -

Con Gli eroi del Sempione si era cimentato anche Giovanni Pascoli in una sua roboante poesia poi raccolta nelle Odi: “Apriti, o porta dei millenni nuovi!/ O nuovi vincitori, avanti!”. Suo è anche un Inno degli emigrati italiani del 1911: “Latin sangue, gentil sangue errabondo,/ tu sei qual eri nel tuo giorno:/ ancora sai tutte le vie del mondo…/ non sai più quella del ritorno.” 

Nel monumento del cimitero di Kandersteg c’è scritto “Mi spezzo, ma non mi piego”; ma va ricordato che vi furono 4460 feriti e che i toscani lavoravano con un salario minore di quello che pretendevano i lombardi, 4 f al giorno, e nonostante questo inviarono in Italia ben 5 milioni di franchi. Ci furono al tempo quelle critiche verso gli italiani che oggi si ripetono nei confronti di altri emigrati: di portar via il lavoro ai locali, accuse di delinquenza, di non cercare l’integrazione, di farsi manovrare dagli agitatori anarchici, di accontentarsi di salari minimi; ci furono diffidenze e attentai distruttivi verso i loro negozi.

Il Canto di Dino Campana, straziante quanto pieno di speranza per un rinnovamento, è rimasto incompiuto nell’elaborazione e le tre ripetizioni della strofa dei quattro versi iniziali forse accennano ad un ulteriore pensiero di trasposizione musicale. L’ispirazione “proletaria” potrebbe trovar motivo anche nel clima di rivendicazioni sociali dopo la caduta del governo di Giolitti.

Potremmo ricordare anche i moti rivoluzionari della Settimana Rossa che toccarono in particolare la Romagna nel giugno del 1914.

La Settimana Rossa fu un moto a carattere insurrezionale - così scrive Alessandro Luparini in Settimana Rossa e dintorni -  che attraversò l'Italia nel giugno del 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale: sette giorni, dal 7 al 13 giugno, durante i quali sembrò che il paese potesse essere travolto dalla rivoluzione. Ma solo in Romagna la popolazione credette che fosse giunta "l'ora sbaracuclòna", in altre parole, che la Rivoluzione fosse alle porte.

Ecco alcuni testi di giornali dell’epoca. 

IL Lamone, settimanale repubblicano, Faenza, 21 giugno 1914: "Cosa sono mai le violenze che tanto vi spaventano e che tanto orrore vi destano, di fronte alla somma di violenze che voi, tutto il giorno, tutto l'anno, perpetrate sulla pelle della povera gente, che uccidete o fate uccidere, o che depredate colle vostre leggi?"   

Il Pensiero Romagnolo settimanale del partito Repubblicano di Forlì dal 1894: “13 giugno 1914 "Il popolo italiano insorge contro la monarchia. La Romagna sulla breccia come un sol uomo". Manifesto del gruppo ravennate "l'Associazione nazionalista italiana": "Una sola è la bandiera: il Tricolore che fu dei Padri, eroi e martiri; una sola è la fede: quella della Nazione; uno solo è il metodo: la disciplina nella libertà. Al di là vi è il caos, la rovina, la morte della Patria e della civiltà. L'Italia non si arresta sulla via dei suoi grandi fati, col suo popolo ancora innumerevolmente sano ed i suoi soldati ammirevolmente forti. Viva l'Italia!"

La Voce Mazziniana [Ravenna] 21 giugno 1914 organo del Partito Mazziniano intransigente di Ravenna ""Un comizio di oltre 20.000 persone. Completa fraternità. Evviva la Repubblica!" per la quale lo spettacolo offerto dalla città ribelle era stato "superbo, commovente, indimenticabile".

In questo clima matura e si compie il canto di questo italiano peregrinante che agogna una poesia che travalichi le Alpi per una dimensione europea.