Un inedito di Dino Campana

 

di N. F. Cimmino

 

 

da: Lo Stato, Periodico politico, direttore Giovanni Baget-Bozzo

anno II - n. 9 - 3 Marzo 1961

Stamperia Tiber - Roma

 

 

Dino Campana visse fra il 1885 e il 1932, ma gli ultimi quattordici anni li passò nel manicomio di Castel Pulci : fu infatti internato il 28 gennaio 1918, mentre ancora infuriava la guerra. La sua vita fu un susseguirsi ininterrotto di sofferenze, con il male sempre in agguato, che lo rendeva incapace di fermezza e di distensione, per cui vagò incessantemente da Marradi, ove era nato e dove il padre insegnava, per l'Italia, in molti paesi europei, in Argentina ove si recò nel 1908 esercitando vari mestieri per vivere, restandovi solo pochi mesi. Un amore gli si conosce, quello per Sibilla Aleramo, ma neppure ad esso potè ancorarsi, sicché ben presto la scrittrice dovette allontanarsi da lui, dopo scene tempestose e dolorose che ferirono e prostrarono entrambi.

Pure, nell'urgere di questa drammatica esistenza, il senso ed il pensiero dell'arte furono in lui sempre presenti, ed egli considerò la sua poesia con una specie di pena, con il dolore cosciente di essere chiamato ad esercitarla e di non potere per la crudezza del destino che lo aveva voluto malato della più terribile ed angosciosa malattia. Alla poesia il Campana si preparava, seguendo l'attività delle correnti allora più vive in Europa, dal simbolismo al decadentismo; si avvicinò al gruppo della Voce e di Lacerba, e grande fu la sua disperazione allorché Ardengo Soffici perdette il manoscritto dei Canti Orfici: dovette riscriverlo a memoria, pagina per pagina.

In compenso collaborò con Lacerba, pubblicandovi alcune delle liriche del suo volume. Il suo amore per la poesia è palese perfino nei rapporti che egli ebbe con i letterati d'allora, dal Cecchi al Novaro, da Soffici a Papini. Veemente e impulsivo per carattere e per la malattia, quando egli offre la sua opera è di una umiltà dolorosa, si fa piccolo, prega con le lagrime che compaiono fra parola e parola. Scriveva al Prezzolini « Io sono un povero diavolo che scrive come sente: lei forse vorrà ascoltare. Io sono quel tipo che le fui presentato dal signor Soffici all'esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive delle cose buone. Scrivo novelle poetiche e poesia; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato; per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. ». Purtroppo se volle vedersi stampato dové farlo da sé, e i Canti Orfici uscirono nel 1914.

Da allora l'interesse intorno all'opera di Dino Campana non è mai mancato, e certo non soltanto o non tanto per il fascino che poteva e può esercitare il « poeta folle », ma perché il lettore sente che dietro le incertezze le confusioni le arditezze coscienti o incoscienti di quelle pagine v'è una natura autentica di artista. Dopo l'edizione di Marradi e quella curata dal Binazzi (fatto lui in vita, ma che non lo soddisfece molto), gli scritti del Campana sono stati editi a più riprese dall'editore Vallecchi, ed han trovato un acuto ed affettuoso critico in Enrico Falqui che ne ha curata l'opera comprendente i Canti Orfici, i Versi sparsi, il Quaderno, Taccuini, abbozzi e carte varie, insomma, tutto quanto il Campana scrisse o progettò, capace di darci un quadro esatto della sua arte e della sua cultura. In più il Falqui ha riunito in un volume a parte la sua prefazione ai Canti Orfici che, aumentata ed approfondita di edizione in edizione era ormai divenuta troppo estesa per aprire un volume : con essa si ha una storia dettagliata di come si formò, si evolse e variò nel tempo la poesia di Campana.

Ora l'editore Vallecchi ha pubblicato un Taccuinetto faentino, un piccolo quaderno di appunti nel quale il poeta raccolse le prime impressioni, le prime idee e gli spunti donde poi presero corpo le sue prose e le sue poesie. E' un materiale assolutamente inedito, difficile a trascriversi per la confusione e l'ansia con la quale il Campana prendeva i suoi appunti : il volumetto è stato curato da Domenico De Robertis ed appare con una prefazione del Falqui. Non c'è dubbio che questi inediti siano molto utili a chi voglia intendere con chiarezza la genesi di molte liriche del Campana e voglia soprattutto comprenderne il metodo di lavoro, il carattere dell'estro e della ispirazione. Pur essendo tormentato dalla follia, pur agendo quasi sempre in stato di ansia Dino Campagna lavorò con un senso esatto del lavoro di lima, con gusto deciso anche quando era sensibile alle tendenze delle correnti e delle estetiche contemporanee, con una viva e definita esigenza culturale che ne regolava l'ispirazione poetica e il senso critico rispetto alla società del tempo.

Tutto questo dagli appunti risulta chiaro, anche se talvolta la stesura definita perde in efficacia ed in immediatezza rispetto all'espressione di getto, come avviene per esempio in Faenza, l'appunto più completo e quindi più facilmente comparabile con la prosa dallo stesso titolo apparsa nei Canti Orfici. La ricerca del Campana era intesa a conseguire una espressione composta ed armonica, un ritmo quasi solenne e musicale, direi di una sostenuta musicalità nella quale alcuni critici han creduto di individuare una certa classicità dell'ispirazione di Campana, ritmo e motivo che risulta chiaro in molte poesie, come — per fare un esempio —nell'avvio della lirica Montevideo:

 

lo vidi dal ponte della nave

I colli di Spagna

Svanire, nel verde

Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando

Come una melodia...

 

Naturalmente, accanto a queste forme altre ve ne sono di vario tono e di varia provenienza, come quelle ispirate dal decadentismo cui abbiamo accennato, o quelle ispirate da un verismo acceso come Notturno teppista. Sono i tributi che il Campana pagava al suo tempo, ai poeti di lui più fortunati, quelli — per intenderci — che egli vedeva stampati. Ma si deve dire che queste non erano le forme e gli spiriti che potevano essergli congeniali, non solo perché il ritmo più comune delle sue liriche o della sua prosa non era questo, ma anche perché la sua cultura, quella cultura cioè che si avverte presente nel suo lavoro, sia esso di ricerca metrica (v'è anche questa, e vi si sentono le esperienze contemporanee, non escluse quelle dannunziane), sia di indagine delle idee.

Era come un'esigenza di ordine e di equilibrio, che gli faceva negare ogni valore al futurismo e ai futuristi e gli faceva vedere nella gioventù di Faenza la sopravvivenza dello spirito latino: « Ho letto in un libro (Montaigne, Pascal?) che i Greci conobbero tutti i simboli dell'uomo ma non conobbero l'uomo. Da ciò si deduce che la gioventù è molto più spirituale della gioventù greca.... Incontro delle belle matrone, come mai acquistano un fascino così meraviglioso? ».

Talune lettere all'Aleramo, specie se comparate alla veemenza sentimentale, all'abbondanza espressiva della donna, sono ancora una prova della pacata ed armonica obiettività che dovrebbe essere nelle aspirazioni del poeta, e che ne guidarono il lavoro di ricerca e di stile. Non è il caso ora di scendere ad un esame approfondito; tuttavia sono questi motivi cui s'è appena accennato che andrebbero considerati e vagliati nel tentativo di definire gli spiriti e le forme dell'arte campaniana. Ma proprio in un lavoro siffatto occorre andar cauti.

Non credo che il giudizio di Giovanni Papini, il quale affermava assere la valutazione del Campana più effetto del fascino esercitato dal « poeta folle » che non frutto di vera validità poetica; non credo, ripeto, che tale giudizio vada accettato in pieno. Ma un po' di vero c'è. Per essere giusti bisogna esser guardinghi nei riguardi dei biografi e dei critici del Campana, perché si sa che quando si frequenta assiduamente l'opera di uno scrittore si finisce sempre con l'innamorarsene un poco. In realtà, leggendo la produzione del Campana si prova un'impressione forte, si sente che quelle sue pagine urgono di vita, che il loro autore ha in sè un estro autentico, una effettiva e validissima carica poetica, che questa è sostenuta ed accompagnata da un orientamento culturale definito e sicuro.

Ma si sente altresì che poche cose sono del tutto belle e perfettamente conseguite; che i frammenti, pur denunziando una ispirazione autentica, non rappresentano qualcosa di concluso e di realizzato. Sono i limiti indiscutibili del Campana, che non ebbe mai il tempo di esprimersi appieno; talché si sarebbe indotti a desiderare (non per gli studiosi, ma per i lettori comuni che pur dovrebbero conoscere quella poesia) una scelta delle cose migliori, di quelle che più conseguono una espressione poetica dell'animo del poeta. Insomma una piccola antologia senza il carico di un apparato critico forse un po' eccessivo per quel non molto che il povero Campana riusci a realizzare. E chiedo scusa se mi azzardo a prospettare simile problema.