Guido La Regina, autore della serigrafia dedicata ad Arabesco - Olimpia. Foto Oscar Savio, Roma

 

 

Una serigrafia per "Arabesco - Olimpia" di Dino Campana

 

di Mario Petrucciani

 

Presentazione di Mario Petrucciani sui quaderni di Letteratura e Interpretazione Figurativa II, 3,

De Luca ed., Roma 1970

 

 

Balenante di simboli strappati alle tenebre dell'ineffabile, sospesa tra le regioni del caos e quelle dell'eden, la poesia di Campana sembra concentrare la sua vitalità fondamentalmente nella audacia con cui - più di ogni altra, almeno in Italia - combatte la sua ostinata battaglia contro l'automatismo delle comuni certezze.

Interpretando così il salto radicalmente innovatore della lezione simbolista, Campana viene a collocarsi nel punto in cui la grande stagione decadente d'Europa si apre il varco sull'anno zero della poesia pura, di cui egli resta quindi tra noi l'iniziatore, ma anche il modello meno imitabile, e il più inquietante. Perché in quel punto, mentre delinea sorprendenti anticipazioni della lettertura del 900, fino ai nostri giorni - l'erotismo, l'alienazione tecnologica delle metropoli, il rifiuto dell'ordine, Campana sceglie per sé il compito più arduo: quello del messaggero orfico.

E un messaggio che proviene dal grembo profondo di una sola ideologia totale e si manifesta per infrenabili impulsi in pause lampeggianti, come già quello antico - non importa se diverso nelle ragioni culturali e biografiche - del geniale poeta della Natura.  «In varii intervalli della sua vita errante scrisse questo libro», appuntò il Campana nella nota autografia che doveva forse servire da premessa all'edizione 1914. Ultimo figlio di Lucrezio, egli è dunque il poeta notturno che vegliano le stelle vivide nei pelaghi del cielo può, per intervalla insaniae, svelare agli uomini qualche barlume del loro destino.

Fino a qualche decennio, forse a qualche anno prima, sembrava ancora possibile una verifica della realtà in rilievi attendibili. Ma ora le linee, i volumi e le distanze dell'universo razionale sono stati investiti da un vento di contraddizioni e di smentite che ha spostato, o capovolto, o divelto i tradizionali metri di riferimento, erodendo i contorni del reale per gettare sulle cose una luce ambigua, improbabile.

Non restano - e bisogna ad ogni costo decifrarli - che pochi graffiti assurdi. Da una parte, è una processione di figure convulsamente rattratte in gesti caparbi di allucinata violenza, sagome beffarde e sfrenate, sorprese in contorcimenti paurosi; mentre dall'altra - ma in una compresenza univoca - vertiginose aperture di aerea luminosità svelano la sfera rasserenata ove passano composte e ristorate forme, «figurazioni di una antichissim libera vita». Come Campana ha lasciato scritto nella decima strofa della Notte, «addolcite da una vita d'amore» essi gli si fanno incontro a proteggerlo, sui cancelli del paradiso perduto, con il loro sorriso di insostenibile tenerezza. Ma, nell'oscillazione e compenetrazione strutturale tra i due poli, è sempre in agguato il risucchio dell'incubo, dove un vortice caotico aduna sconvolte parvenze, ora irridenti in un ghigno teppista ora abbagliate da una luce catastrofica.

Ma Campana sapeva bene che questa era soltanto apparenza. Attonito quindi di fronte al panorama scheletrico del mondo, ma soltanto perché spasmodicamente intento a captare i richiami che gli provengono da una diversa ipotesi di verità, egli doveva trovare nel suo famoso nomadismo non tanto un illusorio rimedio alla sua neurosi quanto il senso che lo sospingeva ad inseguire quelle voci:

 

Dai più lontani silenzii

Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro; la nave

Già cieca varcando battendo la tenebra

Coi nostri naugraghi cuori

 

Capofila della nuova poesia italiana, Campana è dunque l'homme révolté perpetuamente in viaggio perché si è fatto esploratore dell'altra realtà.

Questo straniamento doveva necessariamente implicare uno scarto, una anomalia innovativa delle strutture formali. Anche qui, nel ventaglio delle sperimentazioni tecniche che stavano trasformando il volto lessicale sintagmatico metrico della poesia, Campana opta per quella meno rassicurante e d'esito più problematico, se non altro perché fino ad allora aveva dato, almeno da noi, frutti scarsi e - con l'unica eccezione del Camerana - poco persuasivi: l'invenzione colore-musica.

Se entriamo nella penombra e nell'isolamento di Castel Pulci, possiamo ancora udire le sue parole ovattate di silenzio («usava voce di tono medio, mimica e gesti misurati, maniere gentili») nei colloqui col medico Pariani: «Ogni tanto scrivevo dei versi balzani ma non ero futurista. Il verso libero futurista è falso, non è armonico. E una improvvisazione senza colore e senza armonie. Io facevo un poco di arte». Voleva un verso (pur eseguibile in prosa) che fosse «armonia di colori e di assonanze», nel progetto di una «poesia europea musicale colorita» da verificare con l'immissione del «senso dei colori, che prima non c'era, nella poesia italiana». Una delle prove più alte, esplicitamente prediletta dall'autore, stampata dapprima nella «Tempra» di Pistoia, ripubblicata da Mario Novaro nella «Riviera ligure» del 25 marzo 1916 (da qui, probabilmente, la dedica al Boine), è appunto Arabesco - Olimpia.

Vi convergono gli emblemi esistenziali e i tratti stilistici che meglio connotano - nella compattezza di una sintesi paradigmatica - l'arte di Campana: la strenua inchiesta sul mistero orfico, Marradi (le «torricelle rosse»), la donna, il viaggio, la follia. Ma qui lo sgomento dell'interrogazione («perché sono spuntati... perché pensavo ad Olimpia... più a lungo sostare?») ha ceduto almeno una parte del suo affanno all'incantesimo del ricordo («la prima volta che la vidi nella prima gioventù»); e se ancora insiste il furore di convulse presenze (l'apparizione fulminea della «baccante», gli spiritati «occhi di fumo»), esso appare ora smorzato, quasi del tutto pacificato, forse addirittura disciolto nella trama, lievemente ipnotica, dei suoni e dei colori.

L'acqua corrente, la cicala che canta, la fanfara, vanno lette in una sorta di globale sinestesia semantica con l'oro, le torricelle rosse, i denti di perla, i fiori bianchi e rossi, i prati verdi, la baccante rossa, le conche verdi, gli occhi blu fiordaliso. La riprova pittorica è duplice: Cézanne, se la «capanna» è la translitterazione della Casa del suicida, Manet, se vale la conferma, dopo una breve esitazione, dello stesso poeta: «L'ho vista, l'Olimpia di Manet: è al Louvre di Parigi. È un nudo di bambina». E l'esitazione può essere psicologicamente comprensibile quando si consideri che all'immagine del quadro si sovrapponeva, in Campana, quella reale di un'altra bambina, o ragazza. Subito dopo spiegava infatti al dottor Pariani che l'Olimpia dai denti di perla della sua prima gioventù «era una ragazza di dodici o tredici anni. Un ricordo d'infanzia, la figlia di un droghiere svizzero che stava a Marradi».

Scatta così l'innesto di Berna, che conferma, secondo le risultanze della confessione privata del poeta («ci sono delle pitture, sui muri»), la sua attenzione all'arte figurativa. Ma più interessa notare che proprio sul ricordo della città straniera la composizione trova il suo centro ideativo e formale nella serratissima iunctura dell'immagine «fanfara-arabesco». Qui la riprova musicale, che ad una misurazione puramente quantitativa potrebbe apparire di ridotta estensione, rivela invece il suo fortissimo potenziale:l'identità del livello sonoro con quello pittorico e spaziale fu infatti il primo stimolo della concentrazione espressiva, come dimostrano - anche per il netto rilievo della posizione iniziale - i vv. 1-3 dell'abbozzo:

 

Fanfara inclinata

Rabesco allo spazio dei prati,

Berna,

 

gli unici tre, si osservi, che hanno fatto blocco senza subire varianti nel passaggio alla stesura definitiva.

Qui va dunque fissato il punto focale della sinestesia, l’asse portante di Arabesco - Olimpia.

Perciò sul primo segmento del titolo ha incentrato la sua interpretazione Guido La Regina. Probabilmente lo guidavano verso Campana certe affinità caratteriali, come il problema di equilibrio tra una esuberanza anche spericolata e il freno di un rigoroso controllo critico, o come l'irrequietezza sperimentale dell'autentico ricercatore. Ma all'incontro con Campana l'artista era soprattutto sospinto, a nostro parere, dal fatto che nel testo orfico ritrovava - ad altissimo livello di tensione emotiva e di decisione segnica - un modello di poetica molto somigliante a quello che aveva improntato il suo lavoro di pittore: la espressività, drammatizzata talvolta al limite della violenza, di un cromatismo mai fine a se stesso, bensì capace di captare e di significare i richiami del profondo, in modo che i corpi le forme i volumi, senza nulla perdere della loro materica concretezza, non vengono però assunti nella loro naturalistica presenza oggettiva, ma nella loro funzione di messaggio. La realtà cronistica e cosale fa sintesi con la verità simbolica.

Sono i termini di una progettazione, anche sua, di cui La Regina poteva ritrovare proprio in Arabesco-Olimpa un caso di più riuscita esecuzione in chiave, appunto, cromatico-simbolica. Meglio di altre, questa composizione campaniana sembra trarre vita da quella medesima interazione segno (registrato nello) - spazio (evidenziato dalla) - luce, senza cui non si dà pittura.

Infine, last but not least, lo attirava con forza su questa pagina l'immagine centrale, imperiosamente pittorica, del «rabesco allo spazio».

Ma di questo particolare «spazio», che è contestualmente il luogo musicale della «fanfara inclinata», era arduo - eppure indispensabile per l'interpretazione visuale - trovare l'unità di misura, il modulo: quel principio di ricorrenza che, come ha ribadito il Frye, chiamiamo ritmo in musica e modulo in pittura, ma con piena liceità potrebbe designarsi modulo della musica e ritmo della pittura. Guido La Regina, artista che alle native capacità di ingegno creativo unisce una larghissima preparazione culturale e tecnica, per aver studiosamente ripercorso le tappe cruciali della pittura contemporanea - dal post-impressionismo fino alle ricerche ultime, attraverso l'esperienza capitale dell'astrattismo - si era avvicinato di recente all'arte islamica: e quindi all'arabesco.

Nell'ipotesi risolutiva che egli propone, il «rabesco allo spazio» scandisce il suo ritmo modulare in una struttura geometrica che, fondata sulla bipolarità coloristica del quadrato minore, non si esaurisce però nella staticità del maior; imprimendo a questo una rotazione, infatti, le due immagini cromatiche si sovrappongono in un risultato unitario.

 

 

Guido La Regina, Arabesco Olimpia di Dino Campana, Serigrafia, 1970

 

Arabesco - Olimpia viene così trasposto non in linee esternamente descrittive e in colori naturalisticamente riprodotti (le comuni certezze), ma in una sintesi di pura essenzialità, conforme allo spirito più vero dello spartito campaniano.

Ed è anche la sintesi in cui è dato collaudare la fedeltà dell'artista a se stesso e, simultaneamente, al testo poetico. A se stesso, in quanto qui egli ritrova ancora una volta quel «moto reale» che uno dei maestri della critica contemporanea ha indicato come la condizione prima della sua pittura. Al testo poetico, qualora si omologhi la definizione di «poesia in fuga» formulata per Campana dal più illustre dei nostri poeti viventi: in Arabesco - Olimpia, La Regina dapprima sembra fermarla in geometrica fissità, ma poi, con la rotazione del quadrante, subito la reinveste di movimento, la fa ritornare in fuga.

 

E la farfalla?

Figura della prorompente spinta vitale raggelata nella scheletrica immobilità della morte, da Edgar Poe (per cui la stessa arte poetica è «the desire of the moth for the star») al giovane Eliot, da Gozzano a Montale, essa trascorre come emblema ricorrente e dilemmatico in gran parte della poesia moderna.

Non meraviglia quindi che ritorni anche in Campana, nell’ incipit di Arabesco - Olimpia, con entrambe le opposte e congiunte connotazioni che costituiscono la segreta natura del suo simbolo: l'oro sfolgorante della festa esistenziale, la polvere che irreparabilmente la appanna e la consuma fino all'annientamento. E se essa vuole racchiudere nel suggello della significazione figurale il destino dell'uomo, una domanda insistita da sempre, non sarà dunque casuale il suo riproporsi qui nel respiro dell'interrogazione che è il segno ultimo - ma ininterrottamente aperto - del libro di Campana: «Oro, farfalla dorata polverosa perché...».