foto di Emiliano Cribari

 

 

IL POETA ERRANTE

Un ritratto di Dino Campana

 

Le ultime notizie di lui si hanno dalle montagne della Romagna toscana

(nota autografa di Dino Campana destinata probabilmente a essere inclusa nella prima edizione dei Canti Orfici)

 

da:  Mar d’Appennino (Edizioni dei Cammini, 2022)

 

 

La prima volta che sentii parlare di Campana – frequentavo il liceo – rimasi colpito quasi unicamente dal suono del suo nome: Dino Campana. Certo, mi rapiva anche l’idea di questo paese – Marradi – che non conoscevo e che sognavo affossato in una densa fissità di castagni, e poi il fatto che il suo libro – anch’esso – suonasse così fatalmente bene: Canti Orfici. Non fui invece mai colpito dalla notizia, trita e ritrita, “facile”, della follia di Campana. Per me il genio è un barlume di lucidità.

Anche quando nasce nel buio.

Di Campana mi colpì piuttosto un altro particolare: il fatto che quest’uomo, morto giovane (dopo quasi quindici anni di manicomio), avesse scritto soltanto un libro. Lessi di getto L’invetriata – altramusica – e poi lasciai tutto cadere.

Casualmente, mi trovai a riprovarci qualche anno dopo. Sempre senza adeguati strumenti di indagine. Il suo libro mi chiamò da una bancarella dell’usato. Aveva ancora quella voce, rotonda e roboante: Orfici, diceva, Canti Orfici. Lo acquistai.Iniziai a sfogliarlo avidamente sul treno verso casa. Niente. Ancora il vuoto. Lo posai. Etichettando Campana come poeta per me «troppo difficile, troppo ermetico».

Anni dopo, però, accadde qualcosa. Non so dire se una parte di me si incrinò oppure se tutto, vittoriosamente, si adunò, accorse, per rimettersi finalmente al suo posto. Con il tempo tendo a credere più a quest’ultima tesi. Resta il fatto che dentro di me accadde qualcosa. Come a Campana. Lui però aveva quindici anni quando il meccanismo della sua (presunta) sanità si spezzò.

In quasi tutte le biografie campaniane si legge che all’età di quindici anni Dino s’ammala. Di un male oscuro e misterioso. Di una vertigine, di un formicolio dell’anima. Di un equilibrio divelto dai prodromi del caos. Fatto sta che intorno ai quindici anni Dino cambia (a Pariani, il medico che lo avrà in cura a Castelpulci, lui stesso dirà: “Dalla età di quindici anni,mi prese una forte nevrastenia, non potevo vivere in nessun posto”): si manifestano i primi disturbi nervosi. Se innescati o no da qualcosa di specifico non si sa. Si può supporre. Ne ho lette (e sentite dire) parecchie. Può darsi che non sia accaduto nulla (nulla di apparente, dico) e che Dino abbia fatto affiorare inconsciamente in superficie anni di tensioni e di carenze affettive.

Quando io miruppi – oltre un secolo dopo – cominciai a camminare. Fino a quelmomento non l’avevo mai fatto.Poi,tra i venti e itrent’anni, iniziai a dare agio all’inquietudine camminando. Prima sfiancando chilometri, spesso su strade asfaltate, eternamente attratto dal poco, dall’assente, da qualsiasi mondo periferico e sgualcito. Camminavo e coglievo fotografie. In seguito, sempre solo, fui inseguito dai sentieri. Scelsi i sentieri. “Andai nei boschi”, come scrive Thoreau. E nei boschi – guarda caso – trovai proprio Campana.

La prima volta ero sopra Castagno, all’altezza del Passo del Muraglione. Lì, tra il Valico Tre Faggi e la Capanna Citerna, svetta un anfiteatro di rocce che rivela l’infinito. Fino al mare. Quella mattina, era inverno – se chiudo gli occhi trovo un sole abbacinante – mi sedetti in cima a una rupe e cominciai a leggere: “La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie che le onde alterne del sole non riescono a diradare”. Siamo all’inizio del taccuino cheDino riempì durante il suo pellegrinaggio al santuario francescano della Verna. «Ma davvero Campana andò alla Verna?» mi chiesi. «Quindi forse passò anche da qui». Tutto iniziò così.

Tempo mezz’ora sbranai fino all’osso il suo diario, travolto da scosse devastanti di poesia. Due vagabondi: io il leggente, lui il viandante. Una goduria infinita. Mi apparve Dino Campana: in tutta la sua barbara, materica, poesia figurativa. Sudata, infangata, infreddolita. Quel giorno capii una cosa fondamentale: che Campana deve essere letto camminando, che non è semplice adattare Campana a un luogo chiuso. Serve tanta, troppa, fantasia. Per quella che è la mia esperienza, per essere compreso (ma deve essere veramente compreso?) Campana deve essere prima sentito. E per sentirlo – a me è accaduto – Campana deve essere letto andando, all’aria aperta, rischiando a ogni parola di inciampare. Sui crinali di questo Appennino o tra i carruggi di Genova, a Firenze – davanti alle case di Via Saffi, di Via Carnesecchi, di Via dei Bastioni, di Via della Fornace, di Borgo dei Greci, di Lungarno Acciaioli – o fra i binari della stazione di Bologna.

C’è – mi domando – nel mondo, un altro poeta che ha camminato quanto e come Campana? Rimbaud? Forse. Non me ne vengono in mente tanti. Allora un nuovo possibile ritratto di Campana potrebbe iniziare così: Campana iniziò a camminare nel milleottocentoeccetera. Il filtro cammino applicato alla poetica campaniana.

Da bambino capitava che Dino andasse per boschi con il padre, anche in compagnia del fratello Manlio. È proprio il fratello a raccontare quello che forse è il primo episodio agreste della vita di Dino: “Eravamo andati a fare una passeggiata insieme col babbo nostro, e a un tratto lo vedemmo sparire. Io tornai indietro, feci la strada di corsa per poterlo raggiungere e lo trovai che si era messo sulle spalle un carico di legna da ardere per alleviare un povero ragazzo che l’aveva raccolta e che lui aveva trovato stanco, spossato. Con un modo abbastanza brusco gli aveva tolto il fascello dalle spalle e se lo era messo lui, e lo stava trasportando verso la casa di questo ragazzo!”.

Io riconduco sempre a quell’età – a quei suoi fatidici quindici anni – il momento in cui Dino iniziò a transumare. Dove andava, Dino, le mattine in cui svicolava dall’edificio scolastico? Un anno ne saltò addirittura ventuno in due mesi! Sono in tanti a parlare di lui come di un ragazzo appartato e solitario, schivo e ombroso, con un libro sotto braccio in fuga verso la campagna. Lui stesso riferisce di letture divorate in mezzo ai monti per sfuggire alle angherie di cui si sentiva orribilmente vittima.

I primi monti campaniani sono quelli di Campigno, ma anche quelli di Cignato, Gamberaldi, Orticaia. Dino lassù stava bene. Rifiatava.

Sfuggito all’assalto nemico, si sentiva finalmente accettato. Cercare è la forza invisibile di chi cammina. E Dino, in montagna, cercava più che altro comprensione. Inseguendo una carezza che in fondo – ostinato e forse anche predestinato – trovò sempre nel vento.

Ma quando si parla di Campana bisogna stare molto attenti. Fare bene la tara: di ogni fonte, persino di ogni propria deduzione. Perché con lui è molto facile ingigantire o addirittura inventare. Godersi il lusso di pensare che per lui tutto fosse possibile. Anche partire da Piazza della Repubblica a Firenze e arrivare a piedi a Marradi, in pieno inverno, con la neve, “soltanto” per far rifornimento di venti o trenta copie di libri, infilarli da qualche parte e ripartire, e in pochissimo tempo – qualcuno dice addirittura in due giorni – essere nuovamente a Firenze. C’è una testimonianza (scritta) che attesta più volte Campana di passaggio alla Madonna dei Tre Fiumi: è una testimonianza cruciale, che oltre a parlarci di un Campana giocatore di briscola e bevitore di Albana, ci suggerisce anche il possibile itinerario che Dino può avere intrapreso per compiere l’impresa.

La geografia campaniana è un groviglio inestricabile di passi inesausti. Quando nel maggio del 1940 le spoglie di Campana vennero riesumate per essere deposte nella cappella di San Bernardo, Carlo Bo, osservando i grossi femori del poeta, esclamò: «Ha camminato tanto.»

Una volta mi è anche capitato di vederlo, Dino. Era seduto sotto un faggio, sul sentiero che dal Giogo di Castagno sale verso il Rifugio Fontanelle. Ma io sono timido e non l’homai avvicinato. Ci ho parlato dentro i versi di una poesia.

Io credo che la prima volta che Dino giunse nella Valle del Falterona fu proprio in occasione del suo pellegrinaggio alla Verna. Alcune note appuntate nel suo diario ci aiutano fortunatamente a capire che tipo di percorso possa avere compiuto.

Chi cammina sa bene cosa significano i nomi, i toponimi. Cosa significa inebriarsi dei suoni dei luoghi. Avere voglia di sedersi e di restare a masticarli per ore. E di chiedere a chiunque si incontri perché. Perché Cavallino? Perché Monte Filetto? Masticare toponimi come Dino masticava ossessivamente i suoi versi quella mattina in cui salì a vedere l’alba dal Monte Falterona insieme a Luigi Orsini e a Giuseppe Cicognani:

«de l’alba non ombre nei puri silenzi – de l’alba – nei puri pensieri – non ombre – de l’alba non ombre...»

Canto anch’io alcuni nomi di quel mitico viaggio: Casa Scalelle, Farfareta, Fango, Pian degli Arali, Casa Monte Onda, Ciliegioli, Castagno.

Nomi rimasti di un paesaggio passato, stravolto. Qua oggi tutto è selvaggio. Alberi e piante divorano case e sentieri.La notte è lunare, pesta, nera di un buio pesto e lunare, forse avrebbe scritto Campana. Non è più notte di poeti e viandanti. Non ci sono più porte alle quali bussare per chiedere un pezzo di pane. Dopo anni disuole sbucciate, gioco ancora a capire dove possa avere mangiato, dormito, scritto, Dino. Che camminò come brancolano gli animali. Fiutando rischi e opportunità.

Acuendo i sensi fino alla loro più aguzza sazietà. Biondo-rossiccio, occhi azzurri, barba lunga e capelli strampalati. Chi ricorda Campana parla di un vento, di un uomo che arriva e che sparisce come il vento: sempre senza annunciarsi. Sempre senza un solo centesimo in tasca. Una delle pochissime volte che gli fu pagata adeguatamente la pubblicazione di una poesia offrì da bere a tutti gli astanti (come non andare col pensiero ad Alda Merini) finché i soldi furono finiti. Un generoso, Dino. Un puro, un poeta.

Con i suoi abiti larghi e consunti, e le sue tasche ricolme di fogli e di libri, Campana era un “girovago insoddisfatto della società”, che “non voleva essere un vagabondo e desiderava un riconoscimento della sua vocazione”, come suggerisce il fotografo faentino Achille Cattani attraverso le parole di Ernesto, il protagonista di un suo romanzo illustrato.

È proprio di Cattani la fotografia più conosciuta di Dino Campana. Ce ne sono pochissime (quattro?) di immagini che lo ritraggono in età adulta. Due di queste, per mia somma gioia, lo raffigurano proprio sui monti: la prima, più nota, è stata scattata ai piedi dell’Acquacheta (qui Campana appare serio, concentrato; è seduto per terra in mezzo a quattro persone), mentre la seconda (probabilmente scattata qualche ora più tardi) lo raffigura fra l’Acquacheta e il Passo del Muraglione, sempre insieme a un gruppo di gitanti diretti al Monte Falterona.

Fu quella, probabilmente, la seconda volta in cui Campana varcò il Passo del Muraglione diretto a Castagno, dove un parroco vero – amorevole e accogliente – lo attendeva con estrema dolcezza, offrendogli un letto nella propria canonica.

La terza e ultima volta, io credo, che Campana frequentò queste zone – quelle raccontate all’inizio del mio documentario – cadde nel 1917, a ridosso del naufragio del suo rapporto amoroso con Sibilla Aleramo. Ecco, se questa narrazione fosse stata parlata, in questo punto sarebbe caduto un lungo silenzio. Seguito ancora da questo nome: Sibilla Aleramo. Altro capitolo cruciale dell’inventario delle erranze campaniane.

È il 3 agosto 1916 quando Sibilla Aleramo, una fra le scrittrici più importanti del tempo, ospite a Villa La Topaia nei pressi di Borgo San Lorenzo, sale sulla corriera che la porterà da San Piero a Sieve fino al Barco-Rifredo, dove Dino – io lo vedo, fumante sul ciglio della strada – la sta aspettando.

Rina (in arte Sibilla), da poco imbattutasi nei Canti Orfici (usciti un paio di anni prima in una veste editoriale a dir poco disastrosa), se ne innamorò a tal punto da doverlo confessare all’autore.

In quei giorni Dino era ammaccato, soffriva per una forma di paresi alla parte destra del corpo. Ma le parole,sisa – certe parole – hanno anche il potere di guarire.

Penso al viaggio convulso di Sibilla, ai suoi occhi incollati al finestrino polveroso e abbagliato dal primo sole agostino.

Penso a Dino, a ciò che aveva passato (i ricoveri in manicomio, gli arresti, i continui ritorni a Marradi).

Mi piace pensare – io ne sono intimamente certo – che la prima cosa che Dino e Sibilla fecero insieme fu camminare. Scesero a Badia di Moscheta e da lì – incuneatisi nelle strette striscianti della Valle dell’Inferno – salirono a Casetta di Tiara. Altri nomi da gustare, da perquisire minuziosamente camminando: Valle dell’Inferno, Casetta di Tiara.

Ciò che avvenne in quei giorni – la passione divampata e tutto il resto – è storia largamente nota. Rimpastata (più o meno abilmente) da film, libri, opere teatrali. Imboccata da un bellissimo epistolario. Dentro il quale è Sibilla, prima ancora che Dino, a dirci quanto (e in certi casi anche dove) i due abbiano camminato, su e giù per l’Appennino.

Sia verso Palazzuolo (in una lettera viene citata la Bastia, oggi Cimone della Bastia) sia intorno alla Lastra, lungo l’ipnotico Rio Rovigo.

Cosa fosse la montagna per Campana ce l’hanno suggerito – talvolta magistralmente – molti autori. Da Gianni Turchetta a Stefano Drei, fino a Giovanni Cenacchi, poeta, autore di un libro – I monti orfici di Dino Campana – vestito di una rara delicatezza letteraria.

Tanto è già stato detto.

Io penso che la montagna (ma anche la campagna) sia stata per Campana essenzialmente un rifugio, un ricovero – sicuro ma provvisorio – per l’anima martoriata dalle offese ricevute tanto quanto dalle proprie ossessioni. Il luogo dove andare a rimettere in sesto la parte spezzata della vita, soprattutto quando i pezzi dispersi fra le macerie appartenevano alla poesia. Non a caso è in montagna – fra le rupi di Campigno, oltre che nella soffitta della casa in Via Pescetti 1 a Marradi – che Dino si ritira per riscrivere il suo libro (non a memoria come si è scritto troppo spesso in tono epico, ma facendo in gran parte leva su fogli conservati chissà dove e chissà come), dopo lo smarrimento del manoscritto originario per opera di Ardengo Soffici.

Io penso che Dino in montagna sia stato felice. Che la luce di cui parla Sibilla in una sua lettera pura e struggente sia sì la luce dell’amore, ma anche la luce del cammino, la luce dell’Appennino.

Dino camminava per conclamata impossibilità di stare, siamo d’accordo. Ma camminava anche perché la sua poesia – a differenza di tanta altra poesia – è una poesia atletica, polmonare, che ha occhi grandi così.

Occhi spalancati che chiedono musica e parole.