SAGGI RELATIVI A “LA VERNA”

 

LA CONCA ROCCIOSA DEI VENTI (La Verna, Ritorno 8, 41)

 

di Silvano Salvadori

 

 

Ci sono dei luoghi che fungono da giunto cardanico di un’intera esistenza: tale fu per Dino la valle di Campigno ed in particolare quel profilo di monte in fronte alla chiesa che è conosciuto come Riva Bianca.

I critici letterari a volte son visitatori un po’ frettolosi e preferiscono le scrivanie di noce alle lastre di pietra, poco adatte allo scrivere meditabondo. Ma se avessero un taccuino, un lapis e un buon paio di scarpe potrebbero non accontentarsi del panorama da lontano, ma scendere ai fossi e superare qualche aspro sentiero per ritrovarsi soli sotto la linea dell’orizzonte nel cuore diveniente dell’erosione rocciosa; laggiù con i massi in bilico sulla testa per capire quella dinamica che è sottesa all’eternità delle montagne e che Leonardo ha indagato nei suoi appunti.

Giovanni Cenacchi ha tentato per primo questa via, meglio questo sentiero, pensando però più agli alti sospiri dei crinali; io tenterò invece di portarvi nelle forre, che comunque in questi ultimi cento anni hanno anche loro maturato una storia umana di trasformazioni.

La Riva Bianca è l’ultima propaggine, fatta a zampa, di una montagna alta e colma di foreste; il fiume le corre quasi intorno, la incalza.. in curve regali, provenendo dal Mulino, aggirandola e producendo una serie di vele triangolari corrose alla base; cinque per l’esattezza di cui la centrale è la Riva, Questo fatto ha procurato i sovrastanti franamenti che evidenziano gli strati di rocce su strati di cui tali montagne sono composte; starti alternati di ricorsi di rocce più compatte e cubiche e di altre più inconsistenti e franose. Se l’andamento della frana è in linea parallela con i punti di discontinuità dei massi, ci appare una frangia compatta di roccia; se, per la concavità dell’andamento serpeggiante del fiume, questa è diagonale, le rocce ci appaiono con le loro punte sghimbesce a formare una serie di denti di drago.

La gravità della materia produce una particolare inclinatura del pendio franoso, così come la si produce sui monticelli di sabbia, secondo quei gradi che gli stessi egiziani hanno adottato per le loro piramidi.

Se noi risaliamo il fosso di fronte a Campigno troviamo che qui esso attraversa uno strato fortemente roccioso e lo ha scavato lasciando in vista in alto il pentagramma di quei tempi arcaici, lunghi come le ere geologiche, in basso le fondamenta a similitudine dello stilobate dei templi.

Ma qui la sensazione quasi rammemora i Maja e gli Egizi.

Tutta la grande Riva vista dal basso è come un’immensa piramide, con gli stessi blocchi di pietra gradonati sui profili, fino su a stagliarsi nel cielo con un piramidone in bilico sulla vetta: una piramide mangiata nel ventre a rivelar chi sa qual’anima sepolta. Per Campana vi era sepolta (e se ne era involata?) certo l’anima dei venti!

O forse era l’otre di Pandora, la grande conca archeologica rotta di un Paradiso perduto, allorché gli uomini lasciarono la loro vergine vista per infangarsi nel disonore della vita sociale?

Lo stesso sgomento ci prende, come se da quella montagna scendesse il valico su cui furono pellegrini i progenitori dopo il peccato: là dove la montagna piomba: sul gorgo il cielo è ancora in alto latteo azzurrino. Sì, abbiamo lasciato un paese materno dove scorre latte e miele e di piombo si son rivestiti i nostri passi prima leggeri; ma Campana fa un pellegrinaggio a ritroso per riconquistare alla Verna questo giardino dello spirito, perduto.

Alla sua base, che un tempo aveva d’ acqua il suo piedistallo, oggi non vediamo più la zanna del leone (o proseguendo il nostro paragone potremo dire la lama sguainata dall’angelo), divenuta di roccia, contro il cielo, mentre sotto nell’ombra l’acqua lambisce lo sbrano della ferita e quasi sgorga ancora come il pianto di tutta l’umanità. Eppure in quell’ombra, accanto a Masaccio, abbiamo iniziato il cammino.

Dalla roccia cola un filo d’acqua in un incavo; e riposa l’anima mia. Sbrrrr: balzo in piedi. Una forma nera cornuta mi guarda tra le roccie con occhi d’oro.

Campana dice: una costa alpina che scende al fiume e getta sull’acqua il suo piedistallo come la zanna del leone…. lasciando l’alto scenario pastorale di grandi alberi e colline.

Il leone nell’iconografia è simbolo della morte e un dio qui sembra averne spalancato le fauci, come fece Sansone.

Su quel cammino il nostro destino fuggitivo dai lontani miraggi pur trova consolazione in un canto, nel ritmico melodico scandirsi di un tempo che fugge l’eternità perduta: il canto della Poesia che ghiaccia nella roccia i flutti di un periglioso mare (lunghe onde di un ..coro saliente a lanci la roccia trattenute ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno petroso (roccioso in LG) le rifondeva allungate, perdute).

Se per Noè fu l’arcobaleno a sancire la pace fra il cosmico Dio ammantato di Caos e gli uomini, per Campana qui è l’arco solitario e magnifico teso, porta serrata al di là della quale il dio divenuto benevolo nella creazione starà in ascolto ancora di quei canti: al suo gigantesco orecchio arriverà l’eco di essi, dopo vari rimbalzi e quindi allungati e fusi nel suo padiglione (eco che nel seno roccioso le rifondeva allungate) e questa volta saremo noi a dare a Lui la consolazione che di essi popoleremo la terra, nuovi Orfei.

 

Ecco le roccie le costruzioni colossali, strati su strati monumenti di tenacia solitaria che consolano il cuore degli uomini; e dolce mi sembra il mio destino fuggitivo al fascino dei lontani miraggi alzando gli occhi alla rupe a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocce all’agguato dell’infinito, io non ero non ero(,) rapito di trovare nel cielo luci ancora luci; e mentre il tempo fuggiva invano per me: un canto; le lunghe onde di un triplice coro, salienti a lanci la roccia trattenute ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno roccioso le rifondeva allungate perdute.

 

Dicevo, oggi la sensazione ai piedi della Riva, pur grandiosa, è sminuita dalla costruzione della diga nel varco verso la valle.

Subito dopo la guerra infatti il parroco di Campigno, don Aurelio Chiari, costruì una grande ruota su cui, tramite un condotto, cadeva l’acqua per produrre la corrente elettrica per il paese. In seguito sempre sul varco è stata costruita una grossa briglia con file sovrapposte di grossi massi, oggi restaurata e rafforzata.

L’impatto a valle è altamente scenografico. Ai piedi della Riva invece si è formata una vasta pianura per il deposito dei detriti e l’ampia curva del fiume si perde in vaghe diramazioni. La grande piramide concava ha perso il ruggito sull’acqua anche se è ancora sorprendente il suo palato ferino in alto verso il cielo, crinito d’azzurro pulverulento.

 

 

RIVA BIANCA

Vorrei precisare una proposta interpretativa della prof Ceragioli relativa a Campigno, che forse deriva da non aver ben visitato il luogo.

Ne “La Verna”, Ritorno, penso che la poesia iniziale sia quasi interamente ispirata all’esperienza di Campigno, che è quella più vissuta e ripetuta da Campana, anche se certo vi si condensano altre immagini.

Vi si parla soprattutto di valle. Anche se titolo che precede è salgo, in realtà il poeta scende verso la valle, ma il suo spirito confortato dal ritorno sale, o sale la vista, sempre partendo dal fondovalle verso le alture (acqua-rocce-vento-nuvola); è la lunghissima valle che sale in scale verso di lui, partendo lo sguardo dalla lontananza della “foce” per salire dove lui è.

Monte Filetto e Valdarvè (che sarebbe il dialetto di Val di Rovino) sono due posti contigui e in fronte e a monte di Campigno allorché ci si avvicina scendendo la valle lungo il suo fosso. La successione dei luoghi del ritorno è sì quindi una successione di pure memorie, ma qui la memoria evocata è la Falterona perché nella: poesia – Campigno barbarico – Monte Filetto – Campigno – il mulino, sono tutti nella stessa valle che è quella che, varcando il monte Peschiena, dà il senso di condurre a casa e di stendersi giù verso la Romagna.

Se così è nella poesia è giusta l’individuazione della frana nelle Scalelle e l’evidenza di starti di rocce su strati è quella della Riva Bianca in fronte alla chiesa; allora la casetta di sasso sarebbe quella della vallata di Val di Rovino che sfocia nel mulino accanto alla Riva Bianca.

Non so se la Prof.ssa Ceragioli è stata a Campigno; quando egli dice: E le tue rive bianche come le nubi, triangolari, curve come gonfie vele, non può riferirsi “ai bordi che individuano il paese”; Campigno non è un “paese”, ma un insieme sparso di piccoli aggregati che non hanno geometria evidente nel verde.

Qui ancora credo che tue rive bianche stia per la grande onda concava triangolare della Ripa (o Riva) Bianca che fa da sponda (anche se dalla parte opposta) al “paese”; e curve come gonfie vele dà il senso del volume appunto della Riva e non mi sembra avere un significato lineare piatto o tutt’al più appena convesso se riferito al paese.

Ma oltre la grande Riva gli altri promontori susseguenti della stessa montagna che scendono al fosso di Campigno presentano le stesse corrosioni, formando così altre cinque, sei vele bianche minori.

Campana sente come il vento sospinga questa “vela” di roccia di cui quasi nocchiero è lui che guarda: l’albero è il fiume e il paese è a poppa. Tutta questa visione è un movimento.

Forse sto un po’ esagerando, ma anche la testimonianza del cugino Pietro Cappelli testimonia il suo amore per la Riva Bianca e tutti i campignesi ne sono innamorati ed orgogliosi l’additano a chi vi si reca (il suo incombere – per la concavità non vi piove sotto la punta- è veramente un incubo del caos; e più tardi l’immagine ritorna amalgamata come “concavità femminile” in Catrina, bizzarra figlia… della conca rocciosa dei venti).

Se così non fosse, comunque questa immagine si somma, entra dentro come suggestione all’altra interpretazione della Ceragioli; l’importante è che l’ambiguità fruttifichi!

 

ANCORA SULLA RIVA

Alla riga 2, 27, nel ricordo di Campigno, la roccia a picco altissima che si stagliava in un semicerchio dentato è la Riva Bianca in fronte alla chiesa, che globalmente si presenta come un arco solitario, essendo l’unico affioramento evidente degli strati rocciosi sovrapposti: ammucchiamenti inquieti di rocce perché mosse in frammenti di spigoli alternati.

Il poeta si trova in basso, così che la Riva mostra il suo arco…. teso a causa della forza catastrofica dei sommovimenti geologici e da questa posizione essa, in scorcio, si staglia nel cielo crepuscolare di color violetto.

Le seghettature delle rocce al contorno della Riva formano quasi una bocca (in altro luogo, sempre per Val di Rovino, al cui termine c’è appunto la Riva, ha detto zanna di leone 10,13) che sembra aggredire all’improvviso (agguato) l’infinito; e la bocca aperta, in basso, avrebbe i canini.

In LG rammenta la leggenda che Campigno si chiami così per il “caro pegno” lasciato dalla regina Matilde: una croce di brillanti, testimonio delle sue lacrime…. nella chiesa in faccia a la riva. Ed ancora qui riva è la Riva Bianca.

Ma dalla chiesa la Riva non appare come alla riga 27 perché ha ancora sopra le foreste dei monti. Campana ricorda estasiato il suo essere sceso a guardare dal basso questa sorta di ventre- abbraccio della terra.

A duecento metri dalla Riva c’è il mulino di Campino ed anche se se ne parla dopo le soppresse Scalelle, l’immagine del fanciullo e della gora potrebbe essere di qui; altrimenti sarebbe il mulino della Trappola più a valle (ma di esso, passandovi, è meno evidente la gora).

Le rocce delle Scalelle oggi nascoste dagli alberi della riforestazione, dovevano a quel tempo essere veramente il profilo della testa crinita di un cavallo titanico che s’impenna.

L’immagine del Conte Lando è sinistra nell’apparizione in quanto manigoldo e punito dalla montagna. Ma la montagna accanto a questo fatto storico del 1358 è protagonista, questa volta pietosa (pia), di una leggenda. In LG chi non conosce i fatti può intendere che la madre ricordata sia quella di Lando, mentre il fatto leggendario che qui si racconta è un altro. Matilde di Canossa, passando in questa zona, vi perse un figlio e allora volle donare alla chiesa un “caro pegno”(da cui Campigno): una croce di brillanti in cristallo di Boemia tempestata di grosse e preziose gemme (in D. Giovanni Mini “Marradi”, Castrocaro 1892; pgg 97-98). I due fatti opposti di storia e leggenda si mescolano nelle sensazioni provate al drammatico aspetto della montagna.

Questa storia di Marradi uscita negli anni di formazione di Dino contiene anche questa nota sulla Riva Bianca: “Rimpetto di questa chiesa s’innalza un’altissima montagna, corrosa al basso dal torrente omonimo, accessibile soltanto nei fianchi, e di salita più aspra e malagevole. Proprio di faccia alla Chiesa essa offre le scabre appuntite sue viscere in un’orrida concavità dentellata orizzontalmente da macigni, che restarono spogli forse per iscoscendimento, degna di essere visitata dagli amanti di geologia”.

La dove dice: Giungo dove la montagna piomba si riferisce ancora alla Riva.

La Ceragioli pur ricordando l’evento della frana alle Scalelle nel 1890 (ma è del 97) non lo lega ad un probabile grande impatto che questo portò nell’infanzia di Dino.

Per un ragazzo che a quell’età sente dire ( e forse si reca a vedere coi genitori) di questo catastrofico caos che chiuse il fiume, provocando la morte di persone sommerse con le loro stesse case dalla piena; continuare a vederne anche dopo anni gli enormi massi e le case in mezzo all’acqua (ancor oggi si vedono tracce di fondamenti nel letto del fosso), deve aver certo dato a lui il senso delle forze immani imprigionate nella montagna. (Forse non è estranea a questo evento della sua infanzia la fissazione di Dino in manicomio che si attribuiva la possibilità di provocare terremoti?!.)

Fra l’altro esiste un testo pubblicato sul tragico evento di autore anonimo, ma che quasi certamente lo si potrebbe individuare con lo zio Torquato, con foto dell’epoca e ripubblicato nella Storia di Marradi. Quindi lo zio è il cronista e l’esperto di questo caos della montagna e certo deve averlo comunicato a Dino con un trasporto particolare.

“Paese”, dice di Campigno, nel senso di paesaggio esteso come una patria, non nel senso di borgo.