Maurizio Pallante

 

 

I Canti Orfici di Enrico Tallone

 

di Maurizio Pallante

 

 

Ringrazio Maurizio Pallante di avermi autorizzato a pubblicare questo suo articolo, che ricorda in diretta la pubblicazione dei Canti Orfici da parte di Enrico Tallone.

 

L'Ortica, n. 77 di Gennaio-Marzo 2000 

 

 

Recentemente Enrico ha ristampato a mano il Libro, carattere per carattere, parola per parola. (paolo pianigiani)

 

 

Dopo aver inutilmente tentato di inserirsi nel gruppo di letterati che si radunava presso il caffè delle Giubbe Rosse a Firenze - Soffici, a cui aveva dato in lettura la sua raccolta di poesie Il più lungo giorno non solo non la lesse e non lo aiutò a trovare un editore, ma smarrì il dattiloscritto - Dino Campana nel 1914 si risolse a pubblicare a sue spese presso uno stampatore di Marradi la nuova stesura delle sue poesie, a cui diede il titolo di Canti Orfici.

L’edizione fu tirata in cinquecento copie e distribuita in proprio dal poeta, che del resto, in uno dei suoi soggiorni torinesi, per sbarcare il lunario aveva fatto lo strillone di giornali. Alcune copie le inviò, come si fa, a critici e giornalisti, ma non risulta che qualcuno si sia preso la briga di scrivere una recensione. Altre le piazzò, per lo più fortuitamente, a qualche ignaro passante che non seppe, per pietà o per paura, dire di no allo stralunato sconosciuto con lo sguardo allucinato e l’abbigliamento da barbone che gliele offriva. Poche copie finirono nelle mani di alcuni intellettuali che aveva braccato andandosi ad appostare nei pressi dei luoghi, a lui interdetti, dove si incontravano. Per di più, non tutti i volumi venduti passarono integri dalle mani del venditore ambulante – e abusivo – alle mani del più omeno consenziente acquirente, ché Campana spesso, accampando a motivazione l’impossibilità del suo interlocutore a capire qualche poesia o, verso, o frase, prima di consegnarli provvedeva a strappare pagine o a cassare righe fregandole con un chiodo (specialmente il sottotitolo Die Tragödie des letzten Germanen in Italien, che nel corso della prima guerra mondiale non suonava tanto bene...).

Come sia, la tiratura, che era limitata, si esaurì, o, quanto meno all’autore non ne restarono molte copie. Quando poi nel secondo dopoguerra, a partire dall’edizione riveduta e corretta che Enrico Falqui ne fece negli anni Cinquanta, la fama di Campana crebbe, i pochissimi esemplari superstiti presero i canali delle librerie antiquarie e sparirono in qualche biblioteca privata. Così la conoscenza della poesia di Dino Campana rimase affidata all’edizione di Falqui, che da buon professore, prima di pubblicare l’opera di un matto dagli studi irregolari e di scarsa cultura non solo letteraria, ma anche grammaticale e sintattica, si era dato da fare con la matita rossa e blu correggendo errori e ripristinando le regole laddove erano state infrante.

Un oltraggio post mortem, dopo quelli in vita, da parte della cultura ufficiale nei confronti di un irregolare. C’era poi stata una tarda resipiscenza da parte della successiva generazione di letterati e negli anni Settanta, Silvio Ramat aveva curato una nuova edizione dei Canti Orfici più rigorosa filologicamente. Ma la sua circolazione non era sostanzialmente uscita dall’ambito degli specialisti ed era ben presto diventata introvabile.

Così va il mondo. Ma accanto a questo regolare fluire immutabile, persiste un flusso irregolare altrettanto immutabile. Una sorta di controcanto, certamente più tenue, tanto più sottotono quanto più l’altro è gridato. Se quello lo sovrasta e lo rende impercettibile ai regolari, non basta però a soffocarlo a sufficienza che gli irregolari non riescano comunque a sentirlo, rimanerne ammaliati, desiderare di propagarlo nel tempo. È così che a settant’anni dalla prima edizione dei Canti Orfici presso un modesto tipografo estraneo ai circuiti editoriali e culturali, più a suo agio con manifesti annuncianti fiere di paese e cartoncini di nozze che con i libri, nel 1984 l’editore e stampatore Tallone, l’unico al mondo che continui a fare i libri componendoli con i caratteri mobili e stampandoli su carte a mano, ha deciso di farne una sua. Il suo atelier, una casa bottega rinascimentale, si trova ad Alpignano, un paese della cintura di Torino al limitare della Val di Susa (dove, a pochi chilometri di distanza, in un albergo tra Rubiana e Almese, Dino Campana visse per qualche settimana una tempestosa storia d’amore con Sibilla Aleramo). Qui nel 1956 Alberto Tallone, dopo aver lavorato per un ventennio e raggiunto la notorietà internazionale a Parigi, trasferì la sua officina tipografica nel parco di un’antica proprietà familiare. A Parigi, prima di mettersi in proprio, aveva imparato il mestiere negli anni Trenta da uno dei più importanti stampatori francesi, a cui era stato indirizzato con una lettera di presentazione proprio da Sibilla Aleramo.

Dopo un decennio di attività ad Alpignano, Alberto Tallone fu costretto a difendere con tutti i mezzi il terreno su cui aveva fatto costruire la sua stamperia dalla speculazione edilizia che voleva attraversarlo con una strada, violando il limen che lo isolava dallo sviluppo urbanistico in corso e dal fluire del tempo. La strada si fermò, cieca, sulla recinzione che delimita un lato della proprietà, per ricominciare, cieca, con lo stesso nome dalla recinzione sul lato opposto. Così egli riuscì a salvare l’integrità del luogo in cui nello svolgimento del suo lavoro era guidato dalla stessa consapevolezza del valore insito nell’invenzione umana «sopra tutte le invenzioni stupende», che nel Dialogo dei massimi sistemi fa esclamare Galileo-Sagredo: «Qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta».

Non navigava certo nel flusso della corrente Alberto Tallone, componendo in pieno sviluppo industriale libri con i caratteri mobili, accostandoli nelle righe uno a uno, cercando di spezzare le parole il meno possibile negli a capo (non per un vezzo narcisistico, ma nella consapevolezza della loro sacralità); impaginando le forme tipografiche in modi sempre diversi alla ricerca di sottili corrispondenze tra il carattere, il suo corpo, il formato della pagina e il testo; usando carte fatte a mano, di puro straccio, senza cellulosa né sbiancanti chimici; facendo tirature limitate perché la tensione creativa non può rimanere intatta troppo a lungo; utilizzando macchine da stampa lente per controllare la qualità dell’impressione su ogni foglio. Certamente nel periodo in cui l’editoria cominciava a diventare un tassello importante dell’industria culturale e la quantità soppiantava, in questo settore produttivo come in tutti gli altri, la qualità, Alberto Tallone era un irregolare come Campana. Che non ne patisse le conseguenze nella stessa misura della maggior parte degli altri irregolari, dipendeva solo dal fatto che la buona borghesia vedeva nei suoi libri un ottimo investimento.

Negli anni Ottanta una serie di circostanze imprevedibili e, a posteriori decisamente improbabili, mi condussero a lavorare ad Alpignano e ad abitare per un decennio in una casa vicina alla stamperia Tallone, dove nel frattempo al fondatore Alberto erano subentrati i figli Aldo ed Enrico. E fu Enrico, nell’estate del 1985 a raccontarmi che stava preparando un’edizione dei Canti Orfici. La composizione a mano con i caratteri mobili, era stata effettuata sull’edizione Falqui ed era quasi completa. Però non era soddisfatto a causa delle pesanti correzioni apportate al testo originale, e desiderava consultare l’edizione Ramat per fare un lavoro più valido filologicamente. Ma nelle librerie non l’aveva trovata. Così in una caldissima giornata di luglio mi chiese di accompagnarlo a Torino a cercarne una copia nella biblioteca civica o alla nazionale. La prima che consultammo fu la Civica, ma nello schedario non ce n’era traccia. Poiché conoscevo bene il direttore, un bibliofilo raffinatissimo e coltissimo, chiesi di lui, ma non era in ufficio. La segretaria ci disse che sarebbe arrivato intorno all’una. Sicché andammo alla Nazionale, una delle tre in Italia a cui gli editori devono per legge inviare una copia di tutti i libri che editano. Tuttavia, anche lì non c’era. Anche in questo caso cercammo il direttore, che rimase profondamente imbarazzato di quella carenza svelatasi impietosamente davanti a un così importante editore stampatore. Ne approfittarono immediatamente le sue impiegate per sottoporgli in nostra presenza richieste di permessi che egli in quella circostanza non riuscì a esimersi di firmare.

Uscimmo dalla Nazionale in una piazza deserta e abbacinata dal sole. Tentammo allora la strada delle bancarelle e delle librerie di libri usati. Se anche questo tentativo fosse fallito, saremmo tornati all’una alla Civica per parlare con il direttore. A Torino ci sono due postazioni fisse di bancarelle di libri che ispezionammo scrupolosamente senza trovare nulla. Identico fu il risultato nelle librerie dell’usato. Con la speranza che si affievoliva in misura direttamente proporzionale al crescere del caldo, facemmo l’ultimo tentativo. Il direttore della Civica ci accolse con molta cordialità, ma ci disse che non poteva esserci utile. Conoscendo la sua cultura e la sua competenza di bibliofilo cominciavo a pensare che Campana dovesse rassegnarsi a subire anche nell’edizione Tallone le correzioni che gli aveva inflitto Falqui. Accomiatandoci, sulla soglia il nostro interlocutore avanzò, senza nessuna convinzione, il suggerimento di fare una visita alla Biblioteca della Provincia. Ci disse che non sarebbe servito probabilmente a nulla, perché si trattava di una biblioteca specializzata in cui venivano raccolte tutte le pubblicazioni sulla provincia di Torino e le sue valli: storia locale, economia, geografia, flora e fauna, tradizioni, folklore, viabilità, industria
e artigianato. Tuttavia, in una sezione era stata raccolta la biblioteca di oltre 30.000 volumi che erano appartenuti al bibliofilo editore fiorentino Marino Parenti. Alla sua morte il presidente della Provincia in carica, per chissà quale ragione razionalmente incomprensibile, aveva deciso di farla acquistare dall’Istituzione che dirigeva per impedire che si disperdesse sul mercato antiquario. «Forse - ci disse – in quel fondo potreste trovare qualcosa che possa esservi utile». Lo ringraziammo e decidemmo di fare quell’ultimo tentativo prima di tornare a casa.

La Biblioteca della Provincia di Torino ha sede al piano terreno di un antico palazzo signorile, con alte ampie stanze dai soffitti a volta, boiseries di legno scuro e grandi armadi sulle pareti che la fanno somigliare a una sagrestia. Passare dall’assolato pomeriggio torinese in quei locali in penombra, dal rumore della città al silenzio, fu come entrare in un’altra dimensione spazio-temporale. L’addetto a cui formulammo la nostra richiesta ci confermò che quella non era la sede in cui cercare un libro di letteratura, ma che avrebbe fatto un tentativo consultando lo schedario del fondo Parenti. Sparì dietro una porta e dopo qualche minuto tornò con due copie dell’edizione originale dei Canti Orfici stampata a Marradi nel 1914. Enrico ed io rimanemmo annichiliti come davanti a un’apparizione. Qualche tempo dopo scoprimmo che di quella edizione sono rimaste soltanto sette copie, tra cui le due che tramite il cortese bibliotecario Dino Campana consegnò nelle nostre mani quel pomeriggio di luglio del 1985. Una di esse, che egli aveva inviato a Bellonci, uno dei più importanti critici dell’epoca, chiedendo una recensione, aveva le pagine ancora intonse. Nell’altra almeno erano state tagliate e su di essa fu composta l’edizione talloniana. Come non credere che ancora una volta Campana avesse percorso strade inusuali e si fosse celato in un luogo appartato in cui nessuno sapeva che fosse, aspettando con la fiducia assurda dell’alienato l’editore che finalmente gli avrebbe reso giustizia, non solo rispettando il suo testo, ma ristampandolo in modo tipograficamente straordinario e inserendolo in un circuito che lo renderà anno dopo anno sempre più prezioso nei secoli?

 

                                                                                                              Maurizio Pallante

 


 

Enrico Tallone, stampatore

 

 

Non certo la fragile forza del bosso

o del leggero ligustro, ma la sacralità

d’un limen oltre il quale i tuoi gesti

antichi purificano il sublime dell’uomo

dai limiti dello spazio e del tempo,

ha pietrificato l’avanzata delle delibere

programmatiche dei pianiregolatori.

Brucia e consuma fuori - vampe di fiamma

e cenere in sequenze frenetiche -

ma l’Ûβρις s’arresta sul limitare

del lungo viale alberato, anabasi

che rende bianca la notte baluginante

di cristalli sui rami protesi, verde

tenero di gemme e vita nuova

che non sei mai lo stesso a percorrere

- diverso ogni volta ti portano i passi,

ogni volta qualcosa di te s’è disperso -

mentre nell’atelier che in fondo intravedi

su morbide carte ripiegate e raccolte

in un guscio, il lungo studio e ‘l grande

amore suggella parole che chi sa dove

e quando nel mondo si sveleranno

a chi saprà coglierne

il richiamo impalpabile.

(Ricordi quell’abbacinante e deserta

mattina di luglio a Torino anni ottanta

in cui l’allucinato visionario struggente

Dino Campana da Marradi

ci deviò dalle strade maestre

che non erano mai state le sue

e da un indizio improbabile

ci condusse dove s’era celato

per metterci in mano un suo libro

intonso dal millenovecentoquattordici?

Sul frontespizio un inascoltato messaggio

Egregio signor Bellonci, diceva,

La prego di considerare l’invio

di questo libro come un omaggio

di stima. Le sarei obbligato se volesse

leggerlo e occuparsene sul Giornale.

Vivo ora in solitudine in Sardegna

e una testimonianza da parte

Sua sarebbe per me la cosa più

      CANTI ORFICI

grata e più incoraggiante

nelle mie non piccole miserie.

Perdoni questo de profundis

e voglia credermi di Lei devmo.

Per le tue mani ora rivive in una purezza

tenera come il suo sguardo sul mondo).

 

settembre 1987