FRANA DELLE SCALELLE A GAMBERARA

 

POESIA E GEOLOGIA IN DINO CAMPANA

 

di Silvano Salvadori

 

 

Ci sono quattro righi nella Taccuino Matacotta che sono gli unici a non essere un tentativo poetico e non si capisce quale urgenza abbia spinto Dino ad appuntarli fra tante tormentate ricerche di lirismi.

Recitano (p. 74-75):

Coll’amico geologo avevamo discusso a lungo sull’instabilità delle montagne osservando la posizione i torrenti allo stato corrosivo.

Geologicamente non essendo la montagna interessante (interamente?) pelata rabbiosa stratificata di macigni fermi al posto

Sembra l’incipit di un discorso scientifico che riflette e vuol rendersi conto della rabbiosa capacità distruttrice dei torrenti sulle instabili montagne.

Come non ricordare allora quanto accadde a Gamberara nel 1899 allorché la montagna delle Scalelle, più volte ricordata da Dino, rovinò per le acque producendo l’ostruzione del fosso di Campigno e la morte di varie persone?

Dino era poco più di un ragazzo e certo si recò a vedere questa immane tragedia, come fecero in molti e che è testimoniata da varie fotografie.

Ce la racconta in una ampia cronaca assai viva e quasi cinematografica, anche se non priva di adulatoria retorica, un “anonimo” marradese; se poi si suppone, con buona certezza, che questo marradese non sia altro che lo zio Torquato Campana, avremo ben chiaro quanto questa vicenda agì sulla psiche del nipote.

Fra l’atro Torquato appare come “cassiere” nell’elenco della commissione che gestì la raccolta delle 235 “offerte raccolte per soccorrere le famiglie povere del Comune di Marradi colpite dai disastri dell’Aprile 1899” (dai documenti pubblicati dal blog della Biblioteca di Marradi).

Il racconto della tragedia mostra un linguaggio forbito per termini e ricercatezza sintattica, qualificandosi come un compiaciuto saggio di commovente retorica. Non dovevano essere in molti a Marradi a poter accorrere così celermente sul posto e disporre istintivamente di tali mezzi linguistici; chi scrive non è un rappresentante del clero né dell’Amministrazione comunale e forse tradisce la sua professione in quell’osannata esaltazione del ruolo del maestro (qui per la cronaca si fa invito alle maestre): ”Volesse il Cielo che tutte le maestre dei nostri villaggi, all’istruzione mandassero misti anche gli esempi di educazione morale … In quel giorno soltanto potremo salutar cordialmente e applaudire all’istruzione rurale.”

Il testo viene dato alle stampe per riconoscere i meriti della famiglia Bernabei, quella che possiede la maggior parte delle terre di Campigno.

La montagna si presentò per molti anni dopo tale fatto pelata rabbiosa stratificata di macigni fermi al posto e, anche se oggi è ricoperta da vegetazione, ai tempi di Dino mostrava il suo profilo di rupe ..che s’avanza a chiudere la valle,… crinata di roccie come la testa di un cavallo.

C’erano qui dei massi ancora prima dell’ultima guerra così accatastati e giganteschi che sotto alcuni si potevano perfino riparare le greggi. Un sogno catastrofico, ormai, li ha coperti di muschi, domati dalla selva di aste inalberata dalla natura; sembrano serrare un cuore memore delle stesse “dolorose memorie” ricordate da Torquato. Un lontano dolore che le acque hanno coperto, pur raccontandolo ancora:

Il lontano ammonimento/Del fiume nella valle/E la rovina del contrafforte la frana/La vittoria dell’elemento.

E già nella cronaca dello zio “Eccoci a Campigno. Le case dei poveri furono aperte ai fratelli”, il paese mostra il suo volto benevolo ed umano, di arcaica ospitalità.

Ma certo il racconto insiste sul “tristissimo spettacolo” di “un intero monte sollevato da un moto violento, (che) lanciavasi colla velocità della materia abbandonata a se stessa (e) piombava” sulle case, mentre nell’“immane disgrazia” “il crescer dell’acqua incalzava orribilmente”, quasi esse fossero acque “voraci”.

Questa immagine ritorna ne La Verna, anche se riferita alla base rocciosa del santuario: Le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve (CO La Verna 26-28)

“E l’acqua montava, minacciosa montava”; qui ritroviamo una ripetizione di termini che sarà cara anche a Dino, come pure l’incombere del mistero di una “eterna notte e tetra per le sue spaventevoli fasi.” Sempre ne La Verna Dino lamenta per bocca di una ragazza: un giorno la piena ci porterà tutti (CO La Verna 10).

Nei gorghi il sordo mormorar del Fato –LG si ode quasi come annuncio del non indagabile Giudizio divino.

E ancora a questo ricordo forse si lega il seguente passo: Ripenso alla mia fanciullezza. Quanto tempo è trascorso: ricordo una sera che i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infinità delle morti (CO La Verna 78-81)

 Ma anche nella cronaca alla fine il cosmico respiro della natura quasi incanta il testimone: “risplendeva tratto tratto silenziosa la luna, il vento muggiva, e giù dall’alto Appennino correvano nere e densissime le nubi. Uscii per vedere…”

Una copia di questo scritto certo dovette essere letta più volte da Dino, forse anche come esempio di quello stile che lo zio si compiace di aver raggiunto.

Ed infinite volte il poeta ha scavalcato Gamberara (dove pure il conte Lando quattrocento anni prima fu vittima delle rocce) nei suoi pellegrinaggi e ha visto il monito affidato dalla natura a quelle rocce, “cupo interno muggito” che può pacificarsi solo volgendo gli occhi a Dio, per Torquato, o alle stelle vivide nei pelaghi del cielo, senza alcun dio nocchiero, per Dino.

(Sono virgolettate le parole della cronaca e in corsivo quelle di Dino)   

Si riporta di seguito la cronaca come pubblicata nel libro “Marradi com’era”:

 

XI di Aprile 1899 – Alla famiglia Bernabei – grande per Censo per Carità Cristiana e Rassegnazione – Grandissima

 

Dolorose Memorie

 

Da che lunghissimi giorni una pioggia veramente torrenziale inondava le nostre campagne in guisa di far temere spaventosi disastri. Erano le undici prima di pranzo del giorno 15. In una gola dell’Appennino detta Gamberana ne’ pressi di Campigno, in Comunità di Marradi, undici famiglie stavano timorosissime e quasi presaghe di improvvisa disgrazia. Le massaie avevan tuttavia ammannite le rustiche provvigioni, i fanciulli, nell’età lor troppo tenera ignari del pericolo, già s’appressavano al desco, ed ecco un improvviso turbine di vento, un cupo interno muggito si fa udire seguito da un fumo, che toglieva il vedere.

Alcune fiamme, certamente prodotte dal cozzare dei massi fra loro, dettero chiaro a vedere il tristissimo spettacolo. Un monte, un intero monte a base del podere Val Piana sollevato da un moto violento, lanciatasi sopra del piccolo Casale e poi colla velocità della materia abbandonata a se stessa piombava a seppellire alcune case e a sbarrare le acque, che nel gettar de’ molti fossi impetuose scorrevano la china.

Spettatori del fatto furono i Signori e Signore della famiglia Bernabei, nonché altri abitanti del luogo.

Un grido acutissimo di questi, fu l’allarme che portò in salvo i nascosti. Il Signor Antonio Bernabei insieme ai Sigg. Fratelli Pio e Romano, pazzi dal dolore, generosamente dimenticate le molte e preziose masserizie di lor casa, correvano a sollecitare la fuga delle donne lattanti e dei pargoli.

Spettacolo triste, ma indimenticabile! Seminudi, piangenti, con la disperazione dipinta sovrana sul loro volto, abbandonavano il nativo casolare.. Le madri stringevano al seno i piccoli partoriti al dolore, correvano urlando non senza i sintomi di vicino delirio.

E l’acqua montava, minacciosa montava. E i due vecchi ottogenari infermi? Si corre per salvarli. I Sigg. Fratelli Bernabei volano i primi, ma uno de’ vecchi, a nome Gamberi Amadio, giaceva fra le macerie sepolto.

Si vola all’altro non meno infermo, vien legato sotto l’ascella e con una fune prodigiosamente estratto pel tetto della casa ormai galleggiante. Lo prende fra le braccia il figlio, e, con eroico coraggio ridona la vita a chi pel primo gliene aveva fatto dono.

Una giovane a nome Pellegrina che, per aver veduto la mamma ormai sommersa dall’acqua, forse più non pensava a porre in salvo se stessa, fu tolta al pericolo pel coraggio del Giovane Sig. Pio Bernabei, il quale, legatala al petto, la trasse all’asciutto.

Ma sventura! Tutte le cure degli animosi giovani, tutte furono vane per togliere alle voraci acque due piissime sorelle Brigida ed Elisabetta, le quali nonostante rifugiate si fossero su l’aia a cavaliere dell’alta palazzina Bernabei, pure, fatte stupide dal dolore, scesero in altra casa e rimasero vittime. Tu volevi un sacrificio, o Dio, e queste furon l’ostie a te più grate! Che sii sempre benedetto.

Il crescere dell’acque incalzava orribilmente, ed ecco il doloroso esodo di undici sventurate famiglie, che salgono il monte per chiudersi in nude capanne.

La squilla della non lontana Parrocchia manda spessissimi i suoi rintocchi e invita il popolo al soccorso. Era un accorrere precipitoso, un parlare febbrile, un piangere un pronosticare funesto, “Dove andiamo? Quante le vittime? Mio fratello è salvo Mia madre dov’è? Mia moglie è morta? …

E corrono al vicino fiume. Fremono al vederlo grosso da impedire il passo: atterrano un grossissimo albero, lo raccomandano a funi per gettare un ponte, ma le acque divoratrici lo nascondono fra i lor vortici spaventosi.

“Che facciamo, grida un giovane fra i generosi generosissimo, che facciamo? La famiglia, che a noi tutti somministra il lavoro, versa in angustie, ha bisogno d’aiuto … legatemi e lasciatemi avventurare fra le acque” … Tutti ammirarono il coraggio e la pietà del bravo giovane, ma prudentemente le dissuasero al passo.

La carità però che è ingegnosa e impaziente, l’affetto sincero del servo al padrone che non conosce il patire, suggeriscono altri mezzi ai nostri, che trassero per soccorso, si che per altra lunghissima via, non meno difficile e non meno ripiena di mali passi, poterono giungere a rivedere malconci, ma pur salvi i Signori,

Questo ardire, questo frequente accorrere di amici e contadini deve consolare non poco la illustre famiglia Bernabei, la quale nella sventura ebbe agio di conoscere la stima e l’amore ond’è ricoperta, degno e nobile guiderdone di sue imprese a prò de’ proletario ed indigenti.

L’acqua già copriva la sommità del tetto e solo alcuni fumaioli sporgenti dall’acque il nero capo, ricordavano allo spettatore del Casale. Quando noi giungemmo, le undici famiglie entravano nel podere di proprietà Bernabei, il quale, forse per l’infelice sua positura si appella La Tana.

Al primo vederci i signori, le donne, tutti danno in un pianto dirotto e i singulti tolgon loro le parole. La carità, che a loro ci aveva portati, ci somministrò in quel momento le veraci parole di conforto, ponemmo in chiaro l’assistenza divina nello stesso pericolo e da buoni, si come tutti erano, si furon presto consolati e rasserenati. Non voglio a questo punto dimenticare un tratto generoso operato da un subalterno della famiglia Bernabei. Questo tratto mi commosse si fattamente che dovei piangere per tenerezza. Intesa la novella del disastro sa prevedere i bisogni urgenti. Non ignora che nelle famiglie vi hanno donne lattanti, pargoletti quasi ignudi e intanto prese due fasce (forse possedeva solo quelle) alcune bende, un fiasco di latte, alcune prove, fra lo scrosciar continuo della pioggia per sentiero disastroso, muove verso la casa del rifugio.

Entrò piangendo e, posando tutto sulla rustica tovaglia, non seppe dire che queste parole: “Padroni, non ho altro …” e continuò a piangere ed io con lui.

Calava silenziosa la notte e intanto dal labbro di tutti uscivano note di preghiera e ringraziamento al Signore. Ai ripetuti Ave del S. Rosario, ed io posso ….

Io li vidi i buoni Sigg. Fratelli Bernabei, le vidi le Signorine Sorelle, la Signora Sposa lattante, la Vecchia Signora Zia, la Signora Mamma, tutti li vidi adagiarsi su di povera stuoia, uguali al momento nella miseria, nelle sciagure, nelle privazioni ai loro molteplici subalterni! Lì non più ricchi e poveri, non più padroni e servi, tutti colpiti dalla sventura, tutti sotto la mano di Dio! Salutari esempi ai poveri ed ai ricchi.

La serenità cristiana li consolava, ma di tratto in tratto un lamento, un sospiro represso alludeva alla immane disgrazia, che li aveva colpiti.

Fu lunga, quasi eterna la notte e tetra per le sue spaventevoli fasi. Sul lago ben vasto risplendeva tratto tratto silenziosa la luna, il vento muggiva, e giù dall’alto Appennino correvano nere e densissime nubi. Uscii per veder tale scena, ma poi rincasai spaventato.

Finalmente apparve il giorno, e il primo pensiero si fu quello di provvedere alle disgraziate famiglie. Alle ore cinque di quel mattino, presa la via del monte, m’avviai al torrente per tentare il passaggio e così trasportare alcune famiglie alla vicina terra di Campigno, dove i parenti e gli amici aspettavano per riabbracciarli e soccorrerli.

Ivi giunto trovai una compagnia di giovani Campignesi con a capo il Sig. Angelo Ferrini, che, messo in pronto scale, funi e tavole attendevano uno all’opposta riva per costruire un subito ponte.

Fu impresa pericolosa e difficile, ma, con l’aiuto di Dio, questa pure fu condotta a buon porto. Tornai al podere La Tana, la famiglia Bernabei già era in pronto per muovere a Marradi. Una robusta scorta di Campignesi, rassicurò la Signora Zia e le altre Signore Donne da’ mali passi si che incolumi giunsero al Paese.

Pensammo allora alle altre famiglie e tutte le portammo al ponte costrutto sul torrente.

Mi mancano a questo punto le parole per descrivere minutamente tutte le scene pietose onde fu accompagnato quel viaggio.

I padri, rinunciando quasi alla lor vita, fra il vacillare della scala sottoposta erano solo intesi alla salute dei pargoli; le madri, le altre donne, in preda a forte convulso, serenamente s’avventurano al passo e presto all’opposta riva poteron riabbracciare i lor nati. In quel passaggio io pur riconobbi la mano di Dio, che seppe guidarli: quella mano medesima che solo pel loro bene li avea colpiti.

Eccoci a Campino: Le case dei poveri furono aperte ai fratelli, subitamente ebbero pane e ristoro, ebbero un letto per riposare le stanche membra, Oh! Bella gara delle cristiane Ferrini, Maiali, e Fabbri, che contendevasi i poveri da ricoverare e vestire. Bello lo slancio della caritatevole Maestra, che, con coraggio virile, si pose Ella stessa al salvataggio de’ poveri! Si spogliò di sue vesti per coprire gli ignudi e ben presto ai molti figlioli derelitti di comune accordo delle Signore Ferrini, Mauani, e colla Signora Madre dell’attuale Vicario, seppe fornire vestimento e calzari.

Volesse il Cielo che tutte le maestre de’ nostri villaggi, all’istruzione civile mandassero misti anche gli esempi di educazione morale, dessero si fatte prove di evangelica carità, che sola sa formare i martiri! In quel giorno soltanto potremo salutar cordialmente e applaudire all’istruzione rurale.

Le autorità Municipali nel lunedì 17 dispensarono ai sofferenti un po’ di danaro, e intanto con lodevolissima premura si studiano i mezzi più pronti ed efficaci per venire al soccorso.

Il Reverendissimo Arciprete, vero amico del povero e del sofferente sta a capo di tutti.

Mentre scrivo mi si dice essersi costituito un Comitato di beneficenza, che presto incomincerà la sottoscrizione pei danneggiati. Venga questa beneficenza e venga presto. I ricchi ricordino di volar fra i primi, e le Signore e Signorine non siano seconde alle donne del popolo.

Pensino che se fortuna sorride a loro, non sorride ai poveri di Gamberana. Escano dalle loro sale e odano la miseria che piange.

Rapiscano quella perla ai lor capelli, inutile e forse lussurioso fregio, e ricordino che solo quella perla può salvare chi vive vita dolorosa e stentata. Fiat! Fiat!

(Protos, anonimo Marradese: “Dolorose Memorie”, Marradi Tip. Neri, 1899)