Benvegnù

 

Damiano Benvegnù: uno spettacolo per Dino Campana

 

intervista di Paolo Pianigiani

Testo di Damiano Benvegnù Musiche di Mauro Pandolfino

 

Damiano Benvegnù: voce narrante


Mauro Pandolfino: chitarre acustiche, mandolino e voce

 

La storia del poeta Dino Campana (Marradi 1885- Castel Pulci 1932), ripercorsa attraverso la sua stessa opera.
Il lavoro composto ed articolato, oltre che eseguito, da Damiano Benvegnù, Mauro Pandolfino e Stefano Scanu, vede la ricostruzione della vita rocambolesca e tragica del poeta e dell'uomo Campana, anche attraverso l'utilizzo di materiale e di testimonianze dell'epoca, ma concentrandosi in particolar modo sulla lettura ed il commento di brani scelti dal suo unico, fondamentale, libro: i "Canti Orfici".


Non una semplice biografia dunque, ma uno spettacolo di parola che mira a rendere e a restituire ancora oggi una testimonianza sulla indecifrabilità della poesia e sulla esemplarità di un uomo che volle essere, secondo le sue stesse parole, anzitutto un "poeta puro" e che si vide messo in disparte da un mondo letterario e civile che finì per rinchiuderlo in manicomio e che tentò in molti modi di dimenticarsi di lui.
La passione per la poesia, per la parola di un poeta che finì con lo sprofondare nel silenzio, e che pur rimane come viva voce, penetrante in profondità: modalità di una trama continua ed emozionale, di un fuoco nascosto ma non spento che in questo tempo più che mai richiede di raccontarsi, di essere raccontato.

Il lavoro, della durata di circa un'ora e mezza, si articola su una scena quasi spoglia attraverso letture, musiche, momenti di visione sull'opera campaniana e di commento della stessa, accompagnati dalla proiezione di immagini sia d'epoca che contemporanee in grado di sottolineare alcuni passaggi dei testi e della biografia che si dice tramite l'utilizzo di una voce fuori campo (che sembra provenire però dal passato) derivante da un registratore azionato direttamente sulla scena, in un percorso che si vuole teso ad evocare più che ad informare, a testimoniare più che a significare quella sfuggente potenza, quella chimera, che Campana vide, ascoltò e che finì col segnare tutta la sua esistenza.

"Il più lungo giorno", lavoro che prende il proprio titolo dal famoso primo manoscritto che Campana consegnò a Giovanni Papini ed Ardengo Soffici e che questi smarrirono, si è sviluppato come una sorta di ricostruzione, inevitabilmente non completa ma esaustiva dei passaggi - a nostro avviso - chiave, del percorso del poeta di Marradi.

A questo proposito il nostro lavoro si è concentrato, dopo una prima fase di stesura e di elaborazione formale relativa alla nostra propria creazione, al nostro incontro con la poesia di Campana, sul reperimento di materiale che
riuscisse a mettere in luce, anche

iconograficamente, per via visiva (data anche l'importanza che il dato visivo, quando non "visionario", ha in tutta la produzione di Campana stesso), il panorama campaniano, la sua apertura di senso, e rispetto alla cultura del suo tempo e alla poesia in generale.

A questo abbiamo poi aggiunto tramite un lavoro di ricerca documentaria tutta una serie di materiali, grazie anche alla cortese disponibilità del Centro Studi Campaniani di Marradi, che servissero a illustrare meglio la tormentata biografia del poeta, lungi peraltro dall'essere completamente messa in luce anche dai biografi cosiddetti ufficiali, e tutta una atmosfera di un'epoca all'interno della quale Campana tentò di inserirsi, ma dalla quale finì coll'essere violentemente escluso.

Nel corso della costruzione dell'opera si è consolidata in noi la sicurezza nei confronti della fondamentalità della testimonianza di Dino Campana non solo nell'ambito della poesia del Novecento, ma nei confronti del senso che oggi la poesia può avere nel nostro mondo.

Ecco perché lo spettacolo prende le mosse,
nella sua stessa malleabilità di allestimento,
anche da un interesse didattico: portare la vita di un poeta che ancora oggi viene visto e vissuto troppo spesso all'interno di una codificata abitudine o del tutto ignorato, sulla vita della scena, nel tentativo di far risuonare la sua parola con un accento che possa essere di stimolo ad una propria ricerca, ad una propria emozione, come per una forza ed una forma d'eco e di attrazione.


Intervista a Damiano Benvegnù


Paolo Pianigiani.: Il vostro progetto, nato nel 1999, Plerema, si basa letteralmente sul concetto della totalità del fonema; un programma adattissimo alla poesia di Campana...

Damiano Benvegnù: Effettivamente proprio il nome del progetto calza a pennello con la poesia campaniana: nei suoi versi c'è
una completezza di
significante e significato, le più piccole parti significanti e piene di senso, una struttura di risonanze emozionali prima di tutto che è anche quella che cerchiamo nei nostri lavori. Una questione di linguaggio. Crediamo poi fermamente nei cosiddetti "casi oggettivi", e ci sembra proprio uno di questi il fatto che tu ci faccia notare quanto Plerema ci sia nella poesia di Campana!

P. P.: Come e quando hai incontrato Dino Campana?

D.B.: Personalmente ho incontrato Campana per la prima volta alle scuole superiori, grazie ad una professoressa di inglese che mi fece anche conoscere Dylan Thomas (ed i due nomi, per quanto lontani, mi sembra abbiano qualche contiguità), dato che nei programmi ufficiali di italiano il suo nome è solo una appendice.

Ricordo la mia prima lettura de La Notte come un evento sconvolgente, tanto che ho continuato a ripeterne le righe iniziali come per una specie di mantra incancellabile per anni, anche un poco inconsapevolmente, fino a quando non ho incontrato di nuovo Campana all'università, dove l'ho studiato in maniera più approfondita anche se da un punto di vista forse troppo accademico.

Anzi più che reincontrato, l'ho riconosciuto, come qualcosa che già faceva parte di me, della mia esperienza, qualcosa che mi risuonava. Con tutti i rischi dell'identificazione, naturalmente, ma credo che rischi del genere siano inevitabili in qualche maniera, abbiano il loro senso.

P. P.: Come è nata l'idea di realizzare uno spettacolo sui Canti Orfici?

D.B.: Volevamo realizzare un lavoro che da un lato ci facesse uscire da una ricerca sperimentale sul suono e sul linguaggio che sentivamo in quel periodo troppo stretta, e dall'altro ci permettesse di mostrare la possibilità di una esperienza altra, veramente significante, anche ad un pubblico più ampio. Una testimonianza sul valore della poesia (e della vita) in un tempo quale è il nostro sempre più invaso dall'inutilità della merce, dalla sua facilità corriva e prepotente.

Anche per questo avevamo pensato di portare anzitutto lo spettacolo nelle scuole, a contatto con coloro che si avvicinano alla cultura per la prima volta, in modo tale da tentare una risonanza ed un contatto diverso con la lingua oramai sempre più fioca ed inascoltata o mistificata, in quanto ridotta a svago, a riposo del cuore, della poesia.

Poi la vicenda di Campana, la complessità della sua storia, ci era sembrato il modo giusto per metterci in gioco e sperimentare una nuova (per noi) forma di relazione con il pubblico: qualcosa di meno "esoterico" rispetto ai nostri lavori precedenti, ma che fosse in grado di dire qualcosa di sempre attuale, e che prevedesse come nel nostro modo di operare l'interazione fra più linguaggi (da cui l'idea anche di fare una specie di documentario sulla resistenza della poesia campaniana oggi). Campana rispondeva quindi ad una voce che sentivamo ma di cui non saprei forse dirti esattamente l'origine, una voce che aveva il desiderio di dirsi a qualcuno nuovamente, nuovamente attraverso noi ribattere, farsi sentire. Sicuramente ci piaceva inoltre l'idea che Campana sia una specie di estraneo ai circuiti letterari ufficiali, una specie di testimone scomodo e puro di come la poesia possa cambiare l'esistenza, la vita. Questo è stato anche probabilmente l'aspetto che più è stato recepito dal pubblico, una inquietudine che in qualche maniera fa parte anche della nostra, di esistenza.

P. P.: "Suono, colore, immagine", i Canti Orfici sono costruiti su queste tre parole... avete seguito lo stesso percorso nel vostro spettacolo?

D.B.: Per la costruzione dello spettacolo abbiamo iniziato con delle ricerche di carattere iconografico. Un professore ci diede poi, mentre stavamo cercando le immagini, il numero di Gabriel Cacho Millet, a cui telefonai e con cui mi incontrai per mettere a punto una intervista, che realizzammo qualche tempo dopo e che ci diede la spinta ulteriore per andare avanti, grazie alla sua incredibile passione, alla sua competenza e alla sua straordinaria cortesia.

Potremmo dire però che siamo partiti dai testi degli Orfici: è da lì che è nato tutto, dalla scelta dei versi che volevamo portare in scena e dal modo attraverso cui creare intorno a loro l'ambiente giusto, per così dire. Poi è nato il testo che raccontava la vita di Campana e che fa da controcanto alle poesie. Infine abbiamo registrato la voce di un gentilissimo signore di Cerveteri, dove viviamo, il quale ha letto per noi le parti prettamente biografiche e che noi riproduciamo solo grazie ad un registratore, nudo, sulla scena. Nel frattempo avevamo raccolto molte foto d'epoca, eravamo stati a Marradi e abbiamo finito di montare lo spettacolo. Ci sono voluti molti mesi perché tutto si componesse, anche molte riscritture: Campana era diventato più che una presenza per noi.

P. P.: Che ruolo ha la musica? La chitarra è presente negli Orfici, in particolare nei testi sudamericani, dove è espressamente citata...

D.B.: A dire il vero la musica che accompagna i testi durante lo spettacolo è nata da una continua rilettura dei testi stessi. Abbiamo passato molto tempo a leggere a voce alta, fino a quando non ci sembrava che nascesse una specie di corrispondenza oltre che ritmica anche emozionale fra le parole di Campana, la maniera in cui le interpretavamo e i suoni.

Una sorta di frammentazione del significato che volevamo prendesse sempre più la forma di una emozionalità pura. C'è un ritmo imprescindibile, a nostro avviso, dentro la poesia campaniana, qualcosa che si trasmette come una corrente in-quieta, una sorta di inesausto viaggio all'interno di questa corrente che abbiamo cercato anche nei suoni che portiamo in scena. Senza però ricorrere a chissà quale strumentazione: un paio di chitarre, una percussione e un mandolino, ecco tutto.

P. P.: E la scenografia?

D.B.: Anche la scenografia abbiamo cercato di lasciarla il più nuda possibile. Le foto d'epoca sono proiettate in modo da dare una scansione visiva al racconto: foto di Campana, degli autografi, dei protagonisti di un'epoca che per alcune modalità non ci sembra poi tanto distante dalla nostra, dei luoghi dei Canti Orfici.

Una semplice alternanza delle luci, povere, disadorne, un tavolino dove sta un bicchiere d'acqua ed un vecchio mangianastri, mentre sul palco si sta raccontando una storia. Elementi minimi: ma basta vedere gli occhi di Campana, credo, a volte per emozionarsi, per capirne l'intensità. D’altronde volevamo che fosse la phoné ad esprimersi prima di tutto, le sue risonanze appunto.

P. P.: Ci parli dei vostri programmi?

D.B.: Attualmente Plerema sta vivendo un momento di cambiamento. Dopo aver eseguito lo spettacolo su Campana, ci siamo resi conto che, oltre ad aver fatto un'esperienza importante per misurare le nostre forze, era nata l'esigenza di ricominciare con dei lavori di ricerca che avevamo un poco abbandonato, di essere più liberi di sperimentare. Anche perché abbiamo avuto molte difficoltà a presentare il lavoro sul poeta di Marradi: non abbiamo dietro alle nostre spalle una organizzazione vera e propria e quindi diventa una impresa affrontare tutti gli intoppi più o meno burocratici che si incontrano, tutti gli assilli economici, e nei confronti dei quali non è che siamo propriamente portati, dei portenti.

Per fortuna rispondiamo solo a ciò che ci va di fare, quindi abbiamo deciso di abbandonare un poco una attività di organizzazione che ci stava logorando per occuparci di altri progetti da far girare per il mondo senza dover mettere in piedi tutto uno spettacolo. Anche se, qualora capitasse l'occasione giusta, siamo sempre pronti a riproporre il lavoro su Campana: fa parte di noi oramai. Inoltre alcuni fra coloro che sono Plerema hanno espresso il desiderio di partire per andare a cercare altri stimoli da qualche altra parte, quindi si stanno preparando alla partenza. Questo non significa però che siamo fermi: attualmente si stanno elaborando diversi progetti, fra cui un lavoro nuovo che unisce musica elettronica e registrazioni, suoni e versi, che speriamo di poter far ascoltare al più presto.

P. P.: E adesso ti faccio un regalo che chi intervista non fa mai..., fatti da solo la domanda che vorresti sentirti rivolgere...

D.B.: Ci provo, va bene, anche se so che c'è il rischio di inciampare. La domanda che vorrei sentire...Quanta gioia c'è in Campana? Moltissima, una fortissima gioia che si esprime sempre, anche attraverso la sua vita, anche quando diceva al Pariani (a ragione, forse) di essere in contatto telepatico con il resto del mondo, anche nel suo dolore. Ognuno di noi, tramite questa gioia, che non significa non aver cognizione di quanto orrore possa essere il vivere, ma sapere di poter entrare in contatto con ciò che ci è sconosciuto e fare in modo che possa rimanere tale, eliminando alla base qualsiasi forma stritolante di dialettica, nello scarto della pietra angolare, vive in uno stato telepatico, nella convergenza e nella frattura, col resto del mondo.

Questa è la gioia che abbiamo sentito in Campana, nel suo desiderio, nei suoi paesaggi, nella meraviglia dei suoi versi. Questa è la gioia della poesia che abbiamo tentato di mettere in scena.