Libri nuovi e usati: due lettere di Dino

 

La redazione ringrazia l'amico Paolo Magnani per averci mandato questa interessante pubblicazione,

dalla quale trascriviamo l'articolo che ci riguarda...

 


 Dino Campana   

 

 

DUE LETTERE INEDITE

 

Credo che per la pubblicazione di queste due lettere inedite di Campana sia utile una breve informazione. Parecchi anni fa, il Professore Fredi Chiappelli, con il quale ero entrato in rapporti per la pubblicazione, che poi avvenne, del suo saggio: Machiavelli e la lingua fiorentina, sapendo che avevo intenzione di fare una rivistina, diversa da quella che pubblico oggi, mi inviò gentilmente quattro lettere inedite che Dino Campana aveva spedito a Danilo Lebrecht, in arte Lorenzo Montano. Tardando io a pubblicare queste lettere, il Professor Chiappelli ne pubblicò due sul «Corriere della Sera» del 18 marzo 1971 e naturalmente queste due lettere sono state poi inserite dal Professor Gabriel Cacho Millet nel suo accuratissimo carteggio di Dino Campana dal 1910 al 1931. Avendo pubblicato, come ho appena detto, due di queste lettere il Professor Chiappelli, di conseguenza solo due rimanevano inedite. Le pubblico ora non senza inviare i più vivi auguri di pronta guarigione al Professor Fredi Chiappelli avendo appreso che è seriamente ammalato. La trascrizione delle due lettere è del Professor Chiappelli stesso. E così le didascalie.

I più vivi ringraziamenti al Prof. Antonio Corsaro, dell'Uni­versità di Urbino, per i consigli che mi ha dato.

                                                                                     M.B.


 

Cartolina postale. Timbro di Lastra a Signa, Firenze, 25.11.17 Tenente Lebrecht Danilo - Capitaneria Vecchia - Spezia

 

Amico, la critica italiana è esercitata da quali pizzicagnoli!

L'intelligenza media italiana non è mai uscita dai lavori manuali e così la cultura italiana non è riuscita a fare di un pizzicagnolo un critico. Ed ecco che il pizzicagnolo mette sulla bilancia la carta (l'opera dell'autore) nella quale involta la sua mercanzia. Così fa Cecchi, pizzicagnolo per continuare le tradizioni (?) di ignominia piccola borghese bottegaia di cui Firenze ha il segreto. La loro mercanzia è p. es. il Conte­nuto Morale secondo B. Croce, ma varia molto. S'intende che in ogni modo vuol fartela pagare. Così mi involtolò in carta Sibilla e me la mise in tasca (per vendicarsi di me poeta). C.f.r. Cardarelli macellaio. Grazie mio caro della buona me­moria che mi ha fatto tanto piacere. Di me non saprei che raccontarti le solite miserie. La mia salute è cattiva. Tanti e tanti saluti e ringraziamenti dal tuo

Dino Campana


Lettera scritta su mezzo foglio di carta rigata azzurrina, piegato in quattro. Timbro Firenze-Pisa 9.12.17

L'angolo destro inferiore per una superficie di cm. 10x4, è stato asportato con un taglio eseguito quando il foglio era già stato scritto su entrambe le facciate ; il testo ha quindi larghe lacune. Scrittura notevolmente perturbata, anche sulla, busta.


Al mio amico

Sotto-Lebrecht

tenente Danilo

Capitaneria - Vecchia - Spezia Caro Baccante; migliore - il migliore... (all'interno dell'impronta circolare, rossastra, lasciata da un bicchiere posato sulla carta) DINO - BUDELLO - CAMPA­NA questo MODO mi salva dalla ITALIA

Leccai lungamente i 20 venti con venti lire leccai culo italico-triestino bianco rosso verde in bordelli lire .una. Ma­està serenità burocratica.

ITALIA spicciola

Budello Bucaiolo io troppo logico! immorale!!! Dans les bordels d'un frane j'avais baisé sans aucun plaisir (mezza riga cancellata e illeggibile)

con i minuscola, donne dette RINA ITACA. Viva l'Inghilterra che ci prenderà tutti a calci in culo. Sono stanco del mio patriottismo che come vedi / ... / forme religiose. / ... / Maligno ironista gh / ... / pianto di trolley / ... / del controllore! ! ! ! !

E Bastianelli batte il tempo. Così dimentichi il pianto millenario e chiudi la triste storia chiudendo l'epopea futurista di cui sei l'ultimo e inconsciamente geniale e furbo chiuditore? / ... / quattrini /.../.

(aggiunto sul retro della busta) cerco moglie - grazie libro bello


 Nota. Il fatto che il ritaglio lasci in evidenza la parola «quattrini» potrebbe indicare che la parte asportata conte­nesse una richiesta di denaro; in qualche altro caso Campana ne aveva rivolte a Montano. L'allusione «libro bello» nella poscritta sulla busta potrebbe riferirsi al Per Piffero, la se­conda raccolta di poesie di Montano, che era stata pubblicata privatamente in 75 esemplari appunto nel 1917.


 

DANILO LEBRECHT (LORENZO MONTANO)

I MIEI RICORDI SU DINO CAMPANA

 

In un primo momento avevo pensato, a completamento, per così dire (anche se, per la verità, non necessario), della pubblicazione delle due lettere inedite di Dino Campana, di ristampare, subito dopo le due lettere, la poesia Gilnara del Lebrecht che a Campana molto piaceva (si veda la sua lettera da Lastra a Signa del 26.10. ' 17 al Lebrecht stesso e la prima testimonianza da me riportata), ma poi, sia perché il Campana dichiara la sua ammirazione per questa poesia in una delle due lettere già pubblicate da Fredi Chiappelli, sia perché è già stata ristampata dal Prof. Cacho Millet nel carteggio di Campana da lui curato presso la E.S.I. di Napoli, ho ritenuto fosse partito migliore ristampare i brevi ma vivaci ricordi che il Lebrecht ci lasciò sul poeta di Marradi.

 

 M.B.


Questi versi di Gilnara ebbero la ventura di piacere a Dino Campana, che li sapeva a memoria e qualche volta me li recitava. Piuttosto che dal loro pregio, il quale oggi mi sembra modesto, ho idea che la predilezione sua derivasse da un'origine particolare e privata. E' soltanto per questo che ho creduto farne menzione.

 

* * *

 

Di Dino Campana non ricordo cose diverse da quelle che sono già state scritte da altri; ma egualmente le segnerò.

Era di media statura, un po' tozzo e greve di membra, anzi, se ben ricordo, leggermente intralciato nei movimenti da una paralisi non grave. Ho conosciuto parecchi russi di un tipo molto simile al suo, con la barba rada tirante al rossiccio, occhi assai chiari e larghi zigomi nel volto acceso. Dimostrava qualche anno di più dei 29 che aveva, e faceva subito pensare a uno di quei vagabondi di cui sono pieni i libri di Gorki. Ricordo, alla sua prima comparsa fra noi, un cappello e un paio di scarpe incredibili. Ma anche in seguito, quando prese a vestire più civilmente, dava sempre, e non saprei dire perché, l'impressione di aver dormito sotto un ponte. Aveva una guardatura sdoppiata, cioè quando vi guardava pareva vedesse insieme qualche altra cosa che stesse dietro alle vostre spalle.

Non era un uomo facile, e specie dopo aver bevuto lo coglievano alle volte smanie e furie tremende. Io per la verità lo conobbi sempre mite e cordiale; mi dimostrava una certa inclinazione. Credo lo attirasse la mia condizione di borghese privilegiato, tanto diversa dalla sua.

Lo vidi più volte alzarsi dal tavolino del caffè dove sedeva con noi per offrire il volume dei Canti Orfici ad altri avventori del caffè, al prezzo di due lire. S'è detto che egli strappava la dedica al Kaiser quando la faccia dell'acquirente non gli garbava. Per essere esatti, questa mutilazione era una precauzione che egli adottava, in quei giorni di polemiche pro e contro la nostra entrata in guerra, se dalla faccia del compratore gli pareva di arguire che questi fosse ostile ai tedeschi.

Malgrado l'ammirazione con cui era stato accolto subito, e sebbene si fosse cercato d'aiutarlo in vari modi, spesso egli non sembrava a suo agio. Forse aveva sperato di poter campare, anche magramente, con la poesia, ed era amareggiato di scoprire che non era possibile. Vi era anche in lui, unito ad una scaltrezza spicciola e ingenua come la si trova in chi ha dovuto vivere lungamente allo sbaraglio, un grande candore intellettuale che non sempre s'accorda­va col tono fortemente smaliziato dell'ambiente fiorentino. Fin da quei tempi, quando non era ancor possibile presagire il suo destino, stando con lui certe volte uno si sentiva stringere il cuore.

Una volta gli domandai da dove avesse tolto i tre versi francesi che cita in La Verna, ed egli mi recitò per intero la poesia di cui non conosceva l'autore (che fu poi accertato essere Henri Becque, come riferisce Enrico Falqui a pag. 184 della sua edizione dei Canti Orfici); poi me la trascrisse sopra un foglio, che ho ancora, con la testata del Gambrinus, dove eravamo. Poiché credo non sia molto conosciuta, e il Falqui non la dà, la trascrivo qui a mia volta:

 

Je n' ai pas une lettre d'elle

Pas de portraits, pas de cheveux,

Je n' ai rien qui me la rappelle

Nous nous detestions tous les deux.

J'étais brutal et langoureux

Elle était ardente et cruelle:

Amour d'un homme malheureux

Pour une maitresse infidèle!

Un jour nous nous sommes quittés,

Après tant defelicités

Tant de baisers et tant de larmes,

Comme deux ennemis rompus

Que leur baine ne soutient plus

Et qui laissent tomber leurs armes.

 

 ***

 

Il primo che conobbi del cosiddetto gruppo «romano», dal quale dovevano uscire i fondatori della Ronda (a volte chiamato così perché i componenti di esso per la più parte stavano a Roma), fu Emilio Cecchi. Un riacutizzarsi di una vecchia malattia mi aveva fatto rimandare dal fronte, e prestai servizio per qualche tempo al Comando di Corpo d'Armata di Firenze, dove anche Cecchi aveva un incarico provvisorio.

La Firenze del tempo di guerra aveva a che fare con quella del 1914 press'a poco come il sito desertico dell'antica Palmira con la città scomparsa. Solo fantomatico richiamo a quel passato prossimo che pure apparteneva a un'era diversa, erano certe apparizioni di Dino Campana. Egli allora abitava a Fiesole e di quando in quando, sceso alla ricerca di noi due, faceva la sua strana ed inquietante comparsa in quel tempio della burocrazia militare.

 

I tre brani pubblicati sono stati tratti tutti dal volume di Lorenzo Montano, Carte nel vento, Sansoni Editore, Firenze, 1956. Il primo brano si legge a pagina 63, il secondo alle pagine 72-73-74 ed il terzo brano a pagina 117 del volume.


 

UNA SINGOLARE TESTIMONIANZA SU DINO CAMPANA A BOLOGNA

Anni fa, parecchi anni fa, trovai in una piccola libreria d'antiquariato a Bologna, ora scomparsa, un opuscolo dedicato a Dino Cam­pana appunto nella città delle due torri. Mi parve subito di un certo interesse. Rileggendo­lo recentemente, la prima impressione è stata confermata. Ritengo pertanto opportuno ri­stamparne alcuni brani in questo primo nume­ro della rivista in cui più volte si parla del poeta dei Canti orfici.

L'opuscolo è stato ristampato al completo dal Prof. Cacho Millet nel libro: Dino Campa­na Souvenir d'un pendu (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli)


Comparve fra noi, se la memoria non m'inganna, sul finire dell'inverno 1911-12; portato dalla comune origine regionale, non da preesistenti amicizie. In sul principio ci trattò in massa più come un elemento a lui necessario che variata com­pagnia nella quale inserirsi.

Noi si formava un gruppo di giovani sui venti-ventitrè anni, liberi dai legami di fami­glia - i più, venuti dalle province limitrofe, iscritti all'Università - e affratellati dall'amo­re dell'arte. Ristretti a mezzi, tanto da obbli­garne qualcuno nelle strettoie d'un impiego, si trascorreva la sera, e quasi sempre pure la not­te, ad eccitare i nostri sogni in atteggiamenti, espressioni, confidenze ad ognuno diversi e caratteristici; ma che portavano commiste l'influenze accentuate di D'Annunzio -«l'imaginifico», «Corrado Brando» - «La Voce», il «Quartier Latino».

 

***

 

In una sera dunque, mentre, dopo cena, si passeggiava sotto i portici solitari di via Farini, accennando in coro a stornelli toscano-ro­magnoli, ecco mettersi a capo del gruppo uno, improvvisamente apparso: aspetto cam­pagnolo, tarchiato, capelli fluenti sulle spalle alla decadente, barba corta rossigna, cappelluccio tondo e stivali rozzi; e con voce sten­torea, alternata di toni gravi ed acuti - batten­do il grosso tacco ritmicamente al canto -, richiedere a gesti risoluti, imperiosi da noi una serietà ed un impegno da corale liturgico. Amava, come poi dimostrò, il canto, nel quale espandeva tutto sé stesso: canto popolare, portato giù dai suoi monti di Marradi e di Palazzuolo. E ne ricordava altri, primordiali nenie, raccolti in Argentina; ma questi ultimi preludevano a tristezze gravi, improvvise, nelle quali s'immiseriva, taciturno.

Mi fu presentato da Olindo Fabbri, di Sarsina; mite, caro compagno, al quale la sorte, col suo indifferente piede, portò la stes­sa morte dell'altro. 

Per la verità, Campana, sciatto all'aspetto e rude nei modi, non destava simpatia; ma la sua personalità artistica, decisamente supe­riore, ed il completo disinteresse nelle cose dello spirito come negli atti della vita, s'im­posero alla mia ammirazione. Il mio sereno riconoscimento, la mia schietta umiltà gli diedero la certezza dei miei sentimenti; ed egli, diffidentissimo sotto manifestazioni d'ingenua semplicità infantile, trovò in me un appoggio morale e mi si legò di vera amicizia.

Abitavo allora in via Castiglione, in una piccola camera affittata - piano terreno, la finestra posta in alto, aperta sotto il portico. -Dino non suonava mai alla porta; ma con un balzo s'aggrappava ad una sbarra dell'infer­riata, ed issandosi su lo sporto del parapetto -a scapito dei vestiti e delle scarpe, che incalcinava - tamburellava per richiamo sui vetri. 

Parlava piano, uguale, confidandosi; ma all'accenno della prigionia si fermò in tronco, spalancò gli occhi in una fissità allucinata, e a sé stesso sordamente esclamò:

«Ah, quelle mura bianche di calce!» Di­venne torvo all'aspetto e si congedò; ricordo: ci trovavamo sotto il medioevale portico Iso­lani, in via Mazzini.

Riprese altre volte a narrare, ricordando la sua andata in America; sempre in quei cinque anni di misero peregrinare.

Spontanei s'intrecciavano ai suoi schele­trici ricordi brani di prosa o strofe di poesie già, laggiù, composti; ma i lirici accenni gli svegliavano entro l'ampio petto, nel doloroso suo cuore, l'eterna poesia che in lui vibrava pura; e un'armonia nascosta, un rapimento estatico l'invadevano, rendendo all'improv­viso muto e svagato.

Anni passati, vita incenerita; ed il ritorno in patria l'avevano portato fra noi, sceso di nuovo a Bologna, con altre speranze, studente di lettere.

Nutriva per il professor Galletti un rispetto di scolaro a maestro; ben raro a trovarsi.

Gli venne consueta la sosta da me, ch'ero sulla sua strada; e per lui non vi erano ore distinte ed improprie nel giro delle ventiquattro. Picchia­te ai vetri, spesso incresciose, sempre scomo­danti, lo portavano da me, attratto dall'abbon­dante caffè e dall'amore suo per D'Annunzio. Non tutto D'Annunzio: il suo D'Annunzio! Freddo davanti la «Passeggiata» del «Poema Paradisiaco», allora di moda per la dizione del­l'attore Ruggeri, s'accendeva per le «Canzoni delle gesta d'oltremare» comparse sul «Corriere della Sera». Erano raccolte sul mio scrittoio; e Dino, con martellato accento, efficacissimo, le declamava, ascoltandosi compiaciuto ed atten­to. Il pesante pugno, in cadenza al verso, faceva risonare il tavolino, senza pietà pei dormienti; poi troncava all'improvviso per commentare con fine analisi ed impeto intuitivo, le preziose immagini.

Una volta, a notte alta, sono svegliato di soprassalto dal suo battere violento ai vetri e dal richiamo: - «Mario, aprimi». Entrato, mi chiede dell'acqua. Ha una ferita alla fronte, ch'ei tam­pona col moccichino. Disinfettato e pulito alla meglio, racconta: - «Per via Cavaliera cammina­va, ondeggiando, una puttana con un odioso cagnolino. Ho preso quello per la coda a mo' di fionda e l'ho lanciato lontano. Guaiti della be­stia, urla strazianti della femmina! Tre «soutneurs» mi si sono lanciati addosso. Io a calci e pugni mi sono difeso; ed eccomi qui».

Misogino feroce, si mutava all'improvviso in fauno; come già gli era avvenuto sui monti del suo paese, dove aveva talvolta inse­guito giovanette e ragazze, barbaro e selvaggio, spaurendo quelle e ponendole in angosciosa fuga. E con ciò Dino presenta un enig­ma, perché contrapponendosi al costume dei compagni, mai s'abbandonò a facili, carnali, venali amori; anche quando per condiscen­denza seguì la compagnia, e tanto meno li desiderò. Certe donne, che una volta erano le prime a riempire la vuota forma muliebre, scottante nel cuore e nei sensi dei giovani, gli erano necessarie nel paesaggio suo petico; e non oltre. Noi però, come si prediligeva la «Passeggiata» per il richiamo anelante al­l'Unica, all'Eccelsa, così nelle nostre canzoni si richiamavano dolcemente le immagini fem­minili: «I capelli della mia Gina...», allora in voga, formava per noi materia d'espressa po­esia; e Dino cantava con noi, trovando redento il sesso nell'onore del canto. Ho ancora pre­sente come, canticchiando io : «... bocca bacia­ta non porta fortuna, ma si rinnova come fa la luna...», egli si fermasse estatico d'una bellez­za, che l'aveva invaso, ed esclamasse: «Quan­ta poesia contengono! Immagine eterna, bel­lissima, fresca.»

Da via Castiglione ci si dirigeva, giornal­mente, verso il centro. Giunti all'altezza di vicolo Monticelli, mi ripeteva brevemente: -«Va innanzi, ti raggiungo». E a corsa prende­va la salita - sento ancora lo stridere dei chiodi sui sassi - per andarsi a beare innanzi ai due angeli del Costa nella chiesa di San Giovanni in Monte. M'invitò ad una visita alla Pinaco­teca. Improvvisamente, all'ingresso, mi stese la mano e disse: - «Arrivederci all'uscita».

In presenza dell'arte sentiva il bisogno d'esser solo, perché in quella voleva fondersi. All'uscita si riaccompagnò a me e mi parlò della «Santa Cecilia di Raffaello».

«Considera come il pittore-poeta ha scelto il momento. La Santa, rapita dal Coro Celeste, ha sospesa la musica. Innalzata da questa a quello ora si tace e vede; e la melodia del cielo - protagonista del quadro su la statica delle figure terrestri - fa congiungere gli occhi del­l'anima della Santa alla schiera degli angioli cantori».

                                                                                                 

Mario Bejor


 

 RITRATTO DI ALFREDO GALLETTI

 

Chi ha letto i brevi ricordi su Campana, stampati in questa stessa pagina, ha notato, probabilmente con sorpresa, che il poeta di Marradi aveva molta stima di Alfredo Galletti. Il lettore giovane o forse anche non più tanto giovane, si porrà la famosa domanda di Don Abbondio a proposito di Carneade: chi era costui? A questa probabile domanda abbia­mo cercato di rispondere, ristampando un breve ma acuto ritratto di Alfredo Galletti scritto da Fiorenzo Forti, che per tanti anni fu anch'egli stimato e ben voluto maestro all'Università di Bologna e che oggi è an­ch'egli forse troppo dimenticato.

Non posso dire se i libri di Alfredo Galletti, a cent'anni dalla nascita (nacque a Cremona il 13 marzo 1872), ma appena dieci anni dopo la sua scomparsa, siano ancora ricercati dai giovani; ho qualche motivo, tuttavia, per supporre di no. La critica letteraria dei nostri giorni cerca giustificazione (o scampo?) rinserrandosi, con rigore claustrale, nelle ra­gioni formali: una saggistica così esclusivamente rivolta alla storia delle idee - il giudizio estetico è una forma di egotismo, scrisse una volta Galletti - come quella del dotto e appassionato professore di letteratura italia­na nelle università di Genova (1910-14), Bo­logna (1915-35) e Milano (1936-43), rischia di apparire oggi come un modello di ciò che non si deve fare.

Certo il Galletti non va staccato dallo sfondo che gli fu proprio: quel momento assai felice delle nostre lettere che fu il primo de­cennio del secolo, quando la cultura italiana - l'ha mostrato uno storico non sospettabile come Stuart Hughes - ebbe un peso non tra­scurabile nel contesto europeo, nel quale ten­deva ad inserirsi con avidità di esperienze. Racconta Angelo Monteverdi che appena uscito di ginnasio, nel 1901, a Cremona, ebbe in dono dal suo professore il Buch der Lieder di Heine e il Prometheus umbound di Shelley, nelle lingue originali, dono singolare in un grado scolastico tutto greco e latino, in am­biente provinciale, da parte di un insegnante di modeste condizioni: ma quell'insegnante era, appunto, il Galletti, cioè uno di quei «let­tori di provincia» di cui il Serra, negli stessi anni, doveva costituire il paradigma e il mito.

Nel Galletti, poi, la molla a certe letture non era tanto il gusto, o almeno non era solo quello; c'era, in più, una convinzione metodi­ca, maturata attraverso l'educazione positi­vistica. Dalla grigia sistematica del quasi con­terraneo Ardigò, Galletti era risalito alle mo­bili prospettive del Cattaneo: nelle lucide pa­gine dedicate allo scrittore milanese si coglie benissimo il consenso del Galletti all'idea che l'uomo può esser conosciuto soltanto nella considerazione dei rapporti oggettivi che lo legano alla natura e alla società'e che all'inda­gine astratta della persona, propria della me­ditazione metafisica, va sostituito lo studio dell'intrecciarsi delle azioni è reazioni delle «menti associate». Conseguentemente, al «soggettivismo delfico e oracolare» della cri­tica estetica il Galletti oppone una concezione sociologica, o meglio tipologica, delle culture che si risolve, nell'ambito letterario, in una sostanziale aderenza ai canoni dello scrittore che fu oggetto dei suoi primi studi, Ippolito Taine. Race, milieu, moment costituivano l'ordito che Galletti sapeva coprire con una fitta trama di riferimenti che le sue vastissime letture inglesi, francesi e tedesche gli porge­vano.

Riuscì in tal modo un acuto indagatore di poetiche più che di poesia: libri come Le te­orie drammatiche in Italia nel secolo XVIII ( 1901 ) o saggi come Manzoni tra Shakespeare e Bossuet (1911) restano passaggi obbligati per chi si accinge a studiare la storia delle idee letterarie del Settecento o la formazione del Manzoni. In tali studi il gusto comparativistico veniva a combaciare colle necessità dell'in­dagine; in altri casi, invece, il suo comparatismo diveniva agonistico: la celebre prefazione alla Lettera semiseria di Grisostomo del Berchet, apparsa nel 1913, rischia di sembrare a un lettore di oggi una specie di anticipata dichiarazione di guerra alla Germania, pronunciata in un tono non meno acceso di quello del suo autore: Su nell'irto, increscioso Alemanno...

In realtà la lunga consuetudine con le componenti ideali della cultura europea ave­va radicato nel Galletti la convinzione che questa fosse dominata dal contrasto fra latinità e germanesimo, contrasto da lui inteso come opposizione fra razionalità e irrazionalità, tra realismo e misticismo. E misticismo, adora­zione del fatto e violenza, egli scorgeva al fondo dell'heghelismo, dismisura e malattia morale nel romanticismo, cui opponeva il lucidus ordo etico ed estetico dei classici. Inevitabile, perciò, il suo scontro frontale col trionfante idealismo e storicismo italiano. La passione portò spesso il Galletti a tra­sformare le pagine dei suoi autori in un aperto campo di battaglia; allora il suo acume non si appuntò più a cogliere la storicità della poesia, quanto a prospettare la poesia come espressione della ideologia.

Il libro in cui tale processo apparve evidente fu il Novecento che a metà degli anni Trenta fece esplodere una reazione a catena: si trattava della prima sintesi «accademica» delle lettere del nostro secolo, e ne uscì un libro pieno di antitesi e di recisi rifiuti. Urtò un po' tutti: non solo i crociani e i gentiliani, che erano un bersaglio scontato, non solo i formalisti al seguito di Gargiulo o De Robertis, non solo i lirici nuovi o i prosatori d'arte, incriminati rispettivamente per difetto di forma o contenuto, ma anche gli ammi­ratori del Pascoli, del D'Annunzio, del Pirandello, scelti ad indicare i modi va­riegati di quella degenerazione del ro­manticismo che appariva al Galletti il decadentismo.

Il libro sancì il definitivo isolamento del Galletti, isolamento certo amaro per lui, ma dannoso anche per la nostra cul­tura, cui egli avrebbe potuto essere più valido stimolo di quanto pure cercò di essere nella resistenza ideale ai miti nietzschiani e dannunziani dei quali si faceva forte il fascismo.

Giacché il Galletti ebbe una forte co­scienza civile e una chiara consapevo­lezza di alcuni problemi della società italiana: fu tra i fondatori della meritoria associazione degli insegnanti che ebbe il suo capo in Giuseppe Kirner e ne delineò funzioni e scopi nel libro pubblicato nel 1908, in collaborazione con Gaetano Salvemini, La Riforma della scuola me­dia, alla quale affidò un fine educativo, e non strettamente prammatistico, di pre­parazione intellettuale e morale alla vita civile, ispirato a quel liberalismo aperto al progresso che fu in lui un atteggiamen­to costante e lo indusse ad apporre la firma al Manifesto degli intellettuali del 1925. Gliene derivarono disconoscimenti e fa­stidi sopportati con esemplare dignità, finché nei giorni della catastrofe, ormai vecchio, dovette subire l'arresto e il carcere.

Quando uscì, con una forza che non si sarebbe sospettata in un corpo così esile e quasi fragile, riprese con immutata energia il lavoro nel solco già tracciato; disegnò, anzi, un'opera in cui si raccogliessero le sue meditazioni sulla storia. Nella solitudine in cui si era appartato, più che ottantenne, diede alle stampe una sorta di testamento fermo e patetico: Natura e finalità della storia nel moderno pensiero europeo, un libro in cui ribadiva tutti i caposaldi della sua lunga guerra contro l'idealismo e il decadentismo.

Ma altri erano ormai i protagonisti e i copioni che si alternavano sulla scena culturale italiana e il libro restò senza echi, salvo una nota del vecchio Salvemini sul «Ponte». Per questo oggi piace ripensare al Galletti dei primi del secolo, collocandolo accanto ad altri non conformisti di quel tempo, estranei al filone maggiore della nostra cultura e poi tenacemente avversi al fascismo: più che a Salvemini, pur amico e compagno di molte battaglie ma ancora troppo vivo e vicino, penso ad altre figure un po' appannate dal tempo; spiriti, però, coraggiosamente minoritari: Ferrerò e Rensi, Tilgher e Borgese... E non molti altri, perché non furono mai molti gli uomini capaci di lottare isolati, convinti, come ebbe a dire il Galletti, «che il nostro pensiero è più alto della violenza contro cui esso si infrange».

                                                                               Fiorenzo Forti

(Dal volume Incontri e letture del Novecento, M. Boni Editore, Bologna).

 


 

ANCORA SU DINO CAMPANA A BOLOGNA

 

Siccome in questo numero si parla molto di Dino Campana, e specialmente di Dino Campana a Bologna, abbiamo ritenuto opportuno ristampare anche la bella testimo­nianza di Giuseppe Raimondi.

 


 

Circa trent'otto anni fa, uscendo dal Ginnasio Galvani, presso la Chiesa di Santa Lucia, un giorno di primavera, sa­lutai Don Pasquetti, ottimo latinista, fer­mo sulla porta di casa: abitava di fronte al Ginnasio. Era con lui un uomo giova­ne, grosso, biondo, che teneva in mano un numero di «Lacerba». Lo guardai; e me ne ricordai subito, quando alcuni mesi dopo, verso l'inverno, lo rividi seduto in un divano del Caffè San Pietro. Questa volta era con Bino Binazzi, che me rie disse il nome: il poeta Dino Campana. In seguito lo rividi, altre volte, e quasi sem­pre con Binazzi, cui mi legava una affet­tuosa amicizia, da ragazzo a uomo colto, illuminato e poeta; con il pittore Mario Pozzati, o con altri che dirò. Campana, in quelle occasioni, mi metteva in sogge­zione e rispetto, per qualcosa di eccezio­nale e di chiuso che era nel suo modo. Di lui circolava già la leggenda. I «Canti Orfici», i suoi burrascosi rapporti coi fiorentini, cioè la vicenda dello smarri­mento del manoscritto del suo libro, ad opera, pare, di Ardengo Soffici. Egli la ripeteva di frequente; e devo confessare, tra di noi, non era commentata benevol­mente per i fiorentini.

Come ho detto, lo incontrai ancora tra il '915 e il '916, qui a Bologna: e finalmente gli vidi cavare di tasca quel numero di «Lacerba». Era quello del 15 novembre 1914, e contene­va tre prose di Campana, che la redazione presentava con questa nota: «Questi tre pezzi di minerale poetico son tolti da un libro di Canti Orfici che esce ora e di cui parleremo». (Le prime cose sue, se non sbaglio, che uscirono in quel foglio?). E tra il foglio, gualcito e un poco rotto di «Lacerba», gli vidi qualche volta cavare due ritagli di giornale: l'articolo di Emi­lio Cecchi e quello di Binazzi. Lo rividi, una notte, nello stanzino di correttore di bozze di Binazzi, al «Giornale del Mattino»: era l'inverno. Binazzi intabarrato, il cappello calato in capo, la sigaretta in bocca, quasi a scaldarsi a quel poco di fuoco. Campana, in un abituccio frusto, senza cappotto, silenzioso, nel frastuono delle linotipe della vicina tipografia. Si parlò di avvenimenti della giornata: era il tempo di guerra. Ma poi ci raggiunse un giovane amico: Francesco Meriano, che parlò di suoi lavori letterari: un'edizione delle Lettere di Guittone d'Arezzo e, in­sieme, di un libro di parole in libertà: Equatore Notturno, che doveva pubbli­cargli Marinetti. Al nome di Marinetti, Campana girava i grossi occhi, o bor­bottava qualcosa, scontento, come indi­gnato.

Binazzi, a parte i ragazzi come me che sognavano di essere poeti, fu il primo mio amico, qui a Bologna, e ne conservo un ricordo di affetto e di riconoscenza. I giovani dovrebbero ricercarne gli scritti, oggi dimenticati; e la critica rendergli giustizia, quando stende i suoi elenchi, che chiama saggi o storie. In quegli anni di guerra, quindi prima del suo breve matrimonio, e della sua troppo anticipata morte, alloggiava in un alberghetto presso la Porta di Galliera: si chiamava, al­bergo Giardinetto o qualcosa di simile; ed era luogo di sosta di barrocciai e corrieri, di commercianti e trasportatori di derrate ali­mentari, per la prossimità della Ferrovia. Io lo riaccompagnavo dal giornale, di notte, restando ad ascoltare i suoi discorsi: su uomi­ni, su cose della letteratura. Una volta ci sorprese, là dentro, un frastuono, un trame­stio: voci, richiami di gente allarmata. Un uomo chiamava, gridando per le scale quasi buie: «Il poeta Bino Binazzi! Binazzi! Binazzi!». E alla richiesta di qualcuno decli­nava il proprio nome, scandendo fortemente le parole: «Campana Dino». La sua voce era inconfondibile: un poco tonante, e cupa, musicale nelle inflessioni tosco-romagnole. Quella notte, credo, inveì contro Papini, e contro De Robertis, che a quel tempo dirigeva «La Voce»: ma al suo modo un poco infantile, allucinato e fabuloso. Come un ragazzo che ripete una vecchia lagnanza, cui gli altri non prestano troppo conto. Nelle sue parole si mescolavano le Giubbe Rosse, il nome di Cecchi, e quello di una poetessa italiana. Venne l'alba, e Binazzi ci congedò: io e Campana, in com­pleto silenzio percorremmo un tratto della via Indipendenza. D'un tratto, mi sparì di fianco, tra via Marsala e via Goito. Non so dove alloggiasse. Camminava a grandi passi, sen­za far rumore, sotto i portici deserti, con la sua andatura di vagabondo e di grande cammina­tore.

Lo rividi al solito Caffè San Pietro, o al Bar Nazionale, alle Due Torri. Qui capitavano Sebastiano Timpanaro, e alcuni suoi amici, redattori di una piccola rivista di letteratura, di filosofia e di politica: «L'Alba». Al Caffè San Pietro, lo rincontrai con Giannotto Bastianelli, con Binazzi, con Pozzati, che, pure essendo a quel tempo il più rinomato cartellonista italiano insieme a Cappiello, si applicava ad un lavoro di pittore, quale, in Italia, poteva essere quello di chi, allontanan­dosi dal futurismo (e da cubismo), tendeva alle ricerche «nuove» di Carrà e di Morandi. Pozzati aveva portato fra di noi il suo amico, l'attore Petrolini, che nelle frequenti tournées, prediligeva Bologna. Così, un giorno, trovai, nel consueto angolo del caffè, seduto fra Binazzi e Pozzati, Petrolini che rasato di fresco, compunto e rispettoso di codesti ami­ci artisti, sfogliava e tagliava le pagine di una copia della Gaia Scienza di Nietzsche, appe­na comprata. Campana, di fronte a lui, mor­morava qualcosa, dove tornava il nome di Nietzsche frequente, con la sua voce in sordi­na e soffocata, e che quelli ascoltavano, ta­cendo, un poco assorti e affascinati, come si ascolta un motivo di vecchia musica popola­re, che esce, improvviso, da un angolo di strada, nel ronzio della città.

Fu quel giorno che Cam­pana vendette per lire due (o qualcosa del ge­nere) una copia di Canti Orfici a Petrolini, dopo avervi scritto sopra un rigo di dedica, con la sua calligrafia di provinciale. E ag­giungendo: «Le darò anche questo in aggiun­ta». Mentre diceva, cavato un fascicolo di rivista, la «Riviera Ligure», ne strappò una pagina dov'era pubblicata una sua poesia, buttando da parte il resto del fascicoletto dalla copertina verde-oliva. Glielo avevo visto tra le mani altre volte, quando egli usava leggere le sue composizioni ai conoscenti e amici di caffè, come ricordo che leggeva «Toscanità», la meravigliosa pagina di suggestione plasti­ca e musicale dedicata a Bino Binazzi, con le cadenze della sua voce chioccia e improvvi­samente acuta, con un effetto di incanto litur­gico tra gli strascicamenti di cantastorie po­polare:

 

«Perché esista questa realtà tu devi tendere una volta gialla sopra il velluto nero e le treccie di una trecciaiola che intreccia pagliuzze d'oro. Non accendere i carboni della passione: essi ti risponderanno col fuo­co elementare delle carte da gioco. Ma se piuttosto intendi il battere di tamburi con cui il poverello Giotto accompagnava le sue madonne sii certo che i doppi piani ti daranno la soluzione della doppia figurazione che lo spirito e l'orgoglio aspetta».

                                                                                                                                                                  Giuseppe Raimondi

 

(Da: La valigia delle Indie, Vallecchi Editore, 1955)