La Maddalena, disegno di Carlo Pastorelli

 


UN RITROVATO AMICO DI CAMPANA: AUGUSTO GARSIA

di

Silvano Salvadori

 

Dalla rivista Almanacco Maddalenino VII, Paolo Sorba Editore,

2016 per CO.RI.S.MA, pp.89-96

 


 

(Testi campaniani sull’isola Maddalena)


PROSA IN POESIA


Un verde bizantino
Sopra un occhio dorato
Descrivo le lastre a quadri
Dell’isola Maddalena
Per scale di granito
Ci sono i vecchi lampioni
E pure si trova le femmine
All’isola Maddalena
Per scale di granito
Un organetto che sona
E signorine donate
A un vecchio bon sangue italiano
Un verde bizantino
Sopra un occhio dorato
Sopra le lastre a losanga
Dell’isola Maddalena
La Giuseppina si affaccia
È tutta vestita di rosso
La casa di granito
E sona l’organetto
Sotto l’insegna di ruggine
Sopra le lastre a losanga
Dell’isola Maddalena
Nel rantolo dell’ancora
Che stanca le bandiere
Si stanca sul granito
Sopra le lastre a quadri
Dell’isola Maddalena
Coll’ombra dell’occhio dorato
L’abete che riparte
Con cingoli di carene
Dell’ancora portandosi
Solo il segnale la sera
Ch’è stanca la bandiera
Ai monti lontani di Aggius
Ondeggia la rossa bandiera
Nel rantolo dell’ancora
Sotto i lampioni la sera.


(Dal Taccuino a cura di Franco Matacotta”, Amici della Poesia, Fermo, 1949)



“Un verde bizantino sopra un occhio dorato
dentro la sera angelica
tra le quadrate case

addolcito nel rantolo di un’ancora in un porto.
Tra le quadrate case la musica di armonica.”

 

(Dal “Manoscritto Orlandi”)



“…Una volta in Sardegna entrai in una casa con fuori una vecchia lanterna di ferro che illuminava
la parete di granito. Fuori la via metteva sulla costa pietrosache scendeva dall’altipiano al mare.
Questo ricordo che non ricorda nulla è così forte in me! La costa bianca di macigni aveva bevuto
il tramonto cupo e rosso che chiudeva l’isola e ora colla lanterna rugginosa solo le stelle
sull’altipiano brillavano a me a Garzia. Io baciai la parete di granito senza pensare e non so
ancora perché. Ricordo che in quella casa stava la sarda moglie dell’alcolizzato amico dell’amico
del nostro amico. Bevemmo il moscato bianco salmastro di Sardegna ed   idiota come mi ricordo
di tutto questo. La mia padrona e dell’Isola del Giglio dove io farei certamente bene ad andare ad
abitare per un anno almeno. Tu non ne vedi la possibilità?”


(Lettera a Sibilla, 4 gennaio 1917)


C’è sempre un qualcuno a cui dedichiamo la scrittura e a volte perfino le ricerche le si fanno per trovar argomento di colloquio con qualche amico. Ogni scrittura il tentativo di una risposta a domande la cui formulazione si chiarisce solo via via che rispondiamo; così è accaduto con gli amici dell’isola della Maddalena. C’era quella “Prosa in poesia” di Dino Campana con cui mi ero già misurato, ma che cercava un riscontro sui luoghi, come mio solito, e quando Antonio Frau mi ha seminato nel cervello la curiosità di saperne di più sulla Sardegna di Dino - visto che sono passati cento anni da quel documentato soggiorno-, ne è nato un alberello che, radicando in quel granito fra il doppio blu del cielo e del mare maddalenino, spero ci consenta di intrattenerci sotto la sua ombra con i benemeriti amici del CO.RI.S.MA, alla cui collaborazione devo questo contributo.

Cercavo gli elementi materici, i suoni, i colori, i ritmi dell’isola ed invece mi sono imbattuto in un uomo, ancora una volta un amico, che con Dino condivise quel soggiorno: Augusto Garsia.

 

 

 

 

Chi era Augusto Garsia? Dino Campana lo ricorda compagno del suo soggiorno in Sardegna nel 1915.

Nato a Forlì nel 1889, Augusto si trasferisce a Firenze dove, ventiduenne, pubblica dall’Editore Gonnelli la sua prima opera: Roma, tragedia epica in tre atti con una bella copertina in xilografia del pratese Guido Nincheri (1885-1972). 1 Vi si legge nell’ultima pagina: “Questa opera è stata presentata il dì 3 Marzo 1911 al Comitato Nazionale per il concorso drammatico-patriottico indetto a Roma nel gennaio dello stesso anno”,il tutto in occasione delle celebrazioni del cinquantenario dell’Unità d’Italia.

È l’anno dell’inaugurazione a Roma del Vittoriano, del ponte Vittorio Emanuele II e, sul Gianicolo, del faro degli italiani di Argentina. Anno di apoteosi nazionale che lo stesso Pascoli celebra. Questo concorso drammatico fu vinto da Federico de Maria (L’anima del Vespro, pubblicato poi da Priulla nel 1923) e vi partecipò anche Carmine Gallone, futuro importante regista, con un’opera molto apprezzata; quest’ultimo poi diresse il primo film significativo di chiara intonazione pubblicitaria e di amor nazionale che giunse sugli schermi nel settembre del 1915 e si intitolava: Sempre nel cor la Patria!.

Augusto Garsia pubblicherà nel 1922 un romanzo, Le strade cieche,2 in cui ricorda il suo apprendistato di docente in Sardegna; romanzo questo di introspezione psicologica su tre travagliate storie d’amore finite miseramente.

Ma sono proprio i suoi riferimenti alla Sardegna che ci interessano. Infatti Dino Campana lo nomina in una lettera a Sibilla3 dove ricorda la sensazione emotiva che poi ricreò nella composizione Prosa in poesia, pur con la non corretta grafia di “Garzia”, che Sbarbaro in un ricordo riporterà all’onestà del vero.4

Gabriel Cacho Millet suppone appunto che quel “Garzia” sia il nostro autore, ma fino ad ora non c’era evidente certezza della sua identità.

Siamo nel gennaio del 1915 quando Dino è in Sardegna e da lì spedirà a Bellonci con dedica una copia dei Canti Orfici, che lo scrittore non legger essendo stata ritrovata questa copia intonsa nella sua biblioteca.5

Altre volte forse Dino vi si era recato avendo il fratello Manlio sposato, l’11 febbraio del 1911, Elisa Salaris figlia di una facoltosa famiglia di Sassari. Il poeta non partecipò al matrimonio perchè in quei giorni era impegnato nella famosa prova d’esame a Firenze per ottenere l’abilitazione all’insegnamento del francese. Dalla testimonianza orale della nipote di Manlio, Donatella Coppolino, sappiamo che Dino amava recarsi in compagnia dei cognati a caccia fra quei monti.

Certa è invece la sua permanenza nel 1915, nello stesso anno in cui Garsia vi presta servizio. Nel romanzo, molto autobiografico, Garsia, replicatosi in Giovanni Candia, fa dire a due amici:


[prof Guarnieri] …ma tu eri già laureato e insegnavi in Sardegna.6

[Vice Commissario Antonio Piras] Antoniccu era nato a Calangianus, un paesotto vicino a Tempio, dove Giovanni aveva incominciato la sua carriera di professore e perciò il gallurese poteva parlare il gallurese e quando un sardo può parlare il suo dialetto smette ogni diffidenza e si fa loquace.7

C’è anche qui un ricordo del buon vino sardo, che anche Dino menziona nella lettera a Sibilla:

Peccato che lo muscateddu di Tempio non regga alla traversata […] brindiamo insieme: -Evviva la Sardegna!8

Là Giovanni aveva conosciuto il primo amore, Baingia Cavras, che in una lettera gli aveva scritto:


Che quest’anno le feste della vendemmia erano state splendide, come sei anni prima, quando ella aveva ballato con lui; che il monte Limbara e le montagne d’Aggius le avevano domandato notizie del loro amico poeta; che incominciavano a fiorire le violette invernali; che il rosso dei sughereti nel tramonto sembrava sangue e fiamme.9


L’accenno all’amico poeta e il nominare quelle stesse montagne di cui scrive Dino sono un sicuro indizio che quell’ “amico poeta” è Dino Campana. La Sardegna era per molti docenti il luogo del primo apprendistato; un amico di Giovanni, Piras, infatti dice: ... è naturale che mandino in Sardegna i novellini a imparare come si fa il proprio dovere senza parlare e che ci mandino i
puniti, a… rifarsi una verginità … Peccato che continentali ci venite e continentali ne ripartite.


Del paesaggio sardo si fanno citazioni nel libro di Augusto Garsia che non sarebbero dispiaciute a Campana e che anzi ricordano certi passi de La Verna:


E nel dormiveglia dei meriggi afosi tornavano le fresche visioni della Sardegna lontana: nettissimi, i ricordi remoti di fontanelle tra il muschio e l’edera, dove, accaldati dal ballo campestre, erano corsi a tuffare le mani Baingia e lui.10


Laggiù oltre il mare, da Monti a Tempio era una lenta ascensione, di bellezza in bellezza, come verso un santuario di purificazione. Ecco: la verginità del paese balzava incontro al trenino, che, sbuffando, risaliva coi giri e rigiri le falde del Limbara, sotto forma di un’aria che avesse rapito il profumo alle erbe soffici e ai fiori alpestri e la freschezza alle fonti scroscianti; sotto forma di creste severe, di rocce disseminate fra il verde; di teste meravigliose per intenta, pensierosa gravità, di pastori che apparivano e scomparivano e la loro casa restava laggiù, piccolissima in fondo alle vallate e si scorgevano le pecore nei chiusi. 11 ...dopo una attraversata non troppo gaia, lo scoglio di golfo Aranci gli era apparso lugubre, in sull’alba: né la vista ridente e maestosa della Gallura con i suoi macigni e, in fondo alle strettissime valli, chiusi da zone di lentischi, i vigneti e gli stazzi, lo aveva racconsolato.12

Lì sotto si svolgeva la vita monotona del paese. Non suoni, non canti, non fiori. Il Limbara, al quale egli aveva gettato un ultimo sguardo annebbiato, stanco, distratto prima di sdraiarsi sul letto, era una stupida e brutta montagna.13


Qualche ricordo della lettura dei Canti Orfici in Garsia è evidente e contatti fra i due forse ci possono essere stati da Gonnelli a Firenze ed anche per comuni amicizie.
Va ricordato infatti che Augusto Garsia dedica A Angiolo Silvio Novaro/ per il Suo figlio morto, per i/ Suoi canti vivi.14 un gruppo di poesie Voci del mio cammino.15

Poesie anche queste nella tradizione rimata, ma da cui si evince qualche comunanza con Dino. Si veda la lirica Il mare:

 

Quant’anni son passati! Intorno m’era
Il mondo un infinito paradiso,
un paese mirabil di chimera

laggiù, laggiù, dove pur oggi sale
in cielo bianca nuvola serena,
colma dei veli rosa dell’incanto
che si scioglieva in me per ogni vena.
E udire ancora mi sembrava un dolce canto
16
di là dal mare: l’inno dei beati
ch’anno dimenticato d’aver pianto.
Eroi, poeti, o spiriti innamorati,
potrà migrare l’anima tra voi


(Francesca e Paolo)
lontani io ritrovi e l’anima di Dante


….come un tempo quando
la fanciullezza mia selvaggia e bella
andava lungo il mar peregrinando.

 


Ma nel romanzo Le vie cieche c’è un personaggio, Valerio, che ricalca così da vicino il nostro Dino, che non può essere che lui; anzi sembra accennare ad un incontro in stazione a Firenze, fra Garsia e Campana, cosa assai probabile.
Ecco le pagine in questione, nel momento in cui Giovanni Candia, il protagonista, ritorna da Bologna a Firenze nella casa del padre:


Si rinchiuse nello studiolo, dove aveva passato gran parte delle giornate quando frequentava l’Università e lo ritrovò come lo aveva lasciato, partendo per la Sardegna sette anni prima… Trovò così un foglietto sgualcito che diceva:
“A Giovanni Candia, nella notte del 29 aprile 1910 - Stazione.
Dopo il nostro incontro eccomi in questo mio luogo prediletto, per scrivere e per spendere i miei ultimi centesimi: in questo luogo di partenze e di arrivi, di incontri e di distacchi; l’eterno passaggio, ove molte cose mi attraggono e molte mi danno fastidio, (come nella vita): per esempio, il silenzio raccolto del caffè e quel sensale là nel fondo della sala… Scrivo qui, perché anche il nostro incontro è fugace e perché, oltre a essere treni, siamo anche delle stazioni d’eterno passaggio… Occorre spiegare meglio questa allegoria? Non credo. Chi sei tu? Chi sono io? Chi siamo noi? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai! Ci siamo trovati per un caso esterno; per un caso esterno ci smarriremo.
Per qualche ora: per un momento, relativamente alla nostra vita, abbiamo sentito insieme e d’avere insieme provato i contatti più gelidi e più roventi della vita e delle nostre anime 
sconosciute: che un medesimo travaglio ci agita: che un medesimo avvenire cerchiamo di serrare, di vincolare non sui nostri petti, ma nei nostri petti… Ma poi? Uno sbatacchiare di usci, fischi, ansiti di vapori compressi, passi frettolosi, urti e stridori metallici, grida: fischi, squilli, partenza! Il treno parte nella notte verso l’aurora… Per dove? Sin dove? Arriverà? Non arriverà? Questa è la vita! Quanti attimi, passati e vissuti, quanti chiassi, quanti saluti e auguri… e sempre avanti!...
Cerca d’essere l’impossibile, Giovanni Candia: d’essere treno e stazione nel medesimo tempo: ma tanto l’una che l’altra cosa sia te, sempre te, soltanto te: più Giovanni che Candia… M’intendi? – Valerio-…”
E ricordò l’amico buono, sulla mente del quale la notte della pazzia era scesa per sempre. Anche
lui, anche il pazzo aveva qualcosa da domandargli e da comandargli! ...
17

 


Verosimilmente campaniano è il biglietto sgualcito datato1910, campaniano il luogo e l’allucinatameditazione che ricorda L’incontro di Regolo. Ma soprattutto rivelatore è l’amico buono, sulla mente del quale la notte della pazzia era scesa per sempre. Questo Garsia lo può dire a ragion veduta nel 1922, con Dino ancora vivente e rinchiuso a Castelpulci.
Poco più in là, ancora la stessa immagine:


E a poco a poco Giovanni sentiva d’impazzire; rivedeva Valerio, l’amico buono, che se l’eran portato al manicomio.18


Non manca nel romanzo anche una visione dell’Appennino:


La montagna era musicale per le sue acque … Il Libro Aperto in alto si slargava come un’immane
onda di granito che forse filtrava dal cuore del mondo boscoso.19


Come non ricordare il campaniano “profilo musicale” degli Appennini e l’“enorme cavallone pietrificato” de La Verna? Alla fine del romanzo, ritorna ancora una volta l’immagine di “Valerio”:


[Giovanni Candia] Pensava a tutti quelli che sono pazzi, a tutti quelli che sono in carcere: si ripeteva monotonamente le parole di Valerio: “essere treno, essere stazione”, senza più capirne il significato preciso.20


In quest’ansia delle partenze e dei ritorni c’è inconfondibilmente il nostro Dino.

 


APPENDICE 10-09-2022

 

Se fosse originale il foglietto stracciato conservato da Augusto Garsia, - che nel romanzo ha il nome di Giovanni Candia – perché indicare proprio una data precisa: 29 aprile 1910?

E poi allorché il biglietto termina con questa raccomandazione - ma tanto l’una che l’altra cosa sia te, sempre te, soltanto te: più Giovanni che Candia… M’intendi? – che senso avrebbe dire “più Giovanni che Candia”?

Ma se il biglietto fosse originale, avrebbe contenuto la frase “più Augusto che Garsia”! Il che suggerirebbe l’invito di Dino all’amico di essere aderente al suo nome, (nomen omen) Augusto, cioè superiore ai miseri fatti accidentali e per lo più sfortunati che potranno accadergli, cioè non curarsi, come fa Dino, delle mortificazioni mantenendosi fedele al proprio spirito nobile.  (S.S.)

 


 

NOTE


1 Augusto Garsia, Roma una tragedia in tre atti, Gonnelli, Firenze 1911.

2 Augusto Garsia, Le strade cieche, Ed. La Nave, 1922.

3 Il riferimento a Garsia è nella lettera LXXI del carteggio Aleramo-Campana. La datazione, “Livorno, 4 gennaio 1917” è stata
desunta “grazie al ritrovamento nell’Archivio Aleramo, di una busta vuota, con timbro postale Livorno 4 gennaio 1917, diretta a
Firenze. Il testo conferma la provenienza e la data coincide con quella della cartolina illustrata LXIX” (Sibilla Aleramo, Dino
Campana, Un viaggio chiamato amore, Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 98-100). Vedi anche Gabriel Cacho Millet Lettere di un povero diavolo, Firenze, Edizioni Polistampa, 2011, pp. 237-239.

4 Il riferimento a Garsia è nella lettera LXXI del carteggio Aleramo-Campana. La datazione, “Livorno, 4 gennaio 1917” è stata
desunta “grazie al ritrovamento nell’Archivio Aleramo, di una busta vuota, con timbro postale Livorno 4 gennaio 1917, diretta a
Firenze. Il testo conferma la provenienza e la data coincide con quella della cartolina illustrata LXIX” (Sibilla Aleramo, Dino
Campana, Un viaggio chiamato amore , Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 98-100). Vedi anche Gabriel Cacho Millet Lettere di un
povero diavolo, Firenze
, Edizioni Polistampa, 2011, pagg. 237-239.

5 G. Cacho Millet, op.cit., pag. 34.

6 Augusto Garsia, op. cit., pag.10.

7 Augusto Garsia, op.cit., pag.41.

8 Augusto Garsia, op. cit., pag. 43.

9 Augusto Garsia, op. cit., pag. 50.

10 Augusto Garsia, op.cit., pag. 350.

11 Augusto Garsia, op.cit., pag. 383.

12 Augusto Garsia, op.cit., pag. 393.

13 Augusto Garsia, op.cit., pag. 394.

14 Jacopo, figlio di Angiolo Silvio Novaro, morì durante la prima guerra mondiale e lo scrittore pubblicò un’opera di intensa
commozione: Il fabbro armonioso, (Milano, Fratelli Treves, 1919).

15 Pubblicate in Il giornale di politica e letteratura, Anno III 1927- Anno IV 1828..

16 Qui il testo è particolarmente aderente alla lirica Quando gioconda trasvolò la vita (vedi: Silvano Salvadori, Quaderno, Dino
Campana prima dei Canti Orfici, Marradi, Edizioni del Centro Studi. 2011. Pp.197-198), poi confluita nella Genova dei C.O.

17 Augusto Garsia, op. cit., pagg.107-108.

18 Augusto Garsia, op. cit., pag. 250.

19 Augusto Garsia, op. cit., pag.315.

20 Augusto Garsia, op. cit., pag.320.