DINO INEDITO

 

In 32 lettere di Campana le amicizie e i Canti Orfici

 

di Fernanda Gigli e Giuseppe Risso

 

da La Stampa di Torino, Speciale TuttoLibri, 01/07/1989  numero 660 pagina 6

 

 

 
Gli inediti dell'epistolario di Dino Campana sono in tutto 32. Il primo, in ordine di tempo, è del maggio 1914 (anteriore quindi alla pubblicazione dei «Canti orfici» che sono usciti dalla tipografia di Bruno Rivagli nell'estate dello stesso anno); l'ultimo, del novembre 1917. Due mesi dopo Campana entrerà nell'ospedale psichiatrico di Castel Pulci, dove morirà di setticemia nel febbraio del 1932, all'età di 46 anni. Il carteggio è stato conservato nell'archivio di Lorenzo Gigli, per molti anni critico della «Gazzetta del Popolo».
Ci sono lettere e cartoline dirette a Dino Campana (17) e le missive (13) che l'autore dei Canti indirizzò ad Aldo Orlandi («l'unico essere vivente per me di Torino») a sua volta redattore per la terza pagina del quotidiano di via 4 Marzo. Tra le corrispondenze ci sono anche altri due documenti: la minuta, su richiesta di Campana, di una lettera di Orlandi al console di Francia di Torino («Egli desidererebbe entrare in servizio in qualche ospedale, possibilmente a Parigi») e il bizzarro conferimento della cittadinanza fiorentina, rilasciato «il giorno del giudizio» e stilato sui tavoli di una birreria.
 
E' uno scherzo bonario e un po' goliardico, ma anche una prova di stima dei suoi amici tra i quali troviamo Ottone Rosai, Emilio Settimelli, Ardengo Soffici, Fernando Agnoletti, Amerigo Bianchini. Nel carteggio figura anche una cartolina di Marradi con la scritta: «Dalla soffitta di via Mazzini». Il resto della corrispondenza porta le firme di Ardengo Soffici (che gli confessa candidamente di aver smarrito il quaderno con l'ultima e unica stesura dei «Canti», quaderno che è stato ritrovato nel 1971), di Papini: «Perché non va in Germania invece di pigliarsela con l'Italia?» (nazionalista com'era Papini non aveva digerito la dedica dei «Canti orfici» «a Guglielmo II imperatore dei germani»), di Emilio Cecchi, di Camillo Sbarbaro e di altri ancora. Cecchi, ormai in pianta stabile al «Corriere della Sera» (la lettera è del 10 febbraio 1915), è cortese, affettuoso, propenso ai ricordi: «In quella stretta via di Genova, di notte, seduti perché stanchi, sulla sporgenza di una cantina, mangiando delle uova e decidendo di noi».
 
Sbarbaro gli tende una mano («a Genova hai un amico») e cerca di metterlo in contatto con la rivista «Riviera». I temi delle lettere di Campana a Orlandi sono invece di ben altra natura. Sono pagine agitate da due vortici tempestosi: il problema dell'esistenza (di uomo e di poeta) e la relazione con Sibilla Aleramo, scrittrice a quel tempo già famosa (il suo romanzo «Una donna», del 1906, era stato tradotto in parecchie lingue). Per Campana è il primo amore (destinato a restare punico della sua vita): «Amo Sibilla e soffro orribilmente, ecco tutto!!».
 
Per Aleramo, «un delirio selvaggio» durato pochi mesi (dall'agosto al dicembre del 1916). Un abisso dalle pareti invisibili dal quale soltanto Sibilla è riuscita a emergere. A questo punto ci si può chiedere se gli inediti aggiungono qualche cosa alle informazioni che già si avevano sulla vita e sull'opera di Dino Campana. Il tassello che ne viene non è di prima grandezza, ma apre uno spiraglio sul suo soggiorno a Torino e sul ruolo assunto da alcuni corrispondenti. Il sorprendente, e qui sta l'emozione di questo nostro lavoro di riordino delle carte, è che questi suoi scritti costituiscono altrettante pagine di poesia, pagine in cui il dolore raggiunge il massimo della trasparenza.
 
Gli occhi di Campana, smarriti e intransigenti, fissano una realtà profanata con rapidità febbrile dal linguaggio essenziale delle allucinazioni. Le immagini seducenti dei Canti sono scomparse e la voce, che si è fatta più rauca, sembra provenire dal fondo dei tempi. Il problema dello stile non si pone più, sopravvive soltanto la purezza del suo sguardo che solleva, con intensità intermittente, i rivolgimenti della memoria sui fragili bordi della verità.