Luigi Bonaffini: Ordine e disordine in Campana,  "Genova" e la questione della quarta strofa

 

di LUIGI BONAFFINI

Brooklyn College

 

 

Prima edizione Forum Italicum, Vol. 13, n. 3, 1979

 State University of New York

 

Nella quarta strofa di "Genova," che è senz'altro il brano più noto e discusso di tutta l'opera di Campana, e che ha suscitato infinite polemiche, non ancora risolte dopo sessant'anni di critica campaniana, l'ambiguità del messaggio poetico si cristallizza nella sua forma più estrema e disarticolata. Al pieno sole di maggio della prima strofa sopravviene la sera, miscuglio di luce e di ombra: "I palazzi marini avevan bianchi / arabeschi nell'ombra illanguidita," ed il poeta cammina nella incertezza crepuscolare "nell'ambigua sera... / Ed andavamo io e la sera ambigua,"sotto "gli occhi benevoli" delle stelle, le "Chimere dei cieli":

 

Quando, Melodiosamente

D'alto sale, il vento come bianca finse una visione di Grazia

Come dalla vicenda infaticabile

De le nuvole e de le stelle dentro del ciclo serale

Dentro il vico marino in alto sale,

Dentro il vico che rosse in alto sale

Marino l'ali rosse dei fanali

Rabescavano l'ombra illanguidita,

Che nel vico marino, in alto sale

Che bianca e lieve e querula salì!

"Come nell'ali rosse dei fanali

Bianca e rossa nell'ombra del fanale

Che bianca e lieve e tremula salì:..."

Ora di già nel rosso del fanale

Era già l'ombra faticosamente

Bianca

Bianca quando nel rosso del fanale Bianca lontana faticosamente

L'eco attonita rise un irreale Riso: e che l'eco faticosamente

E bianca e lieve e attonita salì...

 

Tutti i critici hanno notato, se non altro, la sconcertante novità di questo linguaggio poetico, non solo rispetto alla poesia più tradizionale, ma anche rispetto ai movimenti d'avanguardia come il futurismo; per la maggior parte però, di fronte ad un fenomeno stilistico così inedito ed in nessun modo riducibile a modelli preesistenti, si è preferito o scartarlo del tutto o limitarsi a sottolinearne lo sperimentalismo ossessivo. Questo brano merita una discussione particolareggiata proprio perché ha contribuito più di ogni altro alla parziale e spesso totale incomprensione della poesia di Campana.

Già nel 1915, l'anno dopo la pubblicazione dei Canti Orfici, Boine, che d'altra parte offre osservazioni preziose poi riprese dalla critica posteriore, commenta:

 

Giungono momenti che il respiro nella gola s'affanna e la vertigine vince. Allora le parole ossessionano come gli incubi si dilatano come cechi di paura, si puntano come riluttanti viti all'abisso, finché l'onda via le travolge, meravigliosi frantumi in un gorgo canoro. La musica vince i discorsi, i vocaboli son fatti di voce, son simboli di suono con un polline vago d'immagini. Nuotano spersi come echi, si richiamano si ripetono sinfonizzano sciolti, senza badare alle logiche: si rincorrono, si frantumano in ansia d'espressione: ti danno lo spasimo dell'inesprimibile, ti sfanno in una liquidità di respiri, finché t'accorgi che il respiro è respirato, e la cosa da dire, è l'allucinata febbre, la lirica fremeva di una cosa ormai detta.1

 

"Ansia d'espressione," "spasimo dell'inesprimibile," "allucinata febbre," "lirica frenesia" rimarranno cifre costanti nella critica campaniana.

Solmi, che coglie l'importanza della musicalità nei Canti Orfici, continua su questa direzione, nonostante la dichiarata intenzione di non lasciarsi tentare: "dai comodi dualismi, facendo di Campana un grande poeta rovinato dalla follia, e scindendo con un taglio troppo netto quanto nella sua poesia è espressione raggiunta da quanto non è che ebbro vaneggiamento e incoerente frenesia." Parole sante, ma presto dimenticate:

E, su questa strada, si giunge alla breve lirica di "Batte botte," dove l'impressione di un passo rintronante sul selciato crea ritmi stranamente concentrici e ossessivi, o a quella intitolata "Genova," in cui il pensiero, fissatesi su tre o quattro parole, si frantuma in un balbettio demente.2

Anche Bo, nel saggio del '37, che è forse il primo studio veramente equilibrato della poesia di Campana, alle prese con la quarta strofa si vede costretto a ripiegare sull'interpretazione "ufficiale":

È Campana che non riesce più a parlare, che sente sfaldarsi le parole in un'ansia maggiore, in una ricerca sconosciuta e tremenda. La ripetizione è ormai ridotta a un inciampo, a un incidente d'ordine intellettuale. Sono parole che non lo soddisfano, che inutilmente tentano una via di convinzione, mentre ricadono necessariamente un minuto dopo, come nel cerchio di un'insistenza disperata. Parole che salgono in un'assenza di respiro e segno d'impotenza?3

Quello stesso anno Contini parlava della "fase magico-balbettata della poesia di Campana, tentativo di captare l'ideale magari attraverso l'assurdità verbale."4

II medico Pariani, che scrisse la ormai famosa biografia di Campana nel 1938, così commenta la quarta strofa di "Genova":

 

Qui si seguono vaghe apparenze perverse di passione, lacune del pensiero, della loquela, le tengono disgiunte; mancano i vincoli sia pure tenui che una lirica richiederebbe. E il Campana non era parolibero dadaista surrealista astrattista acmeista.5

 

Cioè non si tratta di un fatto stilistico, ma di squilibrio mentale puro e semplice.

E Alessandrini, a proposito di "Genova":

 

"Terribile cosa questo pensiero che oscilla con balbettio demente"6

 

Papini, che non riusciva a spiegarsi l'interesse suscitato da Campana e lo relega tra le "smanie della moda," aggiunge:

 

"Ma quegli stessi difetti, ch'eran dovuti al suo disordine mentale, son parsi, in un tempo che ha dimenticato la genuinità della poesia perenne, segni e avviamenti di nuova poesia."7

 

Raimondi chiama "balbettio verbale" la quarta strofa, dovuto ad una "fisiologica catastrofe."8

"Balbettio" era diventato un termine precondizionante alla fruizione del messaggio poetico campaniano. De Robertis, nel suo importante saggio del '47, a proposito della quarta strofa non può fare a meno di parlare di "un frantumarsi moleculare, un balbettio frenetico."9

Marco Forti, che pure fu uno dei primi ad analizzare sistematicamente lo stile di Campana, prescindendo da spiegazioni extracontestuali, nel suo studio particolareggiato di "Genova" continua ad insistere sull'idea di tentativo, di poesia non riuscita, di espressione non raggiunta:

 

... un tentativo infrenabile di immagini accavallate, bloccate nella loro stessa volontà di assoluto, nel volontario ricorso ad un ciclo, che non raggiunto fa cadere le immagini in folle e delirante velleità. Sotto questo angolo dovrà appunto vedersi il tentativo, l'infrenabile balbettio che si raggruma nei versi 43-47 [cioè la quarta strofa].10

 

Il primo vero tentativo di rottura con questo orientamento critico si ha con l'ottimo saggio di Parronchi, " 'Genova' e il senso dei colori nella poesia di Campana," del 1953. Infatti l'autore si augura che in conseguenza del suo esame: "questo verbo 'balbettare' potesse essere allontanato dalla definizione sia pure dei passi più tormentati della poesia di Campana.11

II critico fa notare come la scomposizione e la frammentazione dei piani in "Genova" corrisponda alle ricerche tecniche delle arti pittoriche contemporanee, il futurismo ed il cubismo:

In "Genova," rielaborando in un tutto unico le varie poesie degli inediti che avevano per soggetto quella città, che più di ogni altra lo aveva ispirato e rielaborando quelle poesie già vecchie per farle giungere ad una stesura definitiva, egli si compiace di rompere e frazionare in alcune parti il tessuto dei versi sottoponendoli ad un "trattamento" simile a quello che le ultime poetiche figurative impongono all'immagine.12

Insistendo sulla "coscienza formale" del poeta e sull’effetto caledeiscopico del frazionamento dell'immagine," Parronchi passa all'analisi formale della quarta strofa:

 

I due versi iniziali della strofa: "per i vichi marini nell'ambigua/sera cacciava il vento tra i fanali" ripropongono la scena che serve da sfondo. Ma, proprio come in un quadro futurista, i piani si accavallano.
Proviamo, con l'interporre degli spazi, a ridistendere questi piani, aricostruire le quinte della scena dove è apparsa la "Visione di Grazia":

 

Dentro il vico marino in alto sale
dentro il vico che rosse in alto sale

Marino l'ali rosse dei fanali

che nel vico marino in alto sale

 

Questi versi creano, nella loro stessa disposizione tipografica, lo sfondo tutto alterato da rifrazioni di luce.13

Per la prima volta la disarticolazione logico-sintattica viene assunta a conquista formale, e al discorso di Campana, "profondamente legato e continuo," viene restituita la sua coerenza espressiva.

I suggerimenti di Parronchi sollecitano interventi critici più attenti alla struttura interna del componimento e più sensibili alle innovazioni tecniche e stilistiche. Nel 1955 Gerola può già asserire decisamente:

 

Ma che il suo stato mentale abbia agito direttamente nel tessuto logico dei testi, penso si debba senz'altro escludere. Anche il passo, famoso, di "Genova" ("Come nell'ali rosse dei fanali... ecc.") che è stato sempre citato come una prova irrefutabile del corrodimento provocato dal male, in realtà non prova nulla. È un passo in cui il poeta attraverso la frantumazione del normale discorso, ricerca, armonizzando suono e colori, una nuova forma espressiva.14

 

Sono osservazioni acute, che riprendono il discorso di Parronchi, ma che non vengono verificate e collaudate sul testo, e rimangono nell'ambito dell'impressionismo critico, al di qua di una vera valutazione e definizione della "nuova forma espressiva." Ma non manca chi sostiene ancora la validità del rapporto tra disordine mentale e disordine espressivo: "La sua voce si smarrisce e precipita nelle allucinazioni incontrollate dello schizofrenico... Gli smarrimenti ossessivi del poeta sono un'altra cosa; basterà spiegarli con l'impotenza o con l'intrinseca debolezza del poeta." 15

Lo studio monografico di Bonifazi (Dino Campana, Roma: Edizioni dell'Ateneo, 1964) rappresenta senz'altro il contributo più ricco ed equilibrato di tutta la critica campaniana. Già allora, avvalendosi delle scoperte più recenti della critica moderna, il critico ha fatto vedere, in uno studio diacronico delle varianti, che la quarta strofa di "Genova" aveva già avuto una fase "normale" nel Quaderno, in cui non si manifestava nessuna "aberrazione" logico-sintattica del discorso. Dimostrava quindi che il "balbettio" di "Genova" era il "risultato di uno studio esigentissimo di stile."

Scoperta fondamentale questa, in quanto Bonifazi riconosce che l'ambiguità della famosa strofa è soprattutto di ordine semantico, onde la necessità di mettere in rilievo la valorizzazione semantica della parola e di aderire scrupolosamente al testo. Ma la scoperta del manoscritto di Campana nel '73 ha sollecitato un nuovo intervento di Bonifazi, questa volta al Convegno di studi su Campana, tenuto a Firenze in occasione del ritrovamento del prezioso manoscritto, da cui è riemersa un'altra variante della quarta strofa. Ecco dunque le due varianti, quella del Quaderno e quella de Il più lungo giorno:

 

(Quaderno)

Pel vichi fondi tra il palpito rosso

Dei fanali, sull'ombra illanguidita:

Al vento di preludio di un gran mare

Ricchissimo accampato in fondo all'ombra

Che mi cullava di venture incerte

Io me n'andavo nella sera ambigua

Nell'alito salso umano

Tra nimbi screziati sfuggenti

In alto da ogive orientali

Col caro mare nel petto

Col caro mare nell'anima

Or tremo. L'apparizione fu ineffabile

Una grazia lombarda in alto sale

Ventoso dolce e querula salia

(Vicendavano infaticabilmente

Nuvole e stelle nel ciclo serale)

L'accompagnava un vecchio combattente

Ischeletrito da sorte nemica

Dallo sguardo diritto, umile ed alto:

(Il più lungo giorno)

Tra i palazzi marini infra dei bianchi

Miti inscenati dal palpito rosso

Dei fanali sull'ombra illanguidita

Nel vento di preludio alto dal mare

Ricchissimo; accampato in mezzo a l'ombra

Io me ne andavo ne la sera ambigua

Vagando ad incerte venture

Cullato dagli occhi benevoli

De le Chimere nei cicli.

Quando

Melodiosamente in alto sale

Ventoso sorse dal mare la Visione di Grazia

Ne la vicenda infaticabile

De le nuvole e de le stelle dentro del ciclo serale

Su dal vico marino tra i fanali

Apparve (corretto in apparso) il dolce suo viso languente

A me l'ignota melodiosamente

E bianca e dolce e querula salì

Quando: attonita faticosamente

L'eco lontana rise un irreale

Riso. Mi volsi.

 

Bonifazi fa notare come nei primi dodici versi, nel passaggio dal Quaderno al manoscritto, Campana abbia abbandonato le immagini di maniera ("nimbi screziati," "ogive orientali") e gli elementi aneddotici, conservando invece "il palpito rosso dei fanali," "l'ombra illanguidita," "il vento di preludio" e "la sera ambigua," che resteranno nella redazione dei Canti Orfici. I versi che seguono il dodicesimo ("Una grazia lombarda in alto sale ecc.") sono invece trasformati radicalmente, e depurati di qualsiasi intenzione narrativa e descrittiva. L'apparizione non è più una giovinetta, ma apparizione in senso assoluto, visione chimerica di una risoluzione del mondo che s'accende come una melodia ("melodiosamente") e come un'eco che viene da lontananze primordiali. Nel testo de II più lungo giorno la trasformazione mitica della realtà è già avvenuta, ma sono ancora ritenuti i legami logici e sintattici. Nei Canti Orfici invece il discorso si frantuma in una spirale di echi, colori, riprese anaforiche e modulazioni musicali. È questo l'avvio verso la conquista di uno stile veramente nuovo, per mezzo soprattutto dei due elementi stilistici che Bonifazi mette in rilievo, cioè il "come" attenuativo e il "che" posposto e ambiguo, che sostengono l'intarsio dei versi in modo che "la frase proceda per continue riprese e in un ritmo che sale veramente, e con una sintassi che non si confonde ma cerca di allargare il senso di una melodiosa ripresa dei membri."16 Ed il senso, cioè il senso logico, la cui profonda ambiguità aveva attirato tanti giudizi negativi, secondo il Bonifazi esiste, ed è questo:

 

Allora, melodiosamente, traendola dalla salsedine dell'aria, il vento finse come una specie di bianca visione di grazia, (traendola ancora) quasi dalla vicenda infaticabile delle nuvole e delle stelle dentro il ciclo serale, dentro il vico perché in questa alta salsedine marina le ali rosse dei fanali rabescavano l'ombra illanguidita, la quale (visione) nel vico marino, in alta salsedine, la quale (visione) bianca e lieve e tremula salì.17

 

Alla fine della sua analisi rigorosa, insistendo sulla riuscita realizzazione artistica della poesia di Campana, il critico così conclude:

 

Campana ha portato la sua folle fede soprattutto da poeta, l'ha proclamata in versi non folli, che spezzano la logica della sintassi ottocentesca, al di là di un d'Annunzio, "macchinista senza fuoco," e al di là delle stesse rotture di un Pascoli, attraverso un meditato lavoro artistico, di cui è ulteriore testimonianza (specie con le sue correzioni) il manoscritto ritrovato de Il più lungo giorno.18

 

A Bonifazi va dunque il merito di avere precisato e circoscritto il problema critico della quarta strofa nei suoi risultati stilistici, come deviazione dalla norma che non è aberrazione, ma potenziamento delle possibilità espressive del linguaggio e quindi precisa scelta stilistica da parte dell'autore. La dimensione orfica, di cui pure il critico ha documentato meglio di chiunque altro l'importanza per la poesia di Campana, agisce da sottofondo ideologico e religioso che predispone all'interpretazione mitica della realtà, ma non ha rapporto determinante di causalità con il fatto stilistico nella sua realizzazione concreta.

Tuttavia la questione della quarta strofa rimane aperta. Nel suo saggio del '67 Galimberti torna a subordinare lo stile di Campana alla sua tormentata condizione psichica:

 

II prezzo pagato, prima dal poeta che dall'uomo, è il medesimo che viene imposto al mistico mancato, che non porta a termine il cammino perché, nel momento del rischio più tremendo, procede senza scorte: identificandosi senz'altro con Dio, provoca la caduta del suo ,' Io inferiore in preda a pensieri stravaganti e a deliri e fa sì che l'Io superiore stesso perisca, appena nato, nel suo trionfo. Nel momento della massima tensione lirica nasce di fatto in "Genova" un contrasto senza possibile soluzione, che si riverbera nel disgregato discorso: "Quando ecc."19

 

Quindi il tentativo di esprimere l'inesprimibile risulta nella "afasia" di "Genova": "Nel balbettio di Campana e nelle parole in libertà dei futuristi l'arte muore vittima, rispettivamente, di suicidio e di omicidio."20

Il critico non vuole riproporre la "spiegazione sostanzialmente clinica" dello psichiatra Pariani, ma riafferma la mancata realizzazione artistica dei famosi versi. La posizione di Bonifazi è rovesciata e vengono ristabiliti i rapporti di causa-effetto tra i dati extralinguistici ed il messaggio poetico. Ma valida è forse l'obiezione mossa da Galimberti al tentativo di Bonifazi di ricostruire il tessuto logico della strofa e di leggere quei versi "come coerenti." Galimberti, però, non sembra fare distinzione tra coerenza logica e coerenza artistica, che non sono la stessa cosa. Bonifazi, infatti, rivalutando questi versi come riuscita realizzazione artistica, si propone principalmente di rivendicarne la coerenza formale e la validità delle scelte stilistiche in virtù del loro rendimento funzionale. La ricostruzione dell'ordine logico del discorso vuole essere una risposta alle varie accuse di balbettio, non presupposto o giustificazione della sua coerenza formale; un discorso che manca di nessi logici può manifestare una perfetta coerenza stilistica e viceversa; inoltre la mancanza di nessi logici non significa necessariamente l'assenza di una struttura (simbolica, tematica, emotiva che sia), ma soltanto l'assenza di una strutturazione razionale della realtà. Durante il Convegno di studi su Campana nessuno, come si era una volta augurato Parronchi, ha più parlato di " balbettio," ma d'altra parte nessuno, tranne Bonifazi, ha affrontato direttamente la questione della quarta strofa. Maura del Serra, che ha presentato un saggio sull'evoluzione degli " stati cromatico-musicali " nella poesia di Campana, parlando della quarta strofa riprende in parte il discorso di Parronchi:

 

Quanto alla celebre quarta strofa, è stata spesso citata come frutto della dissociazione psichica e linguistica di Campana; ma le rifrazioni visivo-uditive multiple e gli effetti di Klangfarbe (concetto del colore che risuona musicalmente teorizzato da Kandinsky) ... non hanno, così mi sembra, un senso "dionisiaco" e disgregante, quanto un valore di riverbero ascensionale e musicale..., e a formarlo concorrono in gran parte gli elementi vento-sera-vicoli-preludii, uniti alle gamme cromatiche del bianco marino (palazzi, mare, ciclo) e del rosso urbano (le ali rosse dei fanali).21

 

Questi accenni verranno poi ripresi ed ampliati nel suo studio monografico sulla poetica e la stilistica dei Canti Orfici (L'immagine aperta, Firenze: La Nuova Italia, 1973), di impronta strutturalista ed attentissimo alle strutture linguistiche e stilistiche. Gli elementi pertinenti della quarta strofa vengono considerati in base alla loro funzione e interazione reciproca nell'interno del componimento, e quindi l'aderenza al testo è rigorosa. L'idea di disgregazione e di dissociazione viene così rimpiazzata dal concetto di costruzione e di corrispondenza fra i vari elementi, che legittima invece l'unità di fondo del componimento. Le due varianti di questa strofa, quella del Quaderno e quella del manoscritto, confermano che avesse per Campana un significato particolare; ma che egli vi attribuisse un'importanza decisiva lo dimostra la ricorrenza quasi sistematica nei Canti Orfici dell'immagine della fiamma che si svelle dai lampioni. Quest'immagine-guida è il filo conduttore sotterraneo che si muove gradualmente ma inevitabilmente verso il definitivo momento epifanico di "Genova":

 

II mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mesceva e levava nell'odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi forme delle femmine tra i tentativi della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni.

   ("La notte")

 

La sera fumosa d'estate

dall'alta invetriata mesce chiarori nell'ombra

e mi lascia nel cuore un suggello ardente.

   ("L'invetriata")

 

Passeggio sotto l'incubo dei portici. Una goccia di luce sanguigna, la dolcezza dei seppelliti. Scompaio in un vicolo ma dall'ombra sotto un lampione s'imbianca un'ombra che ha le labbra tinte. ("La giornata di un nevrastenico")

Dall'altra parte della piazza la torre quadrangolare s'alza accesa sul corroso mattone su a capo dei vichi gonfi cupi tortuosi palpitanti di fiamme. La quadricuspide vetta a quadretta ride svariata di smalto mentre nel fondo bianca e torpida a lato dei lampioni verdi la lussuria siede imperiale. («Piazza Sarzano»)

Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d'oro, nel mentre all'ombra dei lampioni verdi nell'arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea. ("Crepuscolo mediterraneo")

L'uso dell’immagine-guida, come filo connettivo che lega i vari componimenti, è una costante dei Canti Orfici; ami il leitmotiv musicale o tematico costituisce il tentativo più geniale di Campana di risolvere sul piano stilistico il problema del tempo ciclico del libro. Come nota Galimberti, il leitmotiv, ricongiungendo i vari momenti di un'esperienza in un'unica immagine ripetuta all'infinito, tende a sovvertire la dimensione spaziotemporale che divide le varie parti del libro e a ricrearla come identità e unificazione. Il leitmotiv è anch'esso un "ritorno di se stessi", un rispecchiamento, un altro strumento della distruzione della realtà necessaria alla sua ricostruzione mitica.

Gli elementi costitutivi della quarta strofa sono già presenti (i vichi fondi, il vento che mesce l'aria salmastra, la fiamma-il rosso-che tenta di sollevarsi dai lampioni), ma manca del tutto la tensione lirica e la dissoluzione cromatico-musicale di quest'ultima. La visione non si è ancora manifestata. Come si è notato, l'apparizione riteneva una forma precisa nel Quaderno ("una grazia lombarda") ed era perfino accompagnata da "un vecchio combattente." Notazioni quasi realistiche che si fondono nella descrizione della passeggiata serale. Ma il testo del manoscritto, nel momento dell'apparizione, si distacca marcatamente da quello del Quaderno. L'apparizione è ormai diventata "una Visione di Grazia," un'ignota dal "dolce viso languente," sorta "melodiosamente" dal mare e formata "in alto sale ventoso," e viene introdotta dal "quando" isolato nel verso, che è la nota iniziale di un'atmosfera di attesa e di epifania. Ed ora la visione si accende "melodiosamente," come una musica dolce che sale dalla profondità dell'essere, ed è la vibrazione sonora del "bianco" della visione, della sua origine trascendente. Nella stesura finale il brano subisce una ulteriore trasformazione.

I legami sintattici e logici, ancora regolari nella variante del manoscritto, vengono attenuati od aboliti interamente, e sostituiti invece, come sostegno strutturale del discorso, da una fitta rete di corrispondenze ritmico-foniche, mediante l'uso ossessivo dell'iterazione. Cosicché i dodici versi del manoscritto, a cominciare da "Quando..." fino a "l'eco rise un irreale riso" diventano ventuno nei Canti Orfici. Viene eliminato qualsiasi riferimento all'aspetto fisico della visione, che si muta in pura vibrazione cromatico-musicale: "Che bianca e lieve e querula salì / Bianca e rossa nell'ombra del fanale / Che bianca e lieve e tremula salì." L'aggettivo "rosso," corrispettivo cromatico della condizione dolorosa dell'uomo, apparso una sola volta nel manoscritto, viene ripetuto sei volte nella stesura finale, sempre in opposizione al "bianco" della visione che sale, ripetuto sette volte.

La sintassi è sostenuta dal "che" e dal "come" alogici: "Melodiosamente in alto sale / ventoso sorse dal mare la Visione di Grazia / Ne la vicenda infaticabile" del manoscritto diventa: "Melodiosamente / d'alto sale, il vento come bianca finse una visione di Grazia / come dalla vicenda infaticabile..." E qui il "come" non serve a introdurre una similitudine, ma ha il significato attenuativo di "quasi," cioè la visione è "quasi bianca." Si tratta di una scelta stilistica che allenta volutamente i legami semantici e sintattici del discorso e quindi i vari rapporti di coordinazione-subordinazione che presuppongono un andamento lineare. I rapporti pertinenti, come si è detto, sono di carattere ritmico-musicale, sostenuti dall'iterazione, che in effetti non ha niente a che vedere con l'afasia, ma ha invece una precisa funzione stilistica nella struttura di questo particolare discorso poetico:

 

Che bianca e lieve e tremula salì

Come nell'ali rosse dei fanali

Bianca e rossa nell'ombra del fanale

Che bianca e lieve e tremula salì Ora di già nel rosso del fanale

Era già l'ombra faticosamente

Bianca

Bianca quando nel rosso del fanale

L'eco attonita rise un irreale

Riso

 

II contrasto simbolico tra il bianco ed il rosso, cioè la visione che si libera "faticosamente" dal "rosso" dei fanali, dalla realtà dolorosa dei "vichi fondi" e sale verso "i mille e mille occhi benevoli delle Chimere nei cicli," in alto al di là dei confini dell'umano, si risolve in un contrasto ritmico che costituisce l'innovazione più notevole dello stile di Campana. Gli aggettivi "bianco" e "rosso," oltre ad essere i nuclei significativi più rilevanti, sono anche i nuclei ritmici che scandiscono la frase melodica, impartendo un moto non lineare ma ascensionale e spiralico. La fase ascendente della frase melodica è sempre sorretta dalla spinta ritmica del "bianco," fortemente marcato e generalmente a principio di verso. La salita del bianco è sempre accompagnata da un ritmo ascendente: "Che bianca e lieve e querula salì."

La fase discendente che necessariamente segue ("Come nell'ali rosse dei fanali"-si noti che il "rosso" rappresenta la fase statica, il punto morto della frase musicale) viene immediatamente arrestata e rovesciata dalla ripresa ritmica del "bianco" dei due versi seguenti ("Bianca e rossa nell'ombra del fanale / Che bianca e lieve e tremula salì"). Con il verso seguente ricomincia la fase discendente ("Come nell'ali rosse dei fanali / bianca e rossa nell'ombra dei fanali") che però è di nuovo spezzata da quel "bianca" a principio di verso, ripreso nel verso seguente tutto teso verso l'alto ("Che bianca e lieve e tremula salì"). Questa è una sintassi originalissima, che si allarga e sale veramente per mezzo della spinta ascensionale della ripresa ritmica.

L'ombra della sera ed il rosso dei fanali sono stati dissipati dalla bianca luce della Grazia, e nella quinta strofa il " paesaggio mitico " del porto è giubilante di luce e di felicità. Il crepuscolo "brilla," gli alberi del battello sono "quieti di frutti di luce," la sera non è più "ambigua," ma "calida di felicità" ed il ciclo è un "grande velario / di diamanti disteso sul crepuscolo." Persino "i vichi antichi e profondi," che prima della visione erano "lubrici di fanali," legati alle catene rosse e sanguinanti del dolore, ora ricevono nel loro grembo purificato il "fragore di vita," la "gioia intensa e fugace" dei viaggiatori che invadono la "città tonante." Ma l'accordo universale, raggiunto con tanta dolorosa fatica, anche in Genova, la città del più chiaro giorno, sintesi di tutte le partenze e di tutti i ritorni, risulta provvisorio e fugace. L'ombra ricomincia a dilagare, l'incertezza e la sofferenza ritornano ad imprigionare l'uomo, la stanchezza fa prostrare il mondo. La luce scompare lentamente e gli uomini ridiventano ombre perdute e vanno "terribili e grotteschi come ciechi."

Nella sesta strofa le persone appaiono ombre dietro le finestre, e così anche la "Siciliana proterva opulenta matrona" affacciata alla finestra del vico marinaro appare come un"'ombra cava" nel "torvo gioco" della luce vacillante, e si protende come "la Piovra delle notti mediterranee." Figura tentacolare e minacciosa, comparsa misteriosamente dal cavo della "notte fonda," sollecitata probabilmente dalla forma della gru cigolante che si staglia "nel cavo della notte serena." E nel momento in cui ella spegne la luce, la notte appare improvvisamente in tutta la sua immensa vastità: "Nuda mistica in alto cava / infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena."

Per il Ramat la "devastazione" della notte è negativa, e corrisponde alla "devastazione dell'opulenta carne umana" della matrona, simbolo sconsolato di devastata grandezza.22 Secondo il Bonifazi, invece, l'occhiuta devastazione: "non può giustificare nessuna interpretazione negativa, perché... il sostantivo ha valore assoluto e mistico, non significa guasto o rovina, significa una vastità dove si perdono i particolari, i fenomeni, il tempo." 23 II fatto è che anche qui, come sempre in Campana, la notte accompagna la dissoluzione delle cose. Anche se la cava devastazione racchiude un presagio di disfacimento e rovina, questo senso di attesa suscita una trepida attesa che punta verso l'avvenire. Il cuore, infatti, "batteva un più alto palpito," pur essendo "debole," e la devastazione è occhiuta non perché incuta timore, ma perché in essa brillano "i mille e mille occhi benevoli / delle Chimere nei cieli."

Strutturalmente questa immagine è forse la più significativa di tutto il libro. Essa non appare né in Il più lungo giorno, né nelle numerose varianti di "Genova" esistenti nel Quaderno, e quindi mette in risalto la precisa volontà dell'autore di terminare i Canti Orfici con la contemplazione della notte, non nel "più chiaro giorno," come si era invece prefisso negli appunti del Taccuinetto faentino.24

"Genova" avrebbe dovuto rappresentare il punto culminante del passaggio dalle tenebre alla luce, cioè il momento in cui la palingenesi mistica è acquisita come forma spirituale definitiva; però l'itinerario di Campana dalle tenebre alla luce non segue un movimento unidirezionale o verticale, ma ciclico, in cui le tenebre seguono sempre la luminosità e viceversa. Su questo movimento s'impianta non solo la struttura del libro nel suo insieme, ma anche ogni singola tappa del viaggio. Come si è visto, la dialettica ombra-luce, rosso-bianco, dolore-speranza, fondamentale a tutto il libro, raggiunge il massimo d'intensità nella visione di "Genova," dove il ritmo circolare si fa ancora più evidente. Nell'immagine della notte tirrena che chiude l'ultima poesia dei Canti Orfici coincidono sia la fase discendente del movimento ciclico di "Genova", sia la fase discendente del movimento ciclico del libro. La partenza ed il ritorno sono la stessa cosa, e la fine del viaggio è anche il suo principio.


Note 

1) Giovanni Boine, nella Riviera ligure (agosto 1915).

2) Sergio Scimi, nella Fiera letteraria (26 agosto 1928), poi in Scrittori negli anni (Milano: il Saggiatore, 1963), p. 54.

3) Carlo Bo, nel Frontespizio (dicembre 1937), poi in Otto studi (Firenze: Vallecchi, 1940), p. 125.

4) Gianfranco Contini, in Letteratura, Voi. 4 (ottobre 1937), poi in Esercizi di lettura (Firenze: Parenti, 1939), p. 26.

5) Carlo Pariani, in Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e Evaristo Boncinelli scultore (Firenze: Vallecchi, 1938), p. 80.

6) G. Alessandrini, nel Popolo toscano (6 ottobre 1938).

7) Giovanni Papini, in Passato remoto (Firenze: L'arco, 1948), p. 973.

8) G. Raimondi, nel Mondo, Vol. 219 (25 aprile 1953).

9) G. De Robertis, in Poesia, Voi. 6 (1947), 81.

10) Marco Forti, in Inventario, Voi. 5-6 (ottobre-dicembre 1953), 113.

11) A. Parronchi, in Paragone, Vol. 48 (dicembre 1953), 16.

12) Ibid., p. 21.

13) Ibid., p. 27.

14) G. Gerola, in Dino Campana (Firenze: Sansoni, 1955), p. 16.

15) M. Petrucciani, in Poesia pura e poesia esistenziale (Torino: Loescher, 1957), p. 12.

16) N. Bonifazi, in Dino Campana oggi (Firenze: Vallecchi, 1973), p. 73.

17) Ibid., p. 73.

18) Ibid., p. 77.

19) C. Galimberti, Dino Campana (Milano: Mursia, 1967), p. 72.

20) Ibid., p. 72.

21) M. del Serra, in Dino Campana oggi, p. 96.

22) Silvio Ramat, nel commento ai Canti Orfici e altri scritti (Firenze: Vallecchi, 1966), p. 141.

23) N. Bonifazi, Dino Campana (Roma: Edizioni dell'Ateneo, 1964), p. 217.

24) Nel Taccuinetto faentino, a cura di Domenico de Robertis (Firenze: Vallecchi, 1960), p. 66, Campana offre uno dei rari commenti, caratteristicamente succinto, sul suo "libro": "Parte prima del libro i notturni e il libro finisce nel Piu [sic] chiaro giorno di Genova e la discussione sull'arte mediterranea."

 

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