La notte o della gioia tragica

 

di Tiziano Salari

 
 
 

Dino Campana è l’unico poeta italiano che dice di sì alla vita sulle orme di Nietzsche. È questo, a libro chiuso, il sapore dei Canti orfici. Campana è il solo poeta del Novecento a cui si addice il concetto di “gioia tragica”. II mondo come fenomeno tragico, gioioso, affermativo. È questa la musica segreta che percorre il libro. Non il preludio di Tristano e Isotta, con le sue onde di morte. A quella musica si ispira D’Annunzio nel Trionfo della morte, che mescola Schopenhauer e Zarathustra, Wagner e Nietzsche. Musica funerea e negatrice. Non essendo mai possessivo, l’eros di Campana non conosce mai il suo risvolto oscuro, Thanatos. E tuttavia la gioia a tragica. Perché?


Canti orfici disegnano la vicenda di una soggettività estranea alla ferrea necessità a cui è assoggettata la vita individuale. (Michelstaedter l’aveva chiamata “rettorica”, e se ne era sottratto col suicidio). Campana cerca di evadere dalla “rettorica” mantenendosi al margine delle leggi della “mostruosa assurda ragione” (L’incontro di Regolo). La poesia non nasce per lui all’interno del circolo protettivo di una professione riconosciuta o di una sicurezza sociale che la garantisca e la delimiti come un sospiro dell’anima o un accompagnamento in sordina dello svolgersi quotidiano e tranquillo dell’esistenza. Questo è Saba, con il Canzoniere composto da vari libri che scandiscono le diverse età della vita, il romanzo dei rapporti con la città e gli amori, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia. In Campana è l’esistenza stessa che vive poeticamente la propria esclusione. Non c’è sviluppo psicologico, scansione temporale, lotta, proiezione affettivà. È una poesia senza rete, una poesia a cui manca il “tu”.

Difficile pensare che Campana potesse scrivere altri libri, delineare una carriera poetica, un percorso a diversi stadi di concezione e di risvolti soggettivi (come Ungaretti, Montale, Luzi o Zanzotto). Il tempo dei Canti orfici è assoluto, unico, estatico.

Una volta che il corso del tempo viene sospeso, e nella memoria si sprigiona la visione, si attua una dissociazione tra la soggettività empirica e la soggettività poetica, per cui a quest’ultima viene ad essere precluso il ritorno. La soggettività poetica infonde nel reale (anche il più squallido) una profondità mitica, che realizza una fusione tra inconscio storico, collettivo, e interiorità del poeta, che viene ad estinguersi nel puro dispiegarsi della visione. L’io scompare: al suo posto subentra l’onda emozionale che investe la memoria e di cui il poeta cerca di trovare un equivatente nel linguaggio.

“Inconsciamente”. Tutti i Canti orfici avvengono sotto il senso della memoria involontaria, perché è stata la vita stessa del poeta a trascendersi, nell’atto stesso di essere vissuta, come un risarcimento per l’infinita perdita di sé, la continua deriva del Dino Campana anagrafico inseguito da cartelle cliniche e fogli di via, in fuga da se stesso, dalla famiglia, dal suo tempo, dalla letteratura e dalla chimica. La poesia di Campana nasce da questo senso di essere al fondo, sul fondo, al di là di qualsiasi “rettorica” esistenziale, in cui di colpo il mondo s’illumina come uno spazio cavo e femmineo che si apre alla pura sensualità della visione.

Il paesaggio con cui si apre La notte è stupefacente. Il ricordo evoca e di colpo trasfigura le immagini della visione. Come in un quadro. Leggere questa apertura è come se ci ponessimo di fronte al dipinto di un grande artista, e cercassimo di scoprirne l’enigma. Il tempo è abolito, quell’ora, quell’attimo, quel colore, quel “refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo” della “vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa sulla pianura sterminata nell’Agosto torrido”, sono fissati una volta per sempre, per l’eternità. Ora il rapporto tra tempo ed eternità, in cui l’eternità è da concepirsi come tempo immobile, senza divenire, assume in Campana una valenza piuttosto complessa. Si noti l’intrecciarsi tra la chiusura del primo paragrafo (“e del tempo fu sospeso il corso”) e l’incipit del secondo (“Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani”).

L’inconscio, come già aveva teorizzato Freud, è per definizione fuori dal tempo, o senza tempo, o senza sviluppo temporale, come la “volontà” di Schopenhauer o la “sostanza” di Spinoza. La visione di Campana (o lo stupore, come è stato scritto, che accompagna le sue visioni) accade dunque sub specie æternitatis, e il poeta ne è pienarnente (filosoficamente) consapevole. Solo sub specie æternitatis la realtà miserabile si esalta nella sua unicità, si impone come presenza intrascendibile e insieme sprofondata nel mito, come La tempesta di Giorgione o la Veduta di Delft di Vermeer o La notte stellata di Van Gogh.

L’iniziazione alla sessualità e alla poesia viene restituita dalla memoria come evento, in cui l’io si sdoppia, da una parte in un io contemplante, dall’altra in un io che si muove “inconsciamente” all’interno della visione. Percezioni ed immagini si fondono in un evento puro, assoluto, affermativo, a cui è stata rasa sotto i piedi la radice psicologica e con essa l’immersione nel tempo. Non v’è un prima e un dopo nella presenza delle cose, un soggetto che le ordina all’interno di una sua personale esperienza del mondo, e cerchi di attribuire ad esse un senso. La ricerca di un senso nelle cose appartiene “alla mostruosa assurda ragione” (L’incontro di Regolo), a cui Campana si è sempre rifiutato di piegarsi “a sacrificare”. Non siamo neppure nel nietzschiano capovolgimento dei valori, in una contrapposizione (come da taluni critici è stata letta l’avventura campaniana), al filisteismo della normalità e della salute mentale. Campana non è un “poeta maledetto” nel senso francese della categoria (Baudelaire, Rimbaud, Verlaine), e in conseguenza non è neppure veggente (come, del resto, aveva decretato Contini). L’ascolto richiesto dal suo poema è piuttosto quello da riservare al mistico. “V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico” (Wittgenstein).

V’è davvero dell’ineffabile, nei Canti orfici. Le parole aprono intorno a sé un alone di silenzio. L’aggettivazione indeterminata - “pianura sterminata”, “Lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo”, “archi enormemente vuoti di ponti” - fa scaturire il poetico dalla meraviglia della visione che “mostra sé”. Il soggetto poetico è incorporato inconsciamente nella visione. Il paesaggio è come se fosse cavo, un’immensa cavità muliebre, come se la vulva di Furibondo fosse diventata l’intero mondo, e ciecamente avvolgesse il poeta in un abbraccio di amore e di morte.

Ma questo abbraccio è pieno di gioia e di riconoscenza. Non v’è una sola invettiva nei Canti orfici, né contro il suo tempo né contro la sorte, di cui peraltro i poeti non sono parchi (da Dante a Rimbaud). Lo sguardo di Campana è di una verginità assoluta. Non è una programmatica sregolatezza dei sensi che alimenta la sua poetica. Vi è peraltro un’estraneità del vagare, e l’abbandono totale a questa estraneità. Campana è un artista tragico, nel senso tratteggiato da Nietzsche nella Visione dionisiaca del mondo. “Devozione, straordinaria maschera dell’impulso vitale! Abbandono a un compiuto mondo di sogno, che conferirà la più elevata sapienza etica!"


L’articolo è stato pubblicato una prima volta nel libro Le asine di Saul (Anterem, Verona, 2002) e successivamente su “Capoverso”, rivista di scritture poetiche, n. 5, gennaio-giugno 2003, Edizioni Orizzonti Meridionali.


Tiziano Salari, (1938-2014), saggista e poeta, vanta una ricca produzione si saggi e di raccolte poetiche.
Tra le monografie critiche vanno almeno segnalate: Il grande nulla.Percorsi tra Ottocento e Novecento, Prefazione di Giorgio Bárberi Squarotti (Torino, 1998); Le asine di Saul (Verona, 2002); Il grido del vetraio, in collaborazione con Mario Fresa e con un saggio di Flavio Ermini (Salerno, 2005).
Tra le raccolte poetiche più significative vanno ricordate: Alle sorgenti della Manche, Prefazione di Giorgio Luzi (Torino, 1995); Il pellegrino babelico, Prefazione di Giuliano Gramigna (Verona, 2001).