Dino Campana

Da: Poeti italiani: il Novecento

 

a cura di: Romano Luperini, Pietro Cataldi, Floriana d’Amely

G.B. Palumbo Editore, Università per Stranieri di Siena, 1994


 

   Nella poesia di Dino Campana convivono due tendenze apparentemente inconciliabili. Da una parte si nota una immediatezza quasi primitiva nel rapporto con la realtà e nella sua rappresentazione. Dall'altra è evidente l'influenza, anche esplicita e confessata, di modelli di forte letterarietà (per esempio il poeta tardo-ottocentesco Carducci) o robustamente caratterizzati in senso ideologico (Nietzsche soprattutto). La stessa follia di Campana (lungamente rinchiuso in manicomio) è stata oggetto di due interpretazioni opposte: segno di un'autenticità vitale assoluta, incapace di compromessi sociali; adesione al modello culturale del "poeta maledetto" (e in effetti Campana conosceva il prototipo in area "simbolistico-"decadente di tale modello, il poeta francese Rimbaud). In verità non può essere scelta una chiave di lettura unica, dal momento che le due tendenze sono appunto entrambe presenti nel poeta: una forza di natura esistenziale entra violentemente in attrito con la convenzionalità e la inautenticità sociali, e vano è lo sforzo di incanalare e guidare la propria protesta entro categorie letterarie e culturali istituzionalmente giustificate.

   Al fondo della psicologia (e dell'arte) di Campana c'è un sentimento lacerante di esclusione e di disarmonia. In tale sentimento egli è di fatto vicino a molti altri poeti della sua generazione, e in particolare a quelli legati all'esperienza della rivista «La Voce» (per esempio Sbarbaro e Rebora). In tal senso, nel disadattamento e nello sradicamento di Campana si esprime in modo personale ma non isolato la instabilità della condizione intellettuale primonovecentesca (e della figura del poeta soprattutto). Ma la reazione di Campana si differenzia da quella degli altri poeti dell'espressionismo vociano per una tendenza a resistere nella nuova condizione tentando disperatamente di difendersene e di negarla. In particolare viene perseguito con insistenza un ideale di reintegrazione dell'io nell'armonia profonda delle cose (cfr. Donna genovese). Come si vede, è il mito centrale della tradizione simbolistica (rappresentato in Italia dal panismo di d'Annunzio, in piena attività negli anni creativi di Campana). Non stupisce, perciò, che Campana insegua una concezione alta e sublime della poesia, come momento misterioso di identificazione con la vita universale, e perciò come momento assoluto di verità: è questo il senso dell'aggettivo "orfico" che ricorre nel titolo della prima e unica raccolta pubblicata in vita dal poeta (Canti Orfici, 1914). Il modo in cui la letteratura si rivela capace di mediare il rapporto con la verità profonda della vita e del mondo consiste nella possibilità di stabilire una rete di riferimenti non univoci ma "aperti" e potenzialmente illimitati ai vari campi di esperienza del soggetto. La scelta delle parole e la loro collocazione nel testo rispondono all'intento di moltiplicare le analogie, di evocare allargamenti semantici veicolati soprattutto da atmosfere musicali e dall'alone indefinito di colore e di ritmo che si costruisce attorno ai vocaboli (si veda per un esempio la parte iniziale di Viaggio a Montevideo).

   Questo atteggiamento si riscontra soprattutto nelle poesie dei Canti Orfici, segnate molto più che non i numerosissimi "inediti" dal tentativo di dare una risposta positiva alla crisi individuale e storica della quale si è detto. Ma pur dentro il controllo letterario e ideologico dei Canti Orfici si sente il più delle volte agitarsi una diversa e più bruciante verità. La condizione dell'emarginato e il senso dello sradicamento erompono come radicali smentite della desiderata (e ipotizzata) armonia cosmica. Il soggetto appare sulla scena con i panni del vagabondo o dell'uomo sofferente tra la folla e nel momento stesso in cui la poesia accoglie e comincia a rappresentare tale realtà, rinunciando al ruolo armonizzante, essa è vissuta da Campana come una condizione di sconfitta e di fallimento. Il che rivela l'adesione della ideologia di Campana (e in qualche modo della sua poetica) alla tradizione simbolistico-decadente, portata ad attribuire all'arte ancora una funzione assoluta di guida e di conoscenza; e rivela il carattere per così dire necessitato della rinuncia di Campana a questa concezione, inadeguata a contenere le spinte più immediate, più "basse" e realistiche della sua esperienza. Anche in Campana, come in molti altri poeti del Novecento, la crisi del simbolismo è subìta come una dolorosa necessità e coincide con un sentimento di fallimento e di perdita.

   All'esaltazione della poesia come momento di armonia e di verità si contrappone dunque la degradazione feroce della figura del poeta; alla ricerca di un linguaggio indefinito e musicale, la brutale irruzione di un lessico crudo e plebeo. La sintassi conserva spesso i caratteri di apertura e ambiguità, ma con un risultato proprio opposto alla moltiplicazione analogica di stampo simbolistico: piuttosto è qui rappresentato in presa diretta un punto di vista alienato incapace di istituire rapporti ordinati, logici e gerarchicamente fondati nella conoscenza della realtà esterna; anche l'insistenza su parole-chiave assume i tratti di una coazione ossessiva, di una fissazione persecutoria angosciosa e lacerante. Il simbolismo, frustrato, si rovescia in furore espressionistico: dove il singolo oggetto o il singolo evento mostrano di non essere più in rapporto di familiarità e unità sostanziale con il tutto (secondo la poetica delle correspondances), ecco che assumono il carattere perturbante del particolare isolato dall'insieme, e in essi il poeta non può che riconoscere il proprio dissidio con la società e con le cose. La violenza espressionistica è anzi tanto più presente quanto maggiore era stato il bisogno di integrazione e di armonia. I temi possono essere gli stessi nei due atteggiamenti, ma vengono diversamente rappresentati. D'altro canto, i due atteggiamenti (quello simbolistico-decadente e quello espressionistico) si ritrovano a volte intrecciati, benché, come si è detto, il primo prevalga nei Canti Orfici e il secondo negli "inediti" (Viaggi sparsi, Quaderno, Taccuini, Abbozzi, Carte varie).

   Il tema del viaggio, per esempio, può esprimere una condizione privilegiata di apertura all'esperienza, di contatto con la molteplice realtà "cosmica", di armonia nel rapporto tra soggetto e oggetti; ma può anche diventare immagine di una situazione di sradicamento e di alienazione, incontrandosi con i temi tipicamente vociani ed espressionistici (cfr. soprattutto Sbarbaro) del vagabondaggio e del sonnambulismo. In questo secondo caso al paesaggio naturale viene di norma preferito quello cittadino, rappresentato da un punto di vista allucinato e deformante; nello scenario cittadino, caratteristico dell'espressionismo, prendono posto le figure di un'umanità degradata e dolente. Tra l'anonima folla spiccano i volti tragici degli emarginati e, tra tutti, quello del poeta stesso che si aggira portando con sé una carica di violenta aggressività e un bisogno indifeso di tenerezza: il fallimento del simbolismo comporta la fine delle mediazioni ideologiche tra disponibilità umana e condizione alienata di emarginazione, così che l'immediatezza dei bisogni e la loro frustrazione si manifestano insieme senza diaframmi, in una bruciante "presa diretta". Ogni incontro può suscitare una commossa adesione emotiva e psicologica (come in Donna genovese), o può al contrario liberare le energie aggressive. In particolare la tematica sessuale è rappresentata in termini sadici: la pulsione libidica diviene il canale stravolto per inscenare una ribellione e una reazione distruttive. È però anche un momento di verità: rivela il volto reale dei rapporti umani, data l'impossibilità sociale per l'individuo di esprimersi autenticamente: nasce da un bisogno autentico di rapporto e di conoscenza e configura i modi perversi nei quali tale bisogno è costretto a ridursi entro l'orizzonte degradato della società industriale di massa. In tal modo il legame che l'aggressione sadica stabilisce tra poeta e vittima contiene anche un processo di condivisione esistenziale e di identificazione (cfr. A una troia dagli occhi ferrigni).

   È in questa persistenza del bisogno di conoscenza e di intesa nelle condizioni stravolte della civiltà moderna che Campana rivela la propria continuità con l'esperienza dell'avanguardia vociana; sperimentando, del pari, nell'aspetto più significativo e valido della propria opera, la necessità di rinunciare a qualsiasi ideologia della bellezza e della superiorità armonizzante dell'arte, per aderire a un realismo espressionistico che nasce dalla realtà concreta dell'esperienza.


 

CENNI BIOGRAFICI

 

   Dino Campana nasce a Marradi (in provincia di Firenze ma al confine con l'Emilia-Romagna) il 20 agosto 1885. Frequenta le scuole nella vicina Faenza e poi a Torino. Tra il 1903 e il '13 frequenta a più riprese la Facoltà di chimica, a Bologna, a Firenze e a Genova, senza peraltro giungere alla laurea.

   Fin da giovanissimo (all'incirca dal 1900) inizia a dar segni di squilibrio mentale, certamente favoriti dalla ossessiva religiosità bigotta della madre, infelice e gelida, che lo accusa addirittura di essere l'Anticristo. Si alternano periodi di lucidità con momenti di furore anche violento. A più riprese è internato in manicomio (nel 1906, nel '09, nel '10), fino al ricovero definitivo del '18 nei pressi di Firenze. Non rari sono d'altra parte i problemi con la giustizia a causa del carattere a volte rissoso di Dino.

   Tra il 1903 e l'internamento del '18 viaggia moltissimo (in Russia e in Sud-America, oltre che in numerosi paesi europei), facendo i più diversi mestieri.

   Nel '13 consegna a Papini e Soffici, intellettuali molto in vista e direttori della rivista «Lacerba», il manoscritto di poesie Il più lungo giorno; ma Soffici lo smarrisce (verrà ritrovato solo nel '71), così che, non esistendone copia, Campana deve riscrivere le poesie a memoria. Nel '14 vengono editi a Marradi dalla Stamperia Ravagli i Canti Orfici, che Campana vende personalmente. Intanto entra in contatto con alcuni tra i più prestigiosi intellettuali del periodo, soprattutto fiorentini e liguri, e pubblica poesie su «La Voce», «Lacerba» e «Riviera ligure».

   Tra il '16 e il '17 ha una tempestosa relazione con la poetessa Sibilla Aleramo.

  Il 1° marzo 1932 muore nel manicomio di Castel Pulci, presso Badia a Settimo (Firenze), dopo quattordici anni di internamento, nel corso dei quali ha dettato al dottor Pariani, suo medico curante, notizie autobiografiche e riflessioni.


 

SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

   I Canti Orfici si leggono nella edizione a cura di F. Ceragioli, Vallecchi, Firenze 1985 (ediz. economica Rizzoli, Milano 1989). Il manoscritto smarrito da Soffici nel '14 e ritrovato nel '71 è stato ripubblicato in edizione anastatica con trascrizione critica in Il più lungo giorno, a cura di E. Falqui e D. De Robertis, 2 voll., Archivi (Roma)-Vallecchi (Firenze) 1973. La più recente edizione di tutte le opere (contenente quindi anche gli importantissimi inediti) è Opere e contributi, a cura di E. Falqui, M. Luzi, D. De Robertis, S. Ramat e N. Gallo, 2 voll., Vallecchi, Firenze 1973. Una Bibliografia campaniana (1914-1985), a cura di A. Corsaro e M. Verdenelli, è uscita presso l'editore Longo, Ravenna 1985.                                          

   Nella bibliografia critica domina un'interpretazione in chiave orfico-simbolistica, non del tutto condivisibile. Tra le eccezioni recenti vd. F. Muzzioli, Il problea, dell'allegoria in Campana, in «Allegoria» 1992, a. IV, n. 10, pp. 29-57 (con riferimenti bibliografici mirati).

 

Le più significative monografie sono:

 

C. Galimberti, Dino Campana, Mursia, Milano 1967;

M. Del Serra, Dino Campana,

La Nuova Italia, Firenze 1974;

R. Jacobbi, Invito alla lettura di Campana, Mursia, Milano 1976;

N. Bonifazi, Dino Campana, Ateneo e Bizzarri, Roma 1978 [1964].

 

Vd. poi il volume collettivo Aa. Vv., Materiali per Dino Campana, a cura di P. Cudini, Fazzi, Lucca 1986. Gli atti del convegno svoltosi a Firenze nel 1973 sono pubblicati in Dino Campana oggi, Vallecchi, Firenze 1973.

 

Una biografia A G. Turchetta, Dino Campana. Biografia di un poeta, Imagoimmages-Marcos Y Marcos, Milano 1985.

  

Di alto significato documentario ma discutibile la Vita non romanzata di Dino Campana di C. Pariani (il medico che lo ebbe in cura), ristampata a cura di C. Ortesta, Guanda, Milano 1978 [1938].


 

Dichiarazione di poetica

 

 

«Fabbricare fabbricare fabbricare»

 

   Mancando dichiarazioni esplicite di poetica da parte di Campana, si riproduce qui il testo di una significativa cartolina postale in versi inviata a Sibilla Aleramo da Marina di Pisa il 13 ottobre 1916.

   Alla logica dell'efficienza costruttiva della società di massa, Campana contrappone una concezione antifunzionale della vita e della poesia.

   L'imitazione del mare ha presentato come un'opportunità di tale concezione, così che il riconoscimento nei tratti della natura non valorizza soltanto il rapporto armonioso di corrispondenza fra realtà e soggetto (come nel simbolismo), ma sancisce anche la diversità di quest'ultimo nei confronti della ideologia produttiva dominante e la contrapposizione tra individuo e società. La poesia è perciò per Campana, al tempo stesso, una occasione di rapporto con le leggi profonde della natura e una espressione della irriducibilità sociale della diversità vitale (perturbante) del soggetto. Il che aiuta a valutare meglio la complessità della poetica campaniana, legata alla tradizione simbolistico-decadente e tuttavia significativamente distante da essa per molti aspetti.

 

Fabbricare fabbricare fabbricare

preferisco il rumore del mare

che dice fabbricare fare e disfare

fare e disfare è tutto un lavorare

ecco quello che so fare.

 

   Fabbricare, fabbricare, fabbricare [dice la legge sociale]. Io preferisco il rumore del mare che dice: fare e disfare [distruggere] [è] fabbricare [che comunica una logica non produttiva, ma legata alle leggi di natura]. Fare e disfare sono (è) un continuo (tutto un) lavorare: ecco ciò (quello) che io so fare.

 


 

L'invetriata

 

   Questo testo fa parte dei Canti Orfici (1914) e rappresenta un esempio importante dell'attrito di Campana con la tradizione simbolista e dei caratteri espressionistici della sua poesia.

   La contemplazione della sera costituisce un momento tipico della tradizione lirica: il confondersi delle forme consente una identificazione del soggetto nel paesaggio che la poesia simbolistica vive come accesso privilegiato alle leggi profonde dell'esistenza universale (cfr. per esempio La sera fiesolana di d'Annunzio). Qui però tale identificazione diviene impossibile a causa del carattere perturbante di minimi eventi circostanti, come l'accendersi di una lampada. In tal modo tra io e natura si apre un contrasto: alla bellezza pacificata della notte non può corrispondere la pacificazione del poeta, il quale avverte piuttosto l'eccezione dolorosa della propria ansia entro l'armonia apparente del cosmo. Non è qui presente perciò un «parallelismo tra la sera e il poeta» (Ceragioli), ma al contrario un contrasto: la differenza e la distanza tra natura e soggetto sono sottolineate a partire dal punto di osservazione, d'al di là di un vetro (e cfr. il titolo).

   Per queste ragioni, la replicazione di alcuni termini e di alcuni sintagmi non indica una ricerca di musicalità che esprima il dissolversi della voce del poeta nell'armonia del tutto; ma piuttosto attesta una condizione di ossessività ansiosa, espressionisticamente connotata. Le replicazioni non sciolgono il dato semantico ma lo ribattono freneticamente, incidendolo come una piaga. Si veda, oltre alle ripetizioni della forma verbale ha (tre volte in due versi: vv. 4 sg.) ed è (per cui cfr. METRICA e la nota ai vv. 4-7): sera (quattro volte: vv. 1, 8, 9 e 10), cuore (vv. 3 e 10), accendere  (vv. 4 e 5), lampada (vv. 4 e 5) nella stanza (ve. 6 e 7), piaga rossa languente (vv. 7 e 11), tremula e fatua (v. 9).

Metrica: Versi liberi, alcuni dei quali molto lunghi. Importante il ricorso a violenti enjambements, e in generale l'uso della spezzatura del verso, per valorizzare la 3a pers. sing. del vb. "essere" (quattro volte in undici vv.) e del vb. "avere" (una volta), che acquistano una sorta di valore assoluto, con l'effetto di lacerare ogni possibile armonia e di dare via libera all'irruzione di presenze perturbanti.

 

   La sera fumosa d'estate

Dall'alta invetriata mesce chiarori nell'ombra

E mi lascia nel cuore un suggello ardente.

Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende

[una lampada) chi ha

5    A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso

[la lampada? — c'è

Nella stanza un odor di putredine: c'è

              Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste

       di velluto:

       E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c'è

10   Nel cuore della sera c'è,

       Sempre una piaga rossa languente.

       Nella stanza una piaga rossa languente.

 


L'invetriata: o vetrata o vetrina: probabilmente quella di un locale pubblico (forse un bar), dall'interno del quale il poeta osserva la realtà esterna.

  1-3 [Osservata] all'alta [: posta in posizione elevata] vetrata (invetriata) la sera brumosa (fumosa) d'estate versa (mesce) [: spande] chiarori [: le ultime luci del tramonto] nel buio (nell'ombra) e mi lascia nel cuore un marchio (suggello) bruciante (ardente). Fumosa: piena di vapori che rendono indefiniti gli oggetti. Nell'ombra: quella della stanza dove sta il poeta. Mi lascia: mi mette in modo definitivo. Suggello ardente: è la ferita che il tramonto provoca nel cuore del poeta; non segno di un'armonia, ma di un sentimento già angoscioso di perdita e di fine. Il suggello (o sigillo; cioè 'marchio, timbro'; e quindi 'ferita') è ardente (cioè 'arde come il fuoco') forse perché impresso dal sole che tramonta; esprime comunque dolore vivo e lacerazione.

   4-7 (Sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) ma chi ha chi ha chi è chi è che ha acceso la lampada alla Madonnina del Ponte? — nella stanza c'è un odore di marcio (putredine) nella stanza c'è una piaga rossa sfinita (languente). All'arrivo dell'oscurità si accendono le prime luci: non è chiaro per altro se la parentesi del v. 4 si riferisca a lampade diverse da quella del v. 5 o alla stessa, dandone il primo annuncio; né è chiaro se, nel primo caso, si tratti di varie lampade che si accendono sul terrazzo e sul fiume o di una unica che si accende su un terrazzo che sta sul fiume (il fiume Lamone, che passa per Marradi, sotto la casa di Campana). In ogni caso, l'attenzione del poeta si concentra su tali fenomeni banali e consueti trasformandoli in rotture ed eccezioni rispetto al possibile equilibrio del paesaggio: il particolare della luce accesa alla Madonnina del Ponte si stacca dall'insieme e ne distrugge l'armonia, aprendo una domanda angosciosa e non soddisfacibile. L'odore di marcio che invade la stanza e la piaga che si scopre in essa sono la conseguenza di tale rottura nel rapporto con il paesaggio serale. Domina da qui in avanti una «contrapposizione fra esterno e interno» (Raboni). Chi ha... chi ha... chi è chi è: il passaggio dal vb. "avere" al vb. "essere" (con anacoluto) rivela la natura essenziale — cioè esistenziale — della domanda, al di là del puro aspetto cronachistico dell'evento e della possibile risposta; il che è confermato anche dalla replicazione (sette volte in sette versi) della forma verbale è, spesso in fine di verso. Madonnina del Ponte: «una Madonna di Marradi, del mio paese», ha spiegato Campana al dottor Pariani durante l'internamento definitivo in manicomio; ed è da considerare l'ipotesi che l'ambientazione del testo sia da collocare in una città lontana dal paese e che la domanda dei vv. 4 sg. esprima un'angoscia nostalgica e, dinanzi all'accendersi di varie luci davanti agli occhi del poeta, il dubbio riguardo all'accensione di quella alla Madonnina del Ponte. Una piaga rossa languente: è un aggravamento del suggello ardente (v. 3), come rivelano l’analogia tra rossa e ardente e la rima ardente : languente. La piaga che c'è nella stanza è perciò nel cuore del poeta. La piaga è propriamente una 'ferita che stenta a guarire' e, in senso figur., un ‘dolore insanabile’; languente (part. pres. del vb. languire, in funzione aggettivale) significa propriamente 'che va morendo a poco a poco; di grande debolezza (per malattia o altro)', e vale qui 'sfinita, senza la forza di reagire'.

  8-11 Le stelle sono [simili a] bottoni di madreperla e la sera si ricopre (si veste) di velluto [: il buio domina il cielo] e la sera superficialmente bella (fatua) e tremola [manda gli ultimi guizzi di luce]: la sera è superficialmente bella (fatua) e tremola ma nel cuore della sera [: in un punto nascosto del paesaggio] c'è c'è sempre una piaga rossa sfinita (languente). L'antropomorfizzazione del paesaggio naturale e dell'ora del giorno rientrano nella tradizione simbolistica; e qui la sera è appunto rappresentata come una donna elegantemente vestita (di velluto e bottoni di madreperla). Ma da tale rappresentazione il poeta prende poi recisamente le distanze, intanto denunciandola come superficiale, inutile e falsa (è questo il significato complesso dell'aggettivo fatua), e poi contrapponendole la verità profonda e autentica del dolore (la piaga) che si nasconde inevitabilmente dentro l'apparente armonia del paesaggio. Il v. 9 costituisce il momento decisivo di passaggio per tale contrapposizione: il primo emistichio sembra ancora appartenere alla descrizione antropomorfizzante (l'aggettivo fatua potrebbe riferirsi alla vanità appagata della sera-donna), mentre il secondo emistichio, riprendendo e scomponendo gli stessi termini (tremola e fatua) ne svela un significato più radicale e drammatico, preludio della conclusione tragica. Madreperla: è 'la parte interna di alcune conchiglie, di un bianco brillante'; se ne ricavano varie suppellettili e, p. es., bottoni. Velluto: è una stoffa pesante ricoperta di un pelo basso e morbido. C'è, (v.10): la virgola tra il vb. e il complemento serve a sottolineare la ripresa enfatica del vb. "essere", accrescendo la spezzatura dell’enjambement e isolando il verso conclusivo per un più intenso risultato tragico.


Viaggio a Montevideo

 

   Il testo che segue fa parte dei Canti orfici e racconta della lunga traversata marina realmente compiuta dal poeta per recarsi nel 1908 dalla Spagna all'America del Sud. La data di composizione della poesia va dunque collocata tra il 1908 del viaggio e il 1914 della prima pubblicazione.

   Il tema del viaggio ha in Campana una rilevanza ossessiva e congiunge l'instabilità psichica del poeta a una tendenza al vagabondaggio e al nomadismo frequenti nelle esperienze letterarie dei primi decenni del secolo (si pensi a Ungaretti e a Sbarbaro). Si legga questa dichiarazione rilasciata da Campana negli ultimi anni di vita al medico Pariani che lo seguiva durante l'internamento in manicomio: «Cominciai a viaggiare... viaggiavo molto. Ero spinto da una specie di mania di vagabondaggio. Una specie di instabilità mi spingeva a cambiare continuamente... Andai in America perché là è più facile trovare da vivere... Facevo il suonatore di triangolo nella Marina argentina. Sono stato portiere in un circolo a Buenos Aires. Facevo tanti mestieri. [...] Varie lingue le conoscevo bene... Viaggiando avevo delle impressioni d'arte; le scrissi... ».

   Viaggio a Montevideo presenta un taglio narrativo e avventuroso niente affatto frequente nella poesia italiana del nostro secolo. Ma d'altra parte appare più forte la tendenza a rendere astratti e indefiniti i lineamenti del paesaggio e lo sviluppo dell'azione; fino a trasformare l'avventura in una favolosa apertura al mistero. Risul­ta in tal modo qui chiarissima la duplice direzione della ricerca di Campana: scanda­gliare senza nessuna prudenza o esitazione l'abisso esistenziale e cosmico della vita, aprendosi al rischio della dissoluzione e dell'insensatezza; mirare alla ricostruzione di un'armonia complessiva delle cose in se stesse e tra io e mondo. Sul piano formale que­sta duplicità si sostanzia nello scontro tra la vocazione spesso espressionistica dello stile e la ricerca di una musicalità che colmi lo scarto tra soggetto ed esperienza.

   L'ossessione analogica qui riscontrabile e la presenza di alcuni tra i più appari­scenti luoghi comuni della tradizione simbolistica (la "sinestesia e l'anafora) non traggano perciò in inganno. La stessa incompiutezza del testo (e del viaggio) aiuta a valutare il blocco del tipico procedimento simbolistico: anziché svelarsi il segreto, o il senso, di un qualsivoglia aldilà o di una profondità, qui viene esperito k scacco del soggetto nei confronti di un mondo perturbante o estraneo non più disposto a concedere al poeta alcun privilegio di conoscenza. La fiducia estrema di Campana che dietro il conflitto tra so xetto e mondo o oltre la stessa portata perturbante delle rivelazioni della realtà si possano ancora celare un significato e una risposta ha a che fare con la scommessa non esplicitata su una nuova possibilità prospettica della poesia piutto­sto che con la nostalgia per i suoi appagamenti entro le coordinate del simbolismo.

Metrica: Versi Liberi.

 

   Io vidi dal ponte della nave

I colli di Spagna

Svanire, nel verde

Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando

5     Come una melodia:

D'ignota scena fanciulla sola

Come una melodia

Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola... Illanguidiva la sera celeste sul mare:

10   Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell'ale

Varcaron lentamente in un azzurreggiare:...

Lontani tinti dei varii colori

Dai più lontani silenzii

Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave

15  Già cieca varcando battendo la tenebra

Coi nostri naufraghi cuori

Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare.

Ma un giorno

Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna

20   Da gli occhi torbidi e angelici

Dai seni gravidi di vertigine. Quando

In una baia profonda di un'isola equatoriale

In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno

Noi vedemmo sorgere nella luce incantata

25  Una bianca città addormentata

Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti

Nel soffio torbido dell'equatore: finché

Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,

Dopo molto cigolio di catene e molto acceso fervore

 30  Noi lasciammo la città equatoriale

Verso l'inquieto mare notturno.

Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi

Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:

Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina

 35  Una fanciulla della razza nuova,

Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve

La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:

E vidi come cavalle

Vertiginose che si scioglievano le dune

40   Verso la prateria senza fine

Deserta senza le case umane

E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve

Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,

Del continente nuovo la capitale marina.

45   Limpido fresco ed elettrico era il lume

Della sera e là le alte case parevan deserte

Laggiù sul mar del pirata

De la città abbandonata

Tra il mare giallo e le dune …….

…………………………………....

                          


   

1-8 Dal ponte della nave io vidi sparire (sva­nire) i colli della (di) Spagna, mentre la terra SCURI nascondeva (la bruna tema celando) nel verde quasi (come) una musica (una melodia) dentro il crepuscolo color oro (d'oro): [vidi] sulla riva dei colli tremare [: risuonare] ancora una viola solitaria (sola), come una melodia blu [: serale] della sconosciuta (d'ignota) scena pura (fanciulla)... Versi di assai difficile spiegazione, dei quali si è proposta qui solo una tra le numerose letture possibili. D'altra parte è de­cisivo in questo caso soprattutto l'effetto d'insieme del passo, affidato anche all'indefinitez­za dei contorni sintattici, così come si annullano quelli delle montagne spagnole, mentre la nave si allontana inoltrandosi nell'oceano Atlantico. La fitta trama musicale dei versi tende alla fusione nel punto di vista del soggetto delle varie sensazioni provenienti dall'esterno, e in particolare allo scambio sinestetico tra i numerosi colori e i suoni (cfr. il passaggio dai vv. 4 sg., dove i colori rivelano una sostanza musicale, ai vv. 7 sg., nei quali è la musica a nascondere una qualità cromatica; e l'iden­tità dei vv. 5 e 7 funge da perno per il rove­sciamento ovvero da specchio per l'equivalen­za). Fanciulla: con ogni probabilità agg., riferito da altri a terra del v. 4, a esprimere la purezza verginale. Viola: è lo strumento mu­sicale ad arco simile al violino (però un poco più grande), ricco di vibrazioni (cfr. tremare); altri, meno bene, ha pensato al colore, per attrazione del fitto tessuto cromatico del passo.

9-17 La sera [color] celeste si spegneva (illanguidiva) sul mare: ciò nonostante (pure) di tanto in tanto (ad ora ad ora) i fruscii silen­ziosi (i...silenzi) delle ali (ale; plur. arc.) color oro (dorati) [degli uccelli] passarono (varca­ron) lentamente nell'azzurro (in un azzurreg­giare) :... in lontananza (lontani) colorati (tinti) di varii colori [e provenendo] dai silenzi più lon­tani gli uccelli color oro (d'oro) passarono nel­la sera celeste: superando (varcando) la nave già nel buio (cieca) [e] percuotendo (batten­do) [con le alt] l'oscurità (la tenebra) insieme ai (coi = con i) nostri cuori smarriti (naufra­ghi), percuotendo l'oscurità celeste le ali': so 2:1 sul mare. L'apparizione serale del volto silenzioso di uccelli marini è ancora un'occasione per misurare la complessità e quasi l'irresoluzione cromatica della situazione, per il mutevole riassestarsi degli equilibri di colore in rapporto alla posizione instabile degli uccelli, illuminati dal sole al tramonto e perciò color oro e anche però fusi nel cielo, più chiaro in alto e ancora azzurro, già nero all'altezza della nave e del mare. L'apparente libertà e superiorità degli uccelli, ovvero la libertà e superiorità che la loro apparizione rappresenta, acuisce la implicita malinconia dei partenti, colti nella improvvisa evocazione collettiva del v. 16. La figura della replicazione (di varcare e di celeste, tre volte, ma anche, due volte, di lontano e di battendo) rivela qui, accanto a una evidente (e primaria) funzione musicale, la tensione assunta dai particolari della descrizione, fino alla deformazione ossessiva per eccesso di ingrandimento o di attenzione. Da non sottovalutare la presenza di vari richiami letterari, a partire dagli stilemi danteschi ad ora ad ora (cfr. Inf. XV, 84) e già cieca (cfr. Inf. XXXIII, 73 ; da affiancare almeno ai portanti Io vidi dell'incipit e ed ecco del passaggio risolutivo al v. 36; e dantesco è pure l'uso assoluto del vb. varcare nel senso di 'varcare le acque, navigare' — cfr. Par. Il, 3). Interessante è anche la citazione mimetizzata dal noto coro «Va pensiero» del Nabucco di Verdi (ale, dorati e colli di contro a «Va pensiero sull'ali dorate,/va ti possa sui clivi, sui colli... »): il tema del coro è infatti appunto quello dell'esilio e della lontananza dalla propria terra, coerentemente alla situazione del partente. Dorati silenzi... dell’ ale: c'è sinestesia (per l'attribuzione cromatica di un dato sonoro) e c'è ipallage (per il riferimento dell'agg. al tennine improprio del sintagma). La tenebra l'ale celeste: celeste va riferito per l'iperbato a tenebra, così da formare ossimoro.

   18-21 Ma un giorno salirono sulla (sopra la) nave le maestose donne (gravi matrone) di Spagna dagli occhi misteriosi (torbidi = non limpidi) e ingenui (angelici) dai seni pieni (gravidi) di [: che provocano] conturbamento (vertigine). Il v. 18, eccezionalmente brevissimo, segna una interruzione del viaggio, uno scalo in Spagna: qui salgono sulla nave nuovi passeggeri, e in particolare fascinose donne capaci di turbare profondamente il poeta per la carica di sensualità e per la misteriosa complessità, anche contraddittoria, dell'aspetto fisico (cfr. la contrapposizione degli agg. riferiti agli occhi).

   21-31 Un giorno (quando) [ancorati] in un golfo (baia) profondo di un'isola equatoriale, in un golfo riparato (tranquillo) e profondo assai più del cielo di notte (notturno), noi vedemmo rivelarsi (sorgere) nella luce fascinosa (incantata) una bianca città [immersa] nel sonno, (addormentata) ai piedi delle montagne (picchi) altissime dei vulcani spenti nel vento misterioso (torbido) dell'equatore: finché dopo molti gridi (grida; il femm. è letter. e antiquato) e molte figure (ombre) di un paese ignoto, dopo molto cigolio [: rumore metallico] di catene e molto lavoro (fervore) vivace (acceso), noi lasciammo la città equatoriale verso l'agitato (inquieto) mare notturno. È descritto un altro scalo del viaggio, presso le isole portoghesi di Capoverde (secondo le indicazioni del poeta stesso): non lontane dall'Equatore, nell'Atlantico al largo della costa africana. La città del v. 25 è Porto Grande dell'isola di S. Vicente, scalo nelle traversate dell'Atlantico. Il racconto della sosta si apre e si chiude nella luce notturna (cfr. i vv. 2 e 21), che accompagna sia l'arrivo sia la partenza della nave. Al centro stanno la città e le attività umane di questa nuova tappa del viaggio, anch'esse ignote e cariche di mistero. Baia profonda: è una insenatura di mare che penetra in profondità nella terra dell'isola. La sua tranquillità (cfr. v. 23) si contrappone all'inquieto mare aperto della partenza (v. 31). La replicazione del v. 23, con l'aggiunta dell'agg. tranquilla, è come una correzione e un arricchimento della prima definizione (v. 22) e rientra nella ricerca costante di una musicalità basata principalmente sui meccanismi della ripetizione (e cfr. la facile rima baciata ai vv. 24 sg.). Sorgere: riferito al mostrarsi della città, indica forse che la sua prima apparizione si accompagna alle prime luci dell'alba, cioè al sorgere in senso proprio del sole. Vulcani spenti: le vette delle isole, di origine vulcanica. Torbido: l'agg., già usato al v. 20 in riferimento allo sguardo delle donne spagnole, ritorna nella descrizione di paesaggio, a mostrare il costante carattere misterioso e perturbante di questa esperienza, con riguardo speciale al contatto con l'alterità di uomini e nature sconosciuti.

  32-36 Andavamo andavamo [: navigavamo], per giorni e per giorni: le navi incontro passavano [: ci incrociavano] lente appesantite (gravi) di vele inumidite ) (molli) da (di) venti (soffi) caldi: così assai vicina (sì presso; sì = così) dalla coperta (di sul cassero) [della nave] ci (a noi ne; ne = ci, pleon.) appariva una fanciulla color bronzo (bronzina) della razza nuova sudamericana], [con gli] occhi lucenti 

e le vesti al vento! È qui condensato il racconto del tratto più lungo di navigazione, dalle isole di Capoverde al Sud America. Il corsivo finge che si tratti di una registrazione quasi diaristica, e collabora a collocare il passaggio in un'atmosfera di avventura favolosa, così come la replicazione di molti termini, a esprimere anche la monotonia e la lunghezza della traversata. L'apparizione di fanciulle di razza diversa sulle navi provenienti dalla meta verso la quale è diretto il poeta è il primo svelarsi del mistero che avvolge quelle terre, ma contemporaneamente un ulteriore elemento di alterità e di novità. Le vesti al vento della fanciulla sul ponte implicano analogia (e però anche contrasto) con le vele delle navi incrociate, per il rapporto frequente nella poesia di Campana tra le figure umane e la realtà degli oggetti: in questo caso la vivacità della presenza femminile si contrappone, per il suo annuncio di un orizzonte nuovo e di una meta fascinosa, alla monotonia senza sorprese della navigazione consueta, rappresentata dalla pesantezza delle vele, con la conseguente idea di lentezza del viaggio.

   36-44 Ed ecco che apparve alla fine di un giorno selvaggia la riva selvaggia laggiù (la giù) sul (sopra la = sulla) mare (marina) infinito (sconfinata): e vidi che le dune [: piccole colline di sabbia] si inseguivano (si scioglievano) [: si ripetevano l'una dopo l'altra] come cavalle scatenate (vertiginose) verso la prateria infinita (senza fine),  deserta, senza le case degli uomini (umane), e noi cambiammo rotta (noi volgemmo; sottint.: la nave) fuggendo le dune, [ed ecco] che apparve la capitale marina [: Buenos Aires] del nuovo continente [: l'America], [posta] su un mare giallo per la (de la) straordinaria (portentosa) ricchezza (dovizia) del fiume [: il Rio de la Plata]. Altri due passaggi importanti della navigazione: l'apparire della costa americana, con le sue caratteristiche particolari, e la visione da lontano di Buenos Aires, alla foce del Rio de la Plata. Il senso di avventura favolosa del viaggio e delle scoperte che lo accompagnano è sostenuto qui da numerosi nuovi elementi; e in particolare dagli aggettivi selvaggia (replicato per mettere subito in primo piano la sensazione immediata all'apparire della terra, oltre che per il solito desiderio di musicalità), sconfinata (ripreso a sua volta con senza fine), vertiginose (che richiama il v. 21) e portentosa (cioè 'miracolosa, fuori della norma'). La costruzione sintattica è orientata anch'essa a esprimere la sorpresa e la novità della visione, con quell'ed ecco che segna uno stacco brusco rispetto alla monotonia della navigazione (e che ricalca passaggi precedenti della poesia: ma un giorno. v. 18; quando, v. 21; finché, v. 27), la ripresa al v. 38 (e vidi) dell'incipit del testo a ribadirne la natura visionaria e a tratti quasi allucinata, la posizione in fine di periodo —e dopo inversione sintattica — del riferimento alla capitale marina (come a ripercorrere realisticamente la progressione delle scoperte, facendone risaltare con la costruzione il particolare più notevole e sorprendente). La musicalità basata sul meccanismo prevalente della ripetizione è qui assistita, oltre che dalla consueta ripetizione di alcuni termini, dalla rete fonica che circonda la parola-chiave dune (replicata tre volte — vv. 39, 42, 49 — quasi con ossessione e significativamente scelta come ultima prima della sospensione conclusiva): dalle assonanze di marina (vv. 37 e 44), fine (v. 40), umane (v. 41), alle quasi-rime di fiume (v. 43) e di lume (v. 45); così che non sarebbe forse sbagliato vedere in questa insistenza conclusiva il riconoscimento finale nel paesaggio stesso di quella sensualità femminile dominante lungo l'arco dell'intera poesia (dal fanciulla del v. 6 alle matrone dei vv. 19-21, alla fanciulla della razza nuova dei vv. 34-36): le colline/dune ripeterebbero insomma i seni gravidi di vertigine (v. 21), come suggerisce il riferimento dello stesso termine (vertiginose, v. 39) alle cavalle (e si noti il femminile) della similitudine con le dune.

   45-49 La luce (il lume) della sera era limpida, fresca ed elettrica e là [: a Montevideo] le alte [: in posizione elevata] case sembravano (parevan) deserte laggiù sul mare del pirata della città che avevamo lasciato (abbandonata) [: Buenos Aires] tra il mare giallo e le dune. Dopo essere passata al largo di Buenos Aires, la nave giunge finalmente a Montevideo, la meta del viaggio (cfr. il titolo). Ma questo arrivo non rappresenta la conclusione del racconto; piuttosto viene a collocarsi al suo interno come un ulteriore elemento favoloso, a sua volta aperto a sviluppi ignoti dell'avventura (è questo il senso dei puntini posti al termine della poesia, a indicarne appunto il carattere sospeso e inconcluso). Limpido fresco ed elettrico: in un testo fittissimo, soprattutto nella parte iniziale, di riferimenti cromatici, questi tre aggettivi esprimono, piuttosto che un possibile colore preciso, la sensazione provocata dalla luce serale nel nuovo mondo, sensazione di trasparenza, di ristoro e di vivacità. Alte case: quelle di Montevideo, poste sui colli del Cerro, in vista dell'estuario del Rio de la Plata, sul quale sorge Buenos Aires. Mar del pirata: secondo un suggerimento del poeta è detto così in riferimento a un'osservazione sulle Memorie dell’ "eroe" italiano risorgimentale Garibaldi, combattente nella giovinezza in quelle stesse terre; e l'espressione vale a sostenere il senso di avventura. Pirata: abbandonata: la stessa rima, facile e baciata, dei vv. 24 sg., per un analogo effetto di alone fiabesco attorno all'evocazione di una città. Mare giallo: accanto alla ripetizione ossessiva del vocabolo dune, va registrata l'insistenza di questo colore giallo delle acque dell'estuario fluviale, così vasto da poter essere chiamato mare: è un colore che si contrappone agli azzurri, verdi e bruni della costa europea della partenza. Anche il mare è presenza costante in questa conclusione della poesia (cfr. i vv. 37, 43, 44, 47, 49), vero protagonista del viaggio.

 


   

A una troia dagli occhi ferrigni

 

   Questa poesia è stata pubblicata soltanto dopo la morte di Campana. Il tema  è in generale lo stesso che nella precedente, quello della femminilità; ma qui essa è considerata nel suo aspetto animalesco e primordiale, come equivalente del mistero stesso della vita e delle sue forme oscure. La donna scelta per un impossibile dialogo è una prostituta, dominata da una carnalità inconsapevole e del tutto estranea alle domande del poeta, ruotanti attorno a questioni esistenziali. In tal modo la problematica della poesia si allarga a considerare anche l'incomunicabilità tra il poeta e la donna.

   Più in profondità, è bene avvertire che il tema della prostituta è spesso ricorrente nella poesia moderna da Baudelaire in poi: il poeta si riconosce nella condizione della prostituta, dovendo come lei vendere una merce che non sarebbe vendibile (la poesia, come lei l'amore). La scelta di un simile interlocutore in questo testo non è dunque casuale (e la si ritrova in altre poesie di Campana); mentre il poeta rivela l'ambivalenza di chi si identifica in una condizione (cfr. «che soffre / di te" vv. 16 sg.) e insieme, con le proprie inappagate domande di senso, tenta di distinguersene.

   Lo stile espressionistico valorizza soprattutto le parti verbali del discorso, mentre il lessico punta sulla crudezza e sulla violenza del realismo e della distorsione.

METRICA   Prevalenza di endecasillabi (sono decasillabi i vv. 1 e 12, ottonari i vv. 7 e 18).

 

Coi tuoi piccoli occhi bestiali

Mi guardi e taci e aspetti e poi ti stringi

E mi riguardi e taci. La tua carne

Goffa e pesante dorme intorpidita

5     Nei sogni primordiali. Prostituta...

Chi ti chiamò alla vita? D'onde vieni?

Dagli acri porti tirreni,

Dalle fiere cantanti di Toscana

O nelle sabbie ardenti voltolata

10    Fu la tua madre sotto gli scirocchi?

L'immensità t'impresse lo stupore    

Nella faccia ferina di sfinge

L'alito brulicante della vita

Tragicamente come a lionessa

     15    Ti disquassa la tua criniera nera

E tu guardi il sacrilego angelo biondo

Che non t'ama e non ami e che soffre 

Di te e che stanco ti bacia.

 

 

   A una troia.. ferrigni: il titolo violento e dissacrante costituisce già una parte organica del testo: l'attenzione è concentrata sullo sguardo della donna (che ha gli occhi ferrigni, cioè ‘colore del ferro: grigio scuro') e sulla sua condizione bassa (troia è modo di dire plebeo per 'prostituta') e animalesca (la troia è propriamente la 'femmina del maiale').

   1-5 Mi guardi con i (coi) tuoi piccoli occhi di animale (bestiali) e taci e aspetti e poi ti stringi [nelle spalle] e mi guardi di nuovo (mi riguardi) e taci. La tua carne [: il tuo corpo] senza eleganza (goffa) e pesante [: priva di spiritualità] dorme senza energia [interiore] (intorpidita) [: priva di coscienza] nei sogni primordiali [: in una condizione vicina a quella dell'origine animale della specie umana]. Prostituta...: La poesia inizia nel pieno di un'azione già in corso di svolgimento: probabilmente il poeta sta già rivolgendo alla prostituta le domande dei vv. 6-10, o comunque mostra già un comportamento inconsueto; da ciò si origina la reazione imbarazzata della donna, incapace di intendere le richieste del suo interlocutore. Della prostituta sono intanto messi in risalto i caratteri animaleschi e materiali, estranei alla problematica esistenziale del poeta; ella rappresenta piuttosto una forma di pura vitalità, la natura umana in quanto ha di originario (cfr. primordiali). Si noti l'insistenza del gruppo /r/+ consonante, di particolare asprezza tonica. Ti stringi: sollevando e stringendo le spalle per dichiarare la propria incomprensione dinanzi alle domande e allo strano comportamento del poeta, e forse anche per scusarsi di non saper rispondere e chiedere di essere lasciata in pace.

   6-10 Chi ti generò (chiamò alla vita)? Da dove (d'onde) vieni? [vieni] dai porti torbidi (acri) sul [mar] Tirreno (tirreni) [: sulla costa occidentale dell'Italia], [vieni] dalle feste (fiere) piene di canti (cantanti) della (di) Toscana oppure (o) tua madre fu fatta rotolare (voltolata) [in un brutale rapporto sessuale] nelle sabbie brucianti (ardenti) [del Sud] sotto lo Scirocco [: vento di Sud-Est]? Sono le domande del poeta: prima generali ed essenziali, poi particolareggiate e accompagnate da ipotesi (per favorire la risposta con dei suggerimenti, ma soprattutto per ferire la donna con insinuazioni offensive nel tentativo inutile di scuoterla). I vv. 7-8 costituiscono possibili risposte alla seconda domanda del v. 6; i vv. 9-10, alla prima ("ti ha generato forse una donna attraverso un amplesso nel quale è già implicito il tuo destino"). La rima intorpidita : vita (vv. 4 e 6) collega la condizione di incoscienza della donna alla sua oscura vitalità carnale. La tua madre: la presenza di art. e pron. poss. davanti ai nomi di parentela è dell'uso vernacolare soprattutto toscano.

    11-18 L'immensità ti ha segnato (t’impresse) un'espressione di meraviglia (lo stupore) nella faccia animalesca (ferina) simile a una (di) sfinge [: impenetrabile [.] Il respiro (l’alito) confuso (brulicante) della vita ti scompiglia (disquassa) tragicamente i tuoi folti capelli (la tua criniera) neri come a [una] leonessa [.] E tu guardi l'angelo biondo profanatore (sacrilego) [: il poeta] che non ti ama e [che tu] non ami e che soffre di te [: della tua esistenza e del tuo mistero] e che ti bacia stancamente (stanco) [: senza convinzione]. La punteggiatura è quasi del tutto assente in questi versi; e i suggerimenti contenuti nella parafrasi non escludono altri possibili legami sintattici, data anche la voluta "apertura" del testo da tale punto di vista. Viene ripresa la descrizione della donna, sul volto della quale domina un'espressione meravigliata e impenetrabile (vv. 11 sg.), resa più evidente dalle domande del poeta; mentre il disordine dei folti capelli neri è anch'esso un segno di feroce vitalità animalesca (vv. 13-15). Tale oscura vitalità è qui evidenziata soprattutto attraverso una insistita metafora con il mondo animale, e in particolare con una leonessa, alla quale appartiene la caratteristica della criniera e che è una "fiera" (cioè un animale feroce; da non confondere con l'*omofono del v. 8), da cui l'aggettivo ferina. Viene cioè ripreso l'aggettivo bestiali del v. 1. Anche l'energia dei verbi (t'impresse e disquassa, tra loro *consonanti), degli aggettivi (oltre a ferina, cfr. brulicante) e dell'avverbio tragicamente allude a questa violenta vitalità primordiale. Infine (vv. 16-18), la situazione iniziale (guardi; cfr. vv. 2 e 3) è superata dal gesto svogliato del poeta, che bacia la prostituta rivelando in tal modo di aver rinunciato alle proprie domande inappagabili e di accettare le convenzionalità della situazione, stando per così dire alle regole del rapporto (scambiandosi gesti d'amore senza amore). D'altra parte la conclusione segna anche una sorta di dolorosa congiunzione tra i due destini, legati dall'analoga condizione di vendere ciò che non sarebbe vendibile (il poeta, la bellezza; la prostituta, l'amore); il poeta è sacrilego (cioè offende ciò che è sacro) perché vorrebbe sapere quel che è il mistero inesprimibile dell'esistenza, ma — più in profondità —anche perché fa commercio di una cosa sacra qual è l’arte; e soffre / di te conferma il valore di identificazione del bacio finale. La presenza ossessiva (perché intatta nel proprio mistero) della donna è sottolineata nei versi finali anche dalla fitta replicazione dei pronomi di seconda persona singolare (sei in quattro versi: ti, tua, tu, t' <i>. te, ti). L'immensità: la vastità straordinaria della vita o, anche, più precisamente, la vastità di quegli spazi desertici nei quali la prostituta è stata concepita secondo l'ipotesi dei vv. 9 sg. (e anche i riferimenti alla sfinge e poi alla leonessa conducono verso uno scenario africano se non specificamente desertico). Si noti l'*allitterazione con il successivo t'impresse (l'IMmensità, t'IMpresse). Sfinge: la raffigurazione mitologica di una divinità egizia con viso umano e corpo di leone (cfr. il riferimento alla leonessa); famosa è quella di el-Giza, alta 17 metri. Il contesto suggerisce d'altra parte un riferimento anche al mito della tradizione greca, secondo il quale la Sfinge era un mostro che uccideva i passanti incapaci di risolvere il suo enigma, cioè di rispondere alle sue domande; nel testo di Campana, anche se a fare le domande è il poeta, il mistero (l'enigma) appartiene alla donna, e il poeta si sforza inutilmente di risolverlo. Secondo il mito, la Sfinge fu sconfitta da Edipo e spinta a uccidersi; questo particolare potrebbe forse aggiungere qualcosa alla interpretazione di questo testo, qualora si considerasse non solo di natura descrittiva il riferimento alla Sfinge, che nella sua rappresentazione più nota, quella egizia, ha un'espressione impossibile da decifrare (donde i modi di dire "volto di Sfinge", "atteggiamento di Sfinge", ecc.). Tragicamente: in modo violento, con un'implicita ragione di sofferenza. Angelo biondo: riferimento realistico alla folta capigliatura chiara di Campana, forse filtrata attraverso lo sguardo della donna. Ma quel che più conta è il contrasto tra il biondo del poeta e il nera della prostituta, tra l'angelicità di questo e la bestialità di quella; contrasto che rende significativo il congiungimento finale. D'altra parte il poeta oltre che angelo è sacrilego (con *ossimoro), cioè rappresenta un'altezza sacrale e contemporaneamente la abbassa e la offende; come in un noto poème en prose [poema in prosa] di Baudelaire al poeta urtato dalla folla cade nel fango l'aureola.

 


 

Donna genovese

 

Testo pubblicato solo dopo la morte di Campana e rivelatore di un aspetto non del tutto marginale della sua produzione: la ricerca di rasserenamento e di equilibrio. Qui la donna diviene occasione di un rapporto positivo e confidenziale con i segni della natura e del paesaggio, opportunità di armonia tra soggetto e leggi universali. Come altre prove di Campana (nei Canti Orfici e anche negli "inediti"), questa poesia testimonia la presenza di un fondo simbolistico nella formazione del poeta e aiuta a valutare l'aspetto tragico e per così dire necessitato dell’espressionismo antisimbolistico della sua produzione più significativa. E’ comunque notevole il fatto che la corrispondenza tra particolare e universale (e il riconoscimento armonizzante del secondo nel primo, secondo i modi della tradizione simbolistica) sia affidata a un tono più leggero e a una dimensione occasionale; laddove nei testi più "impegnati" e radicali il risultato è assai diverso.

METRICA Prevalenza di endecasillabi, con ipermetria al v. 7 (ma un *quinario è il v. 5, un *doppio settenario il v. 10 e un settenario il v. 12). Particolare rilievo ha il lungo eppure musicale verso conclusivo (nel quale è riconoscibile l'unione di un decasillabo e di un quinario), scioglimento lievissimo, anche sul piano metrico, della composizione.

 

       Tu mi portasti un po' d'alga marina

       Nei tuoi capelli, ed un odor di vento,

       Che è corso di lontano e giunge grave

       D'ardore, era nel tuo corpo bronzino:

5     — Oh la divina

       Semplicità delle tue forme snelle —

       Non amore non spasimo, un fantasma,

       Un'ombra della necessità che vaga

       Serena e ineluttabile per l'anima

10   E la discioglie in gioia, in incanto serena
       Perché per l'infinito lo scirocco

       Se la possa portare.

       Come è piccolo il mondo e leggero nelle tue mani!

 

 

   Donna genovese: cioè di Genova.

 

   1-4 Tu mi portasti un po' di alga marina nei tuoi capelli, e nel tuo corpo abbronzato (bronzino = color bronzo) [vi] era un odore di vento che è venuto (corso) da (di) lontano e arriva (giunge) carico (grave = pesante) di calore (ardore). La fisicità positiva della donna rappresenta un'opportunità di entrare in rapporto con gli elementi naturali, che appartengono al corpo femminile e ai quali esso appartiene, con uno scambio mutuo che costituisce la forza armoniosa della donna.

   5-12 Oh la divina semplicità delle tue [: del tuo corpo] forme snelle [: agili e magre], — [Il tuo corpo] non [suscita] amore, non [suscita] sofferenza (spasimo), [ma è] un fantasma [: una raffigurazione], un'ombra [: un riflesso] della necessità [: di ciò che avviene inesorabilmente] la quale (che) [ombra] si aggira (vaga; vb.) serena e ineliminabile (ineluttabile) entro (per) l’anima e la spinge alla (la discioglie in) gioia, [rendendola] serena nella magia (in incanto) così che (perché) lo scirocco [: vento di Sud Est] la [: l'anima] possa portare con sé (se) attraverso (per) l'infinito. L'esperienza felice dell'incontro con la donna è vissuta come esperienza insieme elementare (il carattere "divino" di lei consiste nella semplicità) e profondissima (legata a un destino "necessario"). Entrambi gli aspetti rendono riduttive le categorie consuete di rapporto: non si tratta perciò di amore, né è in alcun modo presente il tormento (spasimo) che quello necessariamente comporta. La semplicità della donna attraversa senza ostacoli l’interiorità (l'anima) del poeta portandovi serenità e gioia, e rendendola parte armoniosa della natura e dell'universo. La compenetrazione tra poeta e donna implica la fusione di soggetto e cosmo, lo scioglimento felice di quello in questa. — Oh la divina...snelle —: è un inciso di carattere esclamativo. Serena...serena: la replicazione (vv. 9 e 10) sottolinea il passaggio delle qualità della donna nel poeta. Lo scirocco: in parallelismo con il vento del v. 2, del quale la donna profuma; in lei è già contenuto il destino di annullamento *panico dei confini tra umano e naturale al quale il poeta aspira qui.

   13 Come il mondo è piccolo e leggero [quando si sta] nelle tue mani! Il contatto con la donna trasmette l'impressione di entrare in perfetta comunione con il mondo, che sembra piccolo e leggero in quanto il poeta si sente in armonia con esso. Anche la *rima eccedente anima : mani vale a legare l’interiorità del soggetto alla presenza fisica armonizzante della donna.