Giuseppe Manzitti: Storia di un ritrovamento fortunato

e di come i Canti Orfici non finirono nel cassonetto

di Giuseppe Manzitti
 Dedica a Luchaire sui Canti Orfici
... Avevo indicato nel titolo che avrei parlato dei Canti Orfici di Dino Campana. Terminò così con un libro italiano che mi ha coinvolto più di tanti altri. Esso costituisce, anche per la sublime grandezza del testo, uno dei miraggi più sognati dai collezionisti italiani di letteratura del Novecento. Oltre che un caso letterario, l'unico libro del disgraziato poeta di Marradi, costituisce infatti anche un affascinante caso bibliografico. Siamo nel 1914.

Il poeta, che, come è noto, finirà i suoi giorni nel 1932, a soli 47 anni dopo aver vissuto gli ultimi quattordici recluso in manicomio, fa pubblicare i suoi versi dal tipografo del suo paese, Bruno Ravagli: "un brute de mon village". Il suo disperato anelito di vedersi pubblicato non aveva trovato ascolto da parte dei grandi letterati fiorentini del momento cui aveva sottoposto il manoscritto, tra cui Giuseppe Prezzolini, Attilio Vallecchi, Giovanni Papini e Ardengo Soffici. Quest'ultimo smarrisce il quaderno con il manoscrilto, noto come Il più lungo giorno, nel 1913, durante un trasloco. La figlia Soffici, Valeria, lo ritrova, del tutto casualmente, nel 1971. È cronaca recente che il quaderno è passato in asta nel 2004. Se l'è aggiudicato, per circa 210.000 euro, l'Ente Cassa di Risparmio di Firenze che lo ha poi donato, quest'anno, alla Biblioteca Marucelliana di Firenze.1 I Canti Orfici vengono stampati in circa 500 esemplari (anche se la previsione era di mille copie) in una veste editoriale dimessa e su carta di poverissima qualità. Dino Campana, in un momentaneo fervore di simpatia per la Germania, lo dedica a "Guglielmo II Imperatore dei Germani" e sulla pagina di titolo e sull'ultima di copertina vi fa stampare la dicitura "Die Tragödie des letznen Germanen in Italien" ("La tragedia dell'ultimo tedesco in Italia"). Chiude la raccolta con due versi di Walt Whitman: "erano tutti stracciali e coperti col sangue del fanciullo", cioè col sangue del poeta assassinato.

In seguito Campana strappa da numerose copie le pagine con la dedica all'Imperatore, la quarta di copertina e quella di titolo con l'epigrafe al soldato tedesco che in alcuni esemplari si limita soltanto a cancellare. Le copie giunte sino a noi sono pochissime. Nel 1929 nel magazzino dell'editore ne erano rimaste invendute 210. Durante la Seconda Guerra Mondiale un battaglione inglese ne trovò, in un cascinale, una partita che diede alle fiamme per riscaldarsi...

Vi sono poi altre variabili tra gli esemplari noti dei Canti Orfici, tra cui quelle, numerose, determinate dalle dediche autografe del poeta. Per queste ragioni il libro di Campana, definito "un incunabolo del Novecento", "il raro best setter della poesia italiana del secolo scorso", offre uno dei più affascinanti campi di ricerca bibliografica.

Circa dieci anni fa la Biblioteca Marucelliana, sotto la direzione di Franca Arduini ne ha effettuato un censimento. Sono stati localizzati circa 5O esemplari in collezioni pubbliche e private e sono stati inventariati, ma non localizzati, altri 40 esemplari di cui si aveva notizia da epistolari o da altre fonti. Qualche ulteriore copia è apparsa nel frattempo sul mercato antiquario.

Lo scorso anno un libraio parigino mi telefona informandomi di averne disponibile una copia. Aveva osservato che un vicino scaricava libri nei cassonnetti della spazzatura. Offertosi di vedere la sua biblioteca scovava, tra molti scartafacci, una copia del nostro aureo libretto con una dedica e la trascrizione a mano di Campana di una lunga poesia.

I libri rari italiani degli ultimi due secoli si vedono di rado in Francia sul mercato antiquario ma il mio giovane libraio è colto e di buona memoria. Si ricordava dei Canti Orfici repertoriato nel catalogo, di cui gli avevo fatto dono, stampato in occasione della Mostra di alcuni libri della mia collezione tenutasi alla Civica Biblioteca Serio di Genova in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria della città, nel 2001, a Carlo Bo.

Parto per Parigi e trovo un libro in discrete condizioni e con una preziosa dedica autografa dell'autore. Naturalmente lo faccio mio: l'occasione è irripetibile. Né il venditore né tanto meno il libraio sono a conoscenza di notizie sulle vicende dell'esemplare, passato di mano più volte dal 1917, anno al quale gli studiosi carapaniani fanno risalire la dedica autografa del poeta.

II destinatario della dedica e della lunga poesia autografa che la segue occupando tre facciate del libro e, con tre righe, anche una quarta, è un francese. E non si tratta di un francese quelconque ma di un personaggio, come dire, forse un po' dimenticato, ma adattissimo ad essere evocato in un'associazione culturale italo - francese come questa che oggi mi da ospitalità. Si tratta di Julien Luchaire (Bordeaux, 1876 - Parigi, 1962) che fu alla Scuola francese di Roma nel 1897 e nel 1898 e che scrisse, nel 1906, un Essai sur l’èvolunon intellectuelle de l'Italie de 1815 a 1830. Insegnante di Letteratura italiana a Grenoble il Luchaire trovò il suo ruolo più autentico nell'organizzazione culturale. Fondò a Firenze il "Grenoble", il primo Istituto Culturale francese nel mondo che si fece subito apprezzare nei milieu culturali della citta. Negli anni precedenti la Grande Guerra si adoperò per l'entrata in guerra dell'Italia con l'Intesa e durante il conflitto fondò con Guglielmo Ferrero la Rivista delle nazioni latine (maggio 1916-aprile 1919).

Come mai Campana dedica al Luchaire con accenti drammatici ("A Luchaire alla /Francia / perché ci vendichi") questa lunga poesia (di cui esistono altre versioni con qualche variante nota anche come "Canto proletario italo-francese" o, dal suo incipit, "Come delle torri d'acciaio "?

L'attrazione del poeta per la Francia "Vindice" è documentata nel suo epistolario e si accentuò negli anni di guerra. Lo dichiara con enfasi in una lettera a Prezzolini del 4 ottobre 1915: "Se questa cultura [quella francese, n.d.r.] che adoriamo tornasse io le confesso che darei sul momento senza esitare la vita. Viva dunque la grande Francia [... ]".

Non sono documentati rapporti diretti tra Campana ed il Luchaire ma a lui si appella in una lettera scritta quattro giorni prima della definitiva reclusione nel manicomio di Castel Pulci, nel gennaio 1918: "[...] Scrivete a Luchaire, presidente dell'Istituto francese di Firenze che mi protegga. [...] io sono agli estremi". Naturalmente, dalla copia ritrovata a Parigi dei Canti Campana aveva strappato la pagina con la dedica all'Imperatore e cancellato la scritta in tedesco, sicuramente poco adatte ad un destinatario francese.

Sibilla Aleremo, nel periodo della sua travolgente passione amorosa per Campana frequentò la coppia Luchaire stringendo amicizia con la moglie Fernande (che diverrà in seguito la compagna di Gaetano Salvemini).

Fu infatti dalla villa dei Luchaire La Topaia, a Borgo San Lorenzo, che Sibilla partirà il 3 agosto 1916 per incontrare per la prima volta Campana.

(Ricordo, a titolo di curiosità, che anche nella copia regalata a Sibilla da Dino due giorni dopo il loro fatale incontro, dopo la "deflagrazione" come la chiamerà Mario Luzi, copia ora conservata all'Archivio Aleramo presso la Fondazione Granisci di Roma, figura lo slesso tasto poetico autografato, con qualche variante, della copia dedicata al Luchaire).

Negli anni Trenta il Luchaire inizia in Francia una tardiva carriera letteraria soprattutto teatrale. In una sua piece, Altitude 3200, recita nel 1937 la sua adolescente nipote Corinne, futura diva del cinema e amante sotto l'occupazione dell'ambasciatore tedesco Otto Abetz poi epurata e morta non ancora trentenne nel 1950.

Julien Luchaire morirà a Purigi nel 1962 sopravvivendo alla rovina dei suoi discendenti, in particolare del figlio Jean, padre di Corinne giornalista filotedesco fucilato nel 1946.

Questo esemplare scomparso per ottantanni non sa dirci nulla sulla sua storia né indicarci i nomi di coloro che ll’hanno via via posseduto dopo il Luchaire. Rievoca invece in maniera altamente suggestiva amicizie, intrecci e passioni che ebbero luogo ai tempi della pubblicazione dei Canti Orfici.

Ad una vicenda come quella di questo libro ritrovato dopo tanti anni pensava forse Giorgio Manganelli quando scrisse questa frase: "Il libro è una lettera senza busta né indirizzo che riguarda la vita di ciascuno di noi. E’ nostra ma anche di persone che non sono più o non ancora ".

(Da una conversazione tenuta dal collezionista-bibliofilo Beppe Manzitti all’Associazione Italia-Francia. Roma, 1 marzo 2005). 


Nota:

Sul manoscritto campaniano si legga il saggio di Gabriel Cacho Millet, Il Campana perduto, ritrovato e venduto, rivista "WUZ", n. 3, maggio- giugno 2004.