Per una poesia di movimento: le «Novelle a gran velocità» di Dino Campana1

di Marco Favero


estratto da «Lettere italiane», I, 2017

 

 

 

 


 

1. Le «Novelle a gran velocità»

 

«Procedo per sbalzi: natura facit realmente saltus, come è noto»,2 scriveva Campana in una lettera a Emilio Cecchi il 10 marzo 1915. E veramente, chi provi a inoltrarsi all’interno del mare di varianti che affollano i suoi scritti, si trova di fronte ai continui ‘sbalzi’ con cui il poeta procedeva anche nella propria scrittura. «Ma per continuare questa vita», aggiungeva Campana, «ci vuole veramente un coraggio da leone». Appunto ricorrendo al coraggio indicato dal poeta si cerca di ricostruire il caso del ripensamento, o meglio, della vera e propria caduta, di una intera sezione dei Canti Orfici, contenente le «Novelle a gran velocità».

Il progetto risale a una pagina del Taccuinetto faentino,3 il «quadernuccio per appunti» cui Campana affidava, procedendo «in entrambe le direzioni» di scrittura, «e cioè cominciando dai due estremi»,4 alcuni componimenti poetici e indicazioni «riguardanti la loro sistemazione in volume».5 Esso è riferibile a una fase di costruzione assai vicina ai Canti Orfici, compresa tra il dicembre del 1913 – momento della consegna a Papini e a Soffici del manoscritto del Più lungo giorno – e l’edizione dell’opera, data alle stampe nell’estate del 1914.6


1 Il presente lavoro è lo sviluppo di un più ampio studio di tesi magistrale, dal titolo Il movimento e la stasi nelle «Novelle a gran velocità» di Dino Campana: aspetti filologici, stilistici e ritmici.

2 DINO CAMPANA, Lettere di un povero diavolo. Carteggio (1903-1931). Con altre testimonianze epistolari su Dino Campana (1903-1998), a cura di G. Cacho Millet, Firenze, Polistampa 2011 («Il Diaspro - Epistolari», 13), p. 40.

3 La versione in stampa anastatica dell’appunto è consultabile nella recente edizione critica del Taccuinetto faentino (D. CAMPANA, Taccuini. I. Taccuino Matacotta, II. Taccuinetto faentino, edizione critica e commento di F. Ceragioli, Pisa, Scuola Normale Superiore 1990 («Pubblicazioni della Classe di Lettere e Filosofia», 7), p. 266).

4 La descrizione del Taccuinetto faentino è di Domenico De Robertis, curatore della prima edizione critica (D. CAMPANA, Taccuinetto faentino, a cura di D. De Robertis, Firenze, Vallecchi 1960, p. 17).

5 Ivi, p. 10.

6 Si accetta la datazione proposta da Fiorenza Ceragioli. Essa si fonda sulle somiglianze tra le indicazioni strutturali del taccuino e l’organizzazione finale dei Canti Orfici (D. CAMPANA, Taccuini. I. Taccuino Matacotta, II. Taccuinetto faentino, edizione critica e commento di F. Ceragioli cit., pp. 219-221). Il dibattito non è risolto, se nella edizione critica dei Canti Orfici – anch’essa del 1990 – Giorgio Grillo data il Taccuinetto al 1912, pur riconoscendo alcune aggiunte successive, in ogni caso precedenti al Più lungo giorno (D. CAMPANA, Canti Orfici, edizione critica a cura di G. Grillo, Firenze, Vallecchi 1990, p. XXI)


L’idea di riunire, in una stessa sezione «a gran velocità» dei Canti Orfici, alcune «novelle» dalla denominazione marcatamente futurista7 si colloca pertanto nel periodo storico e biografico forse più misterioso della vita di Campana,8 durante la stesura del suo unico libro.

Il titolo della sezione, insieme al riferimento dei testi che dovevano comporla, è annotato all’inizio di «un elenco dove è ben visibile il programma per gli Orfici»,9 testimoniando secondo Alberto Asor Rosa «uno stadio ormai avanzato di elaborazione».10 Essa venne tuttavia abbandonata nei Canti Orfici, forse per il ripensamento di Campana sul ruolo da assegnare al futurismo nella propria poetica. L’esclusione è tanto più significativa, se si considera che le altre indicazioni dell’appunto, alla pagina 38 del Taccuinetto faentino,11 sono invece fedelmente rispettate:

Novelle (titolo del libro: incidenti) a gran velocità

Il russo l’incontro

da unirsi a impressioni di città prose e poesie finisce i notturni
Chiaro di luna poesia per ridere

Parte prima del libro i notturni
e il libro finisce nel Piu chiaro giorno
di Genova e la discussione sull’arte mediterranea.


7 Si confronti almeno il titolo di un testo di F. T. Marinetti, pubblicato nel dicembre 1913 su Lacerba: Correzione di bozze + desideri in velocità (FILIPPO TOMMASO MARINETTI, Correzione di bozze + desideri in velocità, «Lacerba», a. I, vol. XXIII, 1913).

8 È noto che il poeta si recò a Firenze alla fine del 1913 per proporre a Papini e a Soffici alcuni testi, in vista di una pubblicazione su Lacerba (ROBERTO MAINI – PIERO SCAPECCHI, L’avventura dei Canti Orfici. Un libro tra storia e mito, Firenze, Libreria Antiquaria Gonnelli 2014, pp. 15-16). Il materiale allora consegnato, così come quello precedente alla edizione dei Canti Orfici, risulta tuttavia nella maggior parte disperso. Oltre al Più lungo giorno, smarrito da Soffici e poi ritrovato nel 1971, dei testi che il poeta affidò a Papini restano quelli che non gli vennero riconsegnati, ora negli Autografi lacerbiani (Gli autografi «Lacerbiani» ritrovati, in GABRIEL CACHO MILLET, Dino Campana. Sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-1918, Firenze, Leo S. Olschki 2000 («Provincia di Firenze - Collana cultura e memoria», 16), pp. 25-73). Alla primavera del 1914 risalgono invece gli autografi inviati da Campana a Luigi Bandini, contenenti le poesie dei Notturni, ora Carte Bandini (ivi, pp. 1- 24). Resta invece la completa oscurità sugli ulteriori testi manoscritti e a stampa che, sicuramente disponibili a Campana anche dopo gli incontri con i fiorentini, sono serviti al poeta per completare la stesura dei Canti Orfici (R. MAINI – P. SCAPECCHI, L’avventura dei Canti Orfici cit., p. 27).

9 D. CAMPANA, Taccuini. I. Taccuino Matacotta, II. Taccuinetto faentino, edizione critica e commento di F. Ceragioli cit., p. 221.

10 ALBERTO ASOR ROSA, «Canti Orfici» di Dino Campana, in Letteratura italiana. Le Opere, IV.I, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi 1995, p. 361.

11 D. CAMPANA, Taccuinetto faentino, a cura di D. De Robertis cit., p. 66. La numerazione delle pagine non è di mano di Campana (il taccuino non possiede né un vero inizio né una fine), ma è stata apposta da De Robertis per «comodità di lettura e di identificazione delle parti» (ivi, p. 18).


 

A cadere insomma è la parte più antica nell’appunto, segnata in corsivo nella trascrizione.12 Sulla pagina Campana era tornato in più riprese: in un primo intervento, egli ha apposto il titolo con il lapis «Novelle a gran velocità», indicando i riferimenti dei testi «Il russo l’incontro» che forse dovevano comporre la sezione (nei Canti Orfici, Il Russo e L’incontro di Regolo);13 solo in un secondo momento, invece, è tornato su quanto aveva scritto, inserendo il nuovo «titolo del libro» e le «ricche chiose»14 delle proprie notazioni a penna. Esse tracciano un «abbozzo sommario della struttura del libro»15 che corrisponde, nelle più grandi linee, a quella realizzata nei Canti Orfici.

Nel libro infatti le due prose Il Russo e L’incontro di Regolo seguono i testi che recano «impressioni di città», ovvero «Firenze in prosa e Firenze (Uffizii) in poesia, Faenza, Scirocco (Bologna)»,16 Frammento (Firenze) e La giornata di un nevrastenico (Bologna). Esse chiudono inoltre la sezione poetica dei «Notturni»17 («parte prima del libro»), cui seguono i testi definiti «Novelle a gran velocità» insieme ad altre prose nel capitolo Varie e frammenti. Fra le due sezioni si inserisce il ciclo della Verna (già in quella posizione, insieme ai Notturni, nel Più lungo giorno), con l’aggiunta di nuove prose e poesie18 che nei Canti Orfici hanno inizio con Immagini del viaggio e della montagna.19 Quanto a «Chiaro di luna poesia per ridere», esso dovrebbe indicare, secondo Fiorenza Ceragioli, la Petite promenade du poète non inserita nei Canti Orfici, quando non rappresenti piuttosto «il progetto, poi non realizzato, di una poesia contro i futuristi che avevano dichiarato la morte del chiaro di luna».20 Infine i Canti Orfici si chiudono, come previsto dal Taccuinetto, con i componimenti dedicati a Genova.


12 La prima stesura è riconoscibile dal segno a lapis, mentre in tondo si segnalano le aggiunte in penna. Nella Nota al testo si avverte della direzione B di scrittura dell’appunto, opposta a quella (A) che ha per inizio l’estremo con le notazioni su Faenza: «P. 38, direzione B, senso longitudinale. Anche qui i caratteri corsivo e tondo distinguono il lapis ordinario dalla penna. Solo che qui il lapis si limita ad annotare, a grossi caratteri, due titoli, che la penna affianca e sviluppa con ricche chiose, affollando la pagina di una scrittura fitta e a tratti minuta» (ivi, p. 66).

13 I due testi, ancora inediti all’epoca del Taccuinetto – e in uno dei casi, esistenti forse solo in fase progettuale – trovano riscontro nelle prose pubblicate nei Canti Orfici con i titoli Il Russo e L’incontro di Regolo. Dell’«incontro» non è pervenuta alcuna versione precedente alla stampa del 1914. Una stesura del «russo» è invece disponibile all’epoca dell’appunto: non inserita nel Più lungo giorno, essa era però compresa nelle carte consegnate a Papini e Soffici nel dicembre del 1913, e ora negli Autografi lacerbiani.

14 Ibid.

15 A. ASOR ROSA, «Canti Orfici» di Dino Campana cit., p. 361.

16 D. CAMPANA, Canti Orfici, con il commento di F. Ceragioli, Firenze, Vallecchi 19873, p. 313. Scirocco (Bologna) è l’unica delle «impressioni di città» a seguire le novelle poetiche, tuttavia l’appunto che reca «da unirsi» non indica per forza la successione ordinata delle prose, quanto invece l’unità del raggruppamento.

17 Ci si domanda cosa intendesse Campana con il titolo Notturni all’epoca del Taccuinetto, dal momento che una sezione così denominata non compare nel Più lungo giorno. La testimonianza più antica del gruppo di poesie, prima di diventare una sezione dei Canti Orfici, è consegnata alle Carte Bandini (G. CACHO MILLET, Dino Campana. Sperso per il mondo cit., pp. 1-24).

18 Si tratta di dieci componimenti, sette dei quali non comparivano nel Più lungo giorno.

19 Osserva A. Asor Rosa: «Nell’incerta struttura grafica del volume Immagini del viaggio e della montagna potrebbe esser considerato in maniera egualmente legittima sia il titolo del singolo componimento “... poi che nella sorda lotta notturna”, sia il titolo dell’intera sezione che segue, dedicata appunto al tema del viaggio, che arriva fino a La giornata di un nevrastenico. Da qui comincia il rinnovamento più radicale nella struttura del testo, quasi del tutto nuovo. La Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici ha il valore di una dichiarazione di poetica della modernità, e forse proprio per questo è inserito qui, oltre che per il riferimento della pittura a un cafè chantant d’America (che è comunque ambientazione esotica)» (A. ASOR ROSA, «Canti Orfici» di Dino Campana cit., p. 360).


Ci si domanda a questo punto perché Campana abbia lasciato cadere, nella costruzione dei Canti Orfici, proprio il progetto delle «Novelle a gran velocità». Sul titolo infatti il poeta era tornato ad operare, inserendo dopo la parola «Novelle» (avendola inoltre sottolineata a penna)21 una nota posta fra parentesi tonde: «titolo del libro: incidenti»:

 

Novelle (titolo del libro: incidenti) a gran velocità

 

Il russo l’incontro.22

 

L’aggiunta suggerisce la volontà di raccogliere le novelle poetiche in un «libro» distinto del volume. In questo senso, non costituisce una innovazione isolata nel materiale preparatorio di Campana, trovando il parallelo in un analogo intervento del Più lungo giorno.

Nel manoscritto del 1913 infatti, proprio all’estremo confine inferiore della pagina lasciata bianca che precede due novelle poetiche (Passeggiata in tram fino in America e ritorno23 e Pampa) si trova, certamente inserito successivamente alla stesura delle prose,24 un titolo assai simile a quello del Taccuinetto: «Il viaggio e l’incidente». Esso è posto a introduzione di una parte del manoscritto segnata dal numero romano come la terza, costituita dalle due novelle poetiche.

Quale rapporto esiste tra i due interventi? Forse l’appunto più tardo, annotato nel Taccuinetto, è da intendere come la ripresa del titolo del Più lungo giorno, lasciato allora a uno stadio di incompletezza.25 È possibile quindi che il poeta, tornando sulla sezione appena abbozzata («Il viaggio e l’incidente»),26 abbia trascritto nel proprio taccuino, nel progetto di una aggiunta a quella parte, i titoli di due testi da completare in vista del libro futuro. 


20 D. CAMPANA, Canti Orfici, con il commento di F. Ceragioli cit., p. 219.

21 Osserva F. Ceragioli: «La sottolineatura di Novelle e le parole tra parentesi sono state scritte successivamente a penna» (D. CAMPANA, Taccuini. I. Taccuino Matacotta, II. Taccuinetto faentino, edizione critica e commento di F. Ceragioli cit., p. 267).

22 D. CAMPANA, Taccuinetto faentino, a cura di D. De Robertis cit., p. 66.

23 Titolo a sua volta «aggiunto dopo», e schiacciato nell’esiguo spazio utilizzabile sul margine superiore della pagina, come annota D. De Robertis (D. CAMPANA, Il più lungo giorno, 2 voll. Vol. I. Riproduzione anastatica del manoscritto ritrovato dei Canti orfici. Vol. II. Testo critico a cura di D. De Robertis, prefazione di E. Falqui, Roma- Firenze, Archivi-Vallecchi 1973, p. 67). Il titolo diventerà più sintetico nei Canti Orfici: Passeggiata in tram in America e ritorno.

24 Ivi, p. 65.

25 Nel Più lungo giorno mancano i numeri romani riferiti alle due sezioni precedenti a Il viaggio e l’incidente, forse testimoniando l’aggiunta tarda e non ancora ultimata della numerazione.

26 La sezione è priva almeno di un testo che descriva la seconda parte del titolo: «l’incidente». Il Più lungo giorno infatti, dopo i testi di Passeggiata in tram fino in America e ritorno e Pampa, prosegue senza interruzioni con i componimenti destinati a Genova, il primo dei quali si intitola Il canto di Genova. Preludii mediterranei.


Nei Canti Orfici le prose riferibili all’appunto sarebbero infatti Il Russo e L’incontro di Regolo: ciò confermerebbe la datazione piuttosto tarda del Taccuinetto e l’effettivo superamento della struttura ancora disorganica del Più lungo giorno.27

Tuttavia, perché le prose non costituirono una sezione «a gran velocità» nei Canti Orfici? E per quale motivo non vennero raccolte in una parte intitolata «incidenti»? Dell’‘incidente’, in effetti, una traccia nei Canti Orfici è però rimasta.

Nel testo L’incontro di Regolo compare per la prima volta nel libro la parola «incidente»,28 fino a quel momento soltanto nei titoli dei manoscritti. La triplice concordanza così ricavata29 testimonierebbe le diverse fasi del lavoro di Campana. Inizialmente abbozzata nel Più lungo giorno con l’aggiunta del titolo «Il viaggio e l’incidente», la nuova sezione comprendeva due novelle poetiche30 al cui gruppo mancava ancora la prosa dedicata all’incidente.31 Essa venne allora completata in forma di appunto nel Taccuinetto, con l’aggiunta della novella «incontro», insieme a «Il russo» sotto il titolo «incidenti». La pubblicazione nei Canti Orfici dell’Incontro di Regolo segnerebbe infine il coronamento del progetto così ricostruito.

Benché la sezione degli «incidenti» non fosse alla fine realizzata, sono rimaste le «Novelle» definite «a gran velocità», tutte pubblicate nei Canti Orfici. Raggruppate tra il dicembre del 1913 e l’inizio del 1914, esse corrispondono nel libro a «Pampa e Passeggiata in tram, che si trovano il LG, e Il russo e L’incontro di Regolo».32 Fallito il progetto di una sezione che le raccogliesse, esse vennero collocate sotto il titolo più generico e imprecisato dei Canti Orfici: Varie e frammenti.


27 Secondo F. Ceragioli l’appunto presenta una struttura in cui «la disposizione del manoscritto Il più lungo giorno (1913) è ormai superata e ampliata» (D. CAMPANA, Taccuini. I. Taccuino Matacotta, II. Taccuinetto faentino, edizione critica e commento di F. Ceragioli cit., p. 219). Al contrario Stefano Giovannuzzi, curatore di una recente edizione del manoscritto (D. CAMPANA, Il più lungo giorno, a cura di S. Giovannuzzi, Firenze, Le Càriti 2004 («Mnemosine - La biblioteca delle Càriti», 1) rileva la sua complessiva unità, in certi casi addirittura maggiore rispetto ai Canti Orfici. Nel libro distingue «tre grandi sezioni»: assai unitarie sono le prime due, che «ruotano intorno a nuclei di prosa compatti: La notte mistica dell’amore e del doloreScorci bizantini e morti cinematografiche (poi La Notte) e La Verna note di viaggio (poi La Verna)», mentre proprio «la terza, Il viaggio e l’incidente, è quella che rimane più incerta, destinata ad essere dissolta nel volume del 1914» (STEFANO GIOVANNUZZI, Tra Nietzsche, d’Annunzio e Soffici: la genesi lacerbiana de Il più lungo giorno, in M. VERDENELLI et alii, Dino Campana «una poesia europea musicale colorita», Macerata, Edizioni Università di Macerata 2007, pp. 55-57).

28 L’osservazione è di F. Ceragioli: «L’incontro di Regolo reca a r. 21-22 L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente (cioè una traccia di quel titolo Il viaggio e l’incidente) con una o non avversativo ma dichiarativo: l’uomo ovvero il viaggio, il resto ovvero l’incidente; cioè il resto è quanto non dipende dalla volontà dell’uomo, ma lo condiziona» (D. CAMPANA, Canti Orfici, con il commento di F. Ceragioli cit., p. 274).

29 Nel Più lungo giorno il capitolo «Il viaggio e l’incidente»; nel Taccuinetto faentino il titolo «incidenti»; nei Canti Orfici la parola «incidente» nella prosa L’incontro di Regolo.

30 Passeggiata in tram fino in America e ritorno e Pampa.

31 Secondo F. Ceragioli è possibile che Campana, già all’altezza del Più lungo giorno, avesse definito l’idea del futuro L’incontro di Regolo: «Manca in LG, ma Campana deve avere avuto già allora un’idea di questo capitolo, che tuttavia non ha sviluppato, perché in LG p. 65 si trova, isolato, un titolo Il viaggio e l’incidente» (ibid.).

32 Ivi, p. 242.


Le quattro prose, poste l’una accanto all’altra in un gruppo non riconoscibile (di seguito e in ordine: Pampa, Il Russo, Passeggiata in tram in America e ritorno, L’incontro di Regolo) seguono le due poesie Barche amorrate e Frammento (Firenze) e introducono, tramite il passaggio della prosa Scirocco (Bologna) – già premettendo alla futura visione del Mediterraneo – i componimenti dedicati alla città di Genova, con i quali Campana ha sempre inteso chiudere il libro.33

L’intervento di Campana, che ha eliminato l’intera sezione e ne ha disposto i testi nel capitolo più disorganico del libro, ha a nostro avviso l’aspetto di un ripensamento sullo spazio da affidare al futurismo. Forse nel complesso la titolatura «dal sapore futuristico»34 non rispondeva al carattere della sua poetica.35 È vero infatti che Campana, in visita alla mostra futurista di Firenze nel gennaio del 1914,36 aveva trasposto in una poesia «la rossa velocità / di luci» rappresentata in un quadro di Soffici (Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici, vv. 5- 6),37 inserendola poi nei Canti Orfici; e che in Pampa ha descritto la «velocità di un cataclisma»38 raggiunta da un treno in corsa (sono queste le uniche occorrenze del sostantivo futurista ‘velocità’ nei Canti Orfici). Tuttavia il movimento d’avanguardia non riuscì a guadagnarsi un ulteriore riferimento, dopo quello esplicito a Soffici, all’interno del libro.

Resta da domandarsi che cosa intendesse Campana con la definizione «Novelle a gran velocità». Essa si può riferire, a nostro avviso, alla considerazione del tono generale e allo stile di movimento «a gran velocità» di alcuni testi, accomunati in uno stesso progetto durante la stesura del libro. Una indagine più approfondita, a questo punto, è possibile attraverso lo studio stilistico dei Canti Orfici, rintracciando nella velocità e nel movimento le basi della loro poesia.


33 L’osservazione è avvalorata da G. Grillo: «Pur abbozzato a grandi linee, l’assetto strutturale previsto dal taccuino definisce già, però, un’apertura notturna a cui far corrispondere circolarmente una chiusa luminosa, ‘mediterranea’, nella fattispecie ‘genovese’» (D. CAMPANA, Canti Orfici, edizione critica a cura di G. Grillo cit., p. XXII).
34 A. ASOR ROSA, «Canti Orfici» di Dino Campana cit., p. 361.

35 Campana non era futurista, in primo luogo per il fondamento classico e carducciano della sua poesia (si vedano le prose, per le quali si rimanda a: PIERO BIGONGIARI, La congiuntura Carducci-Campana, in Poesia italiana del Novecento, Firenze, Vallecchi 1965 («La cultura e il tempo», 9), pp. 27-40). Egli è più influenzato dal decadentismo e dal simbolismo che dalle parole in libertà. In esse il poeta non ravvisava l’armonia ricercata nei propri testi, come ha confessato al medico Pariani: «Il verso libero futurista è falso, non è armonico. È una improvvisazione senza colore e senza armonie» (GIOVANNI BONALUMI, Cultura e poesia di Campana, Firenze, Vallecchi 1953, p. 63). Nonostante l’affermazione, «il fermento delle novità tecniche simboliste, che egli ben conosce, e più tardi futuriste, non solo raggiunge anche Campana, ma anima intensamente la sua esperienza poetica», tanto che si riconosce con Parronchi che «Egli è coi nuovi, e per la novità» (ALESSANDRO PARRONCHI, Genova e ‘il senso dei colori’ nella poesia di Campana, in Artisti toscani del Primo Novecento, Firenze, Sansoni 1958, pp. 246-247).

36 L’esposizione futurista fu inaugurata il 30 novembre 1913, presso la Libreria Antiquaria Gonnelli di Via Cavour a Firenze. Campana visitò l’esposizione il 4 gennaio 1914, ovvero in un periodo intermedio tra la consegna del Più lungo giorno e la stesura dei Canti Orfici (D. CAMPANA, Canti Orfici e altre poesie, a cura di R. Martinoni, Torino, Einaudi 2003, p. 166). Per l’episodio: A. PARRONCHI, ‘Genova’ e il senso dei colori nella poesia di Campana cit., p. 249.

37 D. CAMPANA, Canti Orfici, con il commento di F. Ceragioli cit., p. 180. 38 Ivi, p. 248.

38 Ivi, p. 248.


2. Il movimento del poeta «errante»

 

I Canti Orfici si aprono con il passaggio da una iniziale situazione di movimento – precisamente, la messa in moto tumultuosa della memoria, nel primo paragrafo della Notte («Ricordo una vecchia città») – fino alla sua compiuta e temporanea interruzione, nella chiusura del periodo («e del tempo fu sospeso il corso»):

 

Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.39

 

Tra i due estremi, sospesa nei frammenti di una lunga catena nominale scandita dai due punti, si estende la rappresentazione metafisica e atemporale delle «visioni lontane» collocate sulla «pianura sterminata nell’Agosto torrido», il cui quadro di presenze e vuoti dimostra, come mai altrove nei Canti Orfici, la propria raggiunta staticità. Il simbolo più rappresentativo della sospensione è segnato dal «fiume impaludato» le cui acque, unico refrigerio di vita possibile per il poeta («lontano refrigerio»; poi scopertamente: «lontana vita»)40 si sono fermate in «stagnazioni plumbee», luogo in cui la vita è negata, presentandosi nel proprio aspetto di morte («acqua morta»). La memoria tuttavia ricorre ad esse, proprio perché in quella staticità mortifera – una prova in Giardino autunnale (Firenze) – il poeta cerca e insegue l’origine «primordiale» e mitica, la sorgente della propria poesia: «a un tratto dal mezzo dell’acqua morta [...] un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante».

Piero Bigongiari ha osservato che la poesia di Campana «nasce al punto in cui la memoria si fa immemore [...] “esce” dalla memoria proprio mentre si fa ricordo, è “un ricordo che non ricorda”».41 In quella fuoriuscita dalla memoria il movimento iniziato dal ricordo («Ricordo una vecchia città»), una volta ripercorso il fluire di pensieri e immagini («i miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi»),42 sospende «a un tratto» il proprio moto: «e del tempo fu sospeso il corso».43


39 DINO CAMPANA, Canti Orfici, con il commento di F. Ceragioli, Firenze, Vallecchi 19873, pp. 15-16 (d’ora in poi l’edizione di riferimento del testo: da essa si indicheranno in nota, per quanto riguarda i componimenti in prosa, il titolo, il numero del paragrafo tra parentesi quadre e le righe riportate nell’edizione; mentre per le poesie i versi citati. Infine sono segnalate le pagine).

40 Giardino autunnale (Firenze), v. 8, p. 80.

41 PIERO BIGONGIARI, La materia plastica di Dino Campana, in Poesia italiana del Novecento, Firenze, Vallecchi 1965 («La cultura e il tempo», 9), p. 42.

42 Pampa, rr. 17-18, p. 244.

43 I due verbi «Ricordo» e «fu sospeso» sono allontanati ciascuno a un estremo del frammento. Il primo dà avvio alla memoria che, percorso lo spazio delle proprie figure, viene interrotta a un tratto, nel momento finale, dall’ultimo «fu sospeso il corso». L’azione del ‘sospendere’ avviene immediatamente, in accordo con il valore aspettuale del trapassato remoto, indicante «“il compiersi immediato o il punto terminale di un’azione, escludendo il riferimento alla sua durata”» (LUCA SERIANNI, Italiano. Grammatica Sintassi Dubbi, Milano, Garzanti 2009 («Le Garzantine»), XI. 384-385). La consecutio temporum irregolare dei due verbi (il tempo correlativo del trapassato remoto è quasi esclusivamente il passato remoto, non il presente indicativo come in questo caso) accentua il salto temporale che fa sbalzare dall’uno all’altro, in una successione forzata da Campana. Lo stesso ‘salto’ fa precipitare all’improvviso il «corso» della memoria nell’immobilità.


Sbalzata fuori del tempo, la memoria orfica44 contempla una visione sospesa nell’immobilità di un istante brevissimo e, insieme, meraviglioso ed eterno.

Il motivo per cui, secondo Bigongiari, Campana «vuol far ribaltare fuori del tempo, e dunque fermare in visioni, il fluire della vita» è così spiegato: «perché fuori del tempo storico è l’origine del mondo».45 Tuttavia, il «giro del ritorno eterno vertiginoso» in cui la realtà è coinvolta – similmente a un turbine in cui «l’immagine», non appena è apparsa al poeta, «muore immediatamente»46 – si oppone al raggiungimento di qualsiasi stabilità o capacità di possesso per chi la osserva. L’istante in cui il ricordo torna a rivivere sul «panorama scheletrico del mondo»47 resta un approdo brevissimo («brevissimo istante»;48 «per un meraviglioso attimo»)49 che appare e subito si spegne («spento, apparso e subito spento!»),50 impossibile da trattenere («la terra e la luce mi erano strappate inconsciamente»).51 Mentre la memoria, proprio quando si è più sprofondata nel passato mitico che ha sospeso il tempo, segna a un tratto l’origine del canto: «e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto».

Questo canto tuttavia è «torrido» e arido per il poeta in cerca di «refrigerio», porta i segni della morte da cui emerge («dal mezzo dell’acqua morta»), manifestandosi come una «nenia primordiale monotona e irritante» che sospende il tempo e il «corso» di ogni movimento vitale. L’immobilità inseguita dal poeta «errante» non rappresenta però il suo approdo. La vitalità ansiosa e piena di fede che lo caratterizza, sia pure nella tensione verso una meta irraggiungibile, non trova alcuna conclusione definitiva, esprimendosi in un perenne movimento.


44 Il termine ‘orfico’ è qui utilizzato nell’accezione espressa da Bigongiari: «La memoria orfica, non storica, infine una condizione storicamente immemoriale, è una sorgente irrazionale, una pura fonte, nell’uomo, delle condizioni prime del mondo» (P. BIGONGIARI, La congiuntura Carducci-Campana cit., p. 35).

45 Ibid.

46 La nota di Campana è famosa, in un appunto degli inediti dal titolo Storie II: «Nel giro del ritorno eterno vertiginoso l’immagine muore immediatamente» (D. CAMPANA, Opere e contributi, a cura di E. Falqui, Firenze, Vallecchi 1973, p. 444). Commenta Bigongiari: «È il mito dell’eterno ritorno che Campana ha mutuato, attraverso Nietzsche, al primitivo impulso religioso dell’uomo. Ritorno eterno vertiginoso e istantanea morte dell’immagine. L’immagine muore immediatamente proprio per seguire il suo destino, la circolarità di quel “ritorno eterno vertiginoso” che è insieme, ogni volta, la sua condanna e il suo riscatto» (P. BIGONGIARI, La materia plastica di Dino Campana cit., pp. 41-42).

47 La Notte [10], r. 10, p. 31.

48 Passeggiata in tram in America e ritorno, rr. 29-30, p. 270.

49 Pampa, rr. 32-33, p. 245.

50 Crepuscolo mediterraneo, r. 30, p. 298.

51 Passeggiata in tram in America e ritorno, rr. 26-27, pp. 269-270.


Tornando all’incipit dei Canti Orfici, l’azione del ricordare, che inaugura la prosa della Notte e insieme l’intero libro, segna lo stacco del poeta dal proprio presente, nel momento in cui inizia a scrivere («Ricordo una vecchia città»). La memoria messa in moto si rivolge immediatamente alla rievocazione di immagini passate, con una vera e propria corsa («corre la memoria ancora»;52 «mi ricorreva a tratti alla mente»;53 «fu sospeso il corso» e similmente «ricordo»).54 Gli stessi ricordi e le immagini mitiche tornano ad apparire – spesso anche per una propria misteriosa iniziativa incomprensibile allo spettatore che non li controlla e non sa («Non so se tra roccie»)55 – rivelandosi e scomparendo a un tratto di fronte al poeta che, proprio perché poeta, deve coglierne e fissarne i segni.

Nella prosa Dualismo, la lettera aperta che Campana immagina di scrivere a Manuelita, una fanciulla incontrata in Sud America, la successione fra il ricordo inizialmente ‘lontano’ e l’apparizione della donna nel ‘presente’ è esplicita: «voi tornate ad apparirmi col ricordo lontano [...] io vi rivedo Manuelita [...] tutta mi siete presente».56 Il passaggio è emblematico per Campana dal momento che il testo contiene, come avverte Contini, «la sua poetica appena implicita, quasi il suo programma».57 In esso è espressa la forza di attrazione che, similmente a un magnetismo necessario, riavvicina il poeta alla figura del ricordo: «E ancora il magnetismo di quando voi chinaste il capo [...] mi attira non ostante il tempo ancora verso di voi».58 Egli non può resistere alla sua forza («un atomo lottava nel turbine assordante [...] della corrente irresistibile», scrive il poeta divenuto un atomo nel cosmo di Pampa),59 opponendosi al magnetismo che lo attira «non ostante il tempo», ovvero, contro l’opposizione del tempo che è passato e ne contrasta il moto (lat. obstare ‘stare davanti’). Resta al poeta il guadagno tutto campaniano – condizione di divinità strappata disperatamente alla immutabilità del tempo – di quell’«ancora» sperato, segno del suo continuare nel presente.


52 La Verna [7], r. 67, p. 132.

53 La Notte [2], r. 6, p. 17.

54 La sillaba -cor- avvicina i due termini in incipit ed explicit del primo paragrafo della Notte: «Ricordo» e «corso». La vicinanza sillabica (corso quasi contenuto in ricordo) segnala l’essenza di movimento del ‘ricordare’, concepito come una corsa della memoria. Anagrammi del verbo ‘ricordo’ nei Canti Orfici sono tutti derivati da ‘correre’ («corridoio»; «scorridori»). Insieme al corso del tempo, del fiume e dell’acqua descritti nell’apertura della Notte (accostati l’uno all’altro: «Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l’acqua scorre» La Verna [10], rr. 72-72, p. 149) si rintraccia anche quello della memoria: «Il mio ricordo, l’acqua è così» (La Verna [10], r. 28, p. 144). Come un corso d’acqua, il ricordo può inaridirsi («torrido» quasi anagramma di «ricordo») correndo alle sue mitiche origini («primordiale»).

55 La Chimera, v. 1, p. 73.

56 Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), rr. 4-10, pp. 211-212 (D’ora innanzi abbreviato in Dualismo).

57 GIANFRANCO CONTINI, Dino Campana, in Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei, Torino, Einaudi 1974, p. 19.

58 Dualismo, rr. 14-17, p. 212.

59 Pampa, rr. 60-62, p. 248.


Il ripiegamento del poeta verso il passato, e allo stesso tempo quello del ricordo che ritorna presente (non sottratto con ciò alla sua lontananza), si manifesta in alcuni passaggi come un indice di nostalgia. Nella Notte, la nostalgia della matrona viene descritta quale una spinta che la riporta al passato («lei spinta dalla nostalgia ricordava ricordava a lungo il passato»),60 ma vi è inoltre quella ammessa dal poeta: «mia nostalgia».61 In effetti, proprio nell’esordio della Notte, Campana ci sembra rievocare nostalgicamente62 il momento in cui, al calare della sera – in un istante in cui si fondono tutti gli anni passati – stringeva a sé la donna, figura chimerica della sua poesia: «io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi».63 Gli occhi leopardianamente «fuggitivi» della donna (fissata nel pronome «Lei» per descriverne il valore emblematico, quasi fosse l’unica rappresentazione possibile del canto) descrivono la vanità di ogni sforzo di trattenerla, e l’imminente perdita presupposta alla sua vicinanza.

Sempre nella Lettera a Manuelita – che abbiamo considerato la base per un discorso sulla poetica di Campana – il poeta descrive come non gli sia sufficiente nemmeno il tornare del ricordo per farlo giungere a un acquietamento e a un approdo, validi in quanto conclusione. Egli mette in luce, al contrario, quella definita da Contini la sua «impossibilità di resistere nell’aderire al presente».64 L’esempio è offerto dal critico, il quale osserva, riferendosi al poeta che ha lasciato il Sud America: «“Tutta mi siete presente esile e nervosa”, dice a Manuelita ora che c’è l’oceano di mezzo»;65 ma già il ritorno di Manuelita costituisce l’inevitabile premessa per la sua perdita, come confessa Campana: «Io vi perdevo allora Manuelita, perdonate». Ad allontanare il personaggio del poeta nello spazio e nel tempo, costringendolo di continuo alla partenza e alla fuga – egli stesso ammette che a muoverlo sono la fedeltà al destino («io dovevo restare fedele al mio destino»)66 e al suo ideale inquieto («era un’anima inquieta quella di cui mi ricordavo sempre [...] Essa era per cui solo il sogno mi era dolce [...] Essa era per cui io dimenticavo il vostro piccolo corpo»)67 – è ciò che Campana definisce il proprio «anelito infrenabile».68

«Anelito» significa desiderio di qualcosa, ardente tanto da affannare il respiro che lo insegue, e a cui è teso come in una corsa. Esso è «infrenabile» perché nulla può arrestarlo, costringendolo al presente di un tempo e un luogo fermi, dove si possa rimanere per sempre in uno stato di quiete. 


60 La Notte [13], rr. 27-28, p. 40.
61 La Verna [10], r. 78, p. 149.
62 «dolcezza trionfale del ricordo» (La Notte [2], r. 16, p. 18). Nell’espressione si riconoscono la dolcezza del ricordo tipica di Leopardi, unita alla sua trionfale apparizione, propria di Carducci.
63 La Notte [2], rr. 14-15, p. 18.
64 G. CONTINI, Dino Campana cit., p. 19.
65 Ibid.
66 Dualismo, rr. 75-76, p. 217.
67 Dualismo, rr. 76-80, p. 217.
68 Scrive il poeta a Manuelita: «il mio anelito infrenabile andava lontano da voi» (Dualismo, rr. 34-35, p. 214).


Proprio l’inquietudine è al centro dell’unico autoritratto poetico fornito dal libro, nel quattordicesimo frammento della Notte. Il poeta si descrive da giovane, al tempo dell’inverno bolognese:

Oh! ricordo!: ero giovine, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di stanchezza. Prestavo allora il mio enigma alle sartine levigate e flessuose, consacrate dalla mia ansia del supremo amore, dall’ansia della mia fanciullezza tormentosa assetata. Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta «un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso». Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero.69

La «mano non mai quieta» e il «viso indeciso» del poeta sono le rappresentazioni dell’«ansia» (termine che ricorre quattro volte nell’autoritratto, imponendosi nella caratterizzazione del personaggio) e della sua condizione di tormento: «Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero». Come afferma il poeta, l’inquietudine si esprime nella scelta del destino di «errante», in perpetuo movimento «dietro le larve del mistero». Il paragrafo si conclude infatti con la fuga dalla città verso le Alpi («Poi fuggii»).70

Campana accetta una vita tutta rivolta all’inseguimento del mistero che a tratti si rivela e appare (anche in forma indistinta e vaga: «larve»), mosso da un anelito di «fede» che ha esteso a tutto l’esistente la propria ricerca («tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta “un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso”»). Questa fede piena di inquietudine trova una espressione simbolica non soltanto nell’«anelito infrenabile» dichiarato in Dualismo, ma inoltre ricorrendo alla figura della sete metaforica e fisica71 del suo personaggio («ansia della mia fanciullezza tormentosa assetata»). Essa rappresenta anzi una chiave di lettura fondamentale del libro.

Il poeta «assetato errante» non può rimanere nell’aridità dell’«Agosto torrido» che domina l’apertura della Notte – dalla «pianura sterminata» egli fissa piuttosto il «lontano refrigerio» delle colline sullo sfondo – perché l’«acqua morta» del fiume non può soddisfare la sua sete. L’immobilità «primordiale» del ricordo, che ha fermato il fiume e il corso del tempo, risulta infatti «monotona e irritante» al poeta che vi è attratto. 


69 La Notte [14], rr. 22-31, p. 44.
70 La Notte [14], rr. 31-32, p. 45.
71 Il legame tra la sete e la propria fede è espresso da Campana in modo eccezionalmente esplicito in una variante del Più lungo giorno eliminata già sul testo del manoscritto. Il passaggio appartiene al materiale che nei Canti Orfici andrà a comporre La Notte: «Oh! un attimo vivere qualche cosa di delicato di infantile di commovente di irragiungibile [...] Anita dov’era? che sa l’irragiungibile di cui la mia ha sete» (D. CAMPANA, Il più lungo giorno, a cura di D. De Robertis cit., pp. 15-16). Tralasciando il problema testuale (il nome dopo «mia» è eliso, oppure sottintende ‘nostalgia’), Campana instaura un legame tra la propria «sete» e il rispettivo termine: «l’irraggiungibile». La sete è per Campana il bisogno di qualcosa che non si può raggiungere, l’ansia – però piena di fede di chi continua sempre a sperare – in un «mistero» o «segreto» esistente e inarrivabile, come la sua Chimera.


Da questo punto di vista, le «stagnazioni plumbee» del fiume corrispondono al luogo in cui la raggiunta immobilità («impaludato»; «stagnazioni»; «fu sospeso il corso») coincide con la negazione della vita: l’«acqua» è «morta» e il poeta in cerca di «refrigerio» deve partire, accettando senza condizioni il destino di errante «dietro le larve del mistero».

Inizia solo allora il movimento del poeta all’interno dei Canti Orfici e della Notte. Il personaggio si avvia, prima inconsciamente («Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara»)72 e poi dichiaratamente in un «andar fatale»73 nel tempo e nello spazio, descritto in Pampa come una «corsa cieca fantastica infrenabile»,74 dietro al «mistero» e al suo irresistibile «richiamo».75

Nella prosa Pampa, rappresentativa poiché segna, come ha notato Ramat, «l’unico “successo” dell’orfismo campaniano»,76 la figura con cui il poeta si descrive è quella dell’«eterno errante» destinato alla sua condizione per l’eternità.77 Per la caratterizzazione Campana deve aver derivato dalla propria biografia e dai viaggi che lo hanno continuamente impegnato, dei quali è ancora difficile fare una ricostruzione: a partire da quello in Sud America. Immerso nella Pampa, il personaggio poetico attraversa la pianura misteriosa, seguendo il richiamo della terra che, in un passaggio culminante dei Canti Orfici, si riscuote per prenderlo nel suo mistero:

Ero sul treno in corsa: disteso sul vagone sulla mia testa fuggivano le stelle e i soffi del deserto in un fragore ferreo: incontro le ondulazioni come di dorsi di belve in agguato: selvaggia, nera, corsa dai venti la Pampa che mi correva incontro per prendermi nel suo mistero: che la corsa penetrava, penetrava con la velocità di un cataclisma: dove un atomo lottava nel turbine assordante nel lugubre fracasso della corrente irresistibile.78

Quando ha raggiunto la «velocità di un cataclisma», il soggetto poetico salito su un «treno in corsa» penetra finalmente dentro il «mistero» della Pampa, ora un «turbine assordante» e «irresistibile» che ne sregola totalmente i sensi («Dov’ero?»;79 «era la morte? Od era la vita?»),80 annullando le sue capacità espressive («assordante»; «cieca»). 


72 La Notte [3], rr. 1-2, p. 19.
73 Immagini del viaggio e della montagna, v. 56, p. 165. 74 Pampa, r. 76, p. 249.
75 Pampa, r. 50, p. 247.
76 D. CAMPANA, Opere e contributi cit., p. 120.
77 Pampa, r. 52, p. 247.
78 Pampa, rr. 54-62, pp. 247-248.
79 Pampa, r. 64, p. 248.
80 Pampa, rr. 68-69, p. 248.


Nella quiete successiva alla partecipazione al mistero, la corsa diviene lo stato di tutto il suo essere.

Poi la stanchezza nel gelo della notte, la calma. Lo stendersi sul piatto di ferro, il concentrarsi nelle strane costellazioni fuggenti tra lievi veli argentei: e tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca fantastica infrenabile che mi tornava alla mente in flutti amari e veementi.81

Una stessa corsa, come un movimento vorticoso e cieco, descrive il dinamismo del soggetto nello spazio e nel tempo («correvo»),82 e il moto violento dei ricordi che tornano alla mente «in flutti amari e veementi»: ma una corsa è la sua stessa «vita». Essa è «infrenabile», come l’anelito che portava il poeta lontano da Manuelita proprio quando era più vicina. Nulla può arrestare la corsa («mi parve che mai quel treno non avrebbe dovuto arrestarsi»),83 non trovando una conclusione nemmeno quando ha raggiunto un finale stato di quiete («poi la stanchezza [...], la calma»; «lo stendersi sul piatto di ferro»; «nel mio intorpidimento finale»).84 La quiete infatti, in modo analogo alla apertura della Notte, segna soltanto il momento in cui la memoria, ora avviata, fa precipitosamente tornare alla memoria il passato («e tutta la mia vita [...] che mi tornava alla mente»), sospendendo il tempo con una azione visibile nello spazio (in un passaggio precedente: «Una stella fluente [...] segnava in linea gloriosa la fine di un corso di storia»).85

Si comprende come il passaggio fortemente dinamico di Pampa corrisponda all’estremo opposto rispetto alla immobilità descritta nell’apertura della Notte. Mentre in quest’ultima il movimento del ricordo («Ricordo») appare immobilizzato dalla sospensione del corso del tempo e della memoria (‘ribaltata’, secondo l’espressione di Bigongiari, fuori del tempo: «e del tempo fu sospeso il corso»), trovando una rappresentazione nel «fiume impaludato»; in Pampa è descritto il movimento al proprio vertice, ovvero nella condizione necessaria alla partecipazione del poeta al mistero («penetrava, penetrava con la velocità di un cataclisma») rappresentato dalla Pampa divenuta una «corrente». Tuttavia nella Notte come in Pampa il finale stato di immobilità segna il compiersi dello slancio della memoria al passato, e il ritorno tumultuoso dei ricordi nel presente.

Lo slancio vitale per il poeta, espressione della sua ansia e della sua fede, si conclude nella immobilità, ma essa, origine primordiale ed eterna della poesia ritornata presente, dura soltanto un ‘meraviglioso attimo’, e già il poeta «errante» dichiara di non potervi resistere. 


81 Pampa, rr. 72-77, p. 249. 82 Pampa, r. 68, p. 248.
83 Pampa, rr. 69-70, p. 248. 84 Pampa, rr. 72-73, p. 249. 85 Pampa, rr. 29-31, p. 245.

 

Conclude infatti Bigongiari: 

E la dialettica moto-immobilità, “tempo”-“fuori del tempo”, è, nella risultante, perfetta: tesi e antitesi non conducono a una sintesi diversa che neghi nei dati di partenza proprio la loro antiteticità, bensì a una simbiosi di quei dati, a una trama, tutta lentamente tessuta, di opposti: e qui sta la posizione difficile, obiettivamente, per il poeta, nella sua stessa poesia: per l’equilibrio instabile che essa comporta, nel suo connaturato “animamento”.86

Né il movimento né l’immobilità rappresentano le condizioni o i luoghi in cui il poeta può fermarsi, in una attrazione continua dall’uno all’altro. L’«eterno errante» ha scelto come termine del proprio destino poetico e umano un approdo chimerico e irraggiungibile, ma esso, non appena si apre a un istante di contatto con chi lo insegue – momentaneo riposo in cui l’inquietudine non si placa – già rappresenta il punto di partenza per una nuova fuga. Il poeta è così costretto a intraprendere continuamente la propria «serie di viaggi nell’abbagliante profondità notturna, viaggi che ogni volta», come ha scritto Ramat, «sono un ripartire daccapo».87

Tuttavia, si è domandato Contini: «Quale movimento non aspira a un suo riposo?».88 Campana stesso descrive la propria ricerca di quiete, immaginata come una «divina / Serenità perduta»89 in cui si rispecchi la «pace cristallina» del paesaggio.90 Ci si interroga, a questo punto, su quale rapporto intercorra tra il movimento del poeta «eterno errante» e la sua ricerca di quiete: ovvero se il riposo, per Campana, corrisponda alla conclusione della corsa, oppure ad un nuovo slancio, con un movimento senza fine. In tal senso, la formulazione di Bigongiari sulla «dialettica moto-immobilità, “tempo”-“fuori del tempo”»91 ci consente almeno un tentativo di individuare se vi sia un punto medio o una fase di equilibrio – sia pure di «equilibrio instabile» – nella quale il poeta trovi riposo; o se il suo «connaturato “animamento”»,92 non resistendo alla condizione di immobilità, renda tale equilibrio impossibile.

Tornando all’incipit della Notte, ci si sofferma sull’azione del verbo ‘sospendere’ («fu sospeso il corso»), che agisce nel paragrafo come il culmine conclusivo dello slancio poetico nel ricordo («Ricordo»). Il verbo presenta due significati possibili: quello letterale di ‘appendere in alto’ e quello figurato di ‘interrompere’. Quest’ultima accezione è preferibile nel caso presente, in cui l’arresto del «corso» del tempo avviene con un senso di provvisorietà e di attesa.


86 P. BIGONGIARI, La materia plastica di Dino Campana cit., pp. 47-48.
87 SILVIO RAMAT, L’intenzione regressiva dei «Canti orfici», in Storia della poesia italiana del Novecento, Milano, Mursia 1976, p. 116.
88 G. CONTINI, Dino Campana cit., p. 21.
89 Immagini del viaggio e della montagna, vv. 59-60, p. 165.
90 Si tratta di una corrispondenza (secondo l’accezione di Baudelaire) tra la serenità del borgo di Marradi apparso all’errante, e il poeta che in essa si vuole immedesimare: «desolato / Andar per valli, in fin che in azzurrina / Serenità, dall’aspre rocce dato / Un Borgo in grigio e vario torreggiare / [...] / Sovra l’arido sogno, serenato!» (Immagini del viaggio e della montagna, vv. 47-52, pp. 164-165).
91 P. BIGONGIARI, La materia plastica di Dino Campana cit., p. 47.
92 Ivi, p. 48.


Il primo significato letterale è invece strettamente legato alla etimologia del verbo, dal latino suspendere (comp. di sub ‘so’ e pendere ‘propr. pesare’, col p.p. suspensum).93 In questo senso, il verbo compare nell’unica ulteriore occorrenza nei Canti Orfici, riferito a una «luna / Che guarda sospesa al soffitto».94 La lanterna è appesa al soffitto (ma non è specificato il punto di aggancio), pendendo in alto senza toccare terra: il suo essere sospesa è conforme allo sguardo torvo, estraniato e malsicuro sulla scena futurista della «taverna cafè chantant / D’America».95 L’etimologia del verbo influisce però, a nostro avviso, in modo attenuato anche nel primo utilizzo nella Notte.

Nel Dizionario etimologico della lingua italiana,96 Ottorino Pianigiani descrive la base possibile dello scorrimento metaforico del verbo, a partire dal significato letterale: «Presa la metafora delle cose sospese che son trattenute nel cadere» si è giunti al senso figurato di «differire, arrestare per qualche tempo». In effetti, nella Notte il «corso del tempo» viene sospeso «a un tratto», e cioè ‘trattenuto’ tutto in una volta (e perciò interrotto), lasciandolo pendente (sub pendere) e come in attesa, prima che riprenda a scorrere. Una ulteriore verifica è rintracciabile nei Canti Orfici.

In una scena della prima parte di Pampa, il personaggio poetico che ha appena bevuto il mate contempla, in un momento di abbandono, i giochi misteriosi delle costellazioni. Tornano allora a precipitarsi alla sua mente la memoria e i ricordi passati («I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi»).97 Allo slancio dei ricordi nel passato e al loro riapparire nel presente «trasumanati in distanza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinita maestà della natura»98 segue, ancora una volta, l’interruzione del corso del tempo: «Una stella fluente in corsa magnifica segnava in linea gloriosa la fine di un corso di storia».99 Il passaggio prosegue con la descrizione del «meraviglioso attimo» della scena:

Sgravata la bilancia del tempo sembrava risollevarsi lentamente oscillando: per un meraviglioso attimo immutabilmente nel tempo e nello spazio alternandosi i destini eterni . . . .100

Il tempo, concepito ancora come essenziale movimento («corso di storia»), è descritto mentre sembra «risollevarsi» verso l’alto (sublevare ‘alzare’), liberato del proprio peso («sgravata»). 


93 MANLIO CORTELAZZO – PAOLO ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli 1999. 94 Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici, vv. 2-3, p. 180.
95 Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici, vv. 4-5, p. 180.
96 OTTORINO PIANIGIANI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Venezia, Sonzogno 19372.

97 Pampa, rr. 17-18, p. 244.
98 Pampa, rr. 20-22, pp. 244-245. 99 Pampa, rr. 29-31, p. 245.
100 Pampa, rr. 31-34, p. 245.


rappresentare la scena? Simbolo della misurazione dei «destini eterni» – ovvero del passato e del presente irreversibili, osservati e come pesati nel loro alleggerirsi e meraviglioso intersecarsi – così «sgravata», la bilancia solleva il piatto del tempo, tenendolo sospeso (da pendere ‘pesare’, da ‘peso’) in una lenta oscillazione («lentamente oscillando»). È chiara in tale sospensione la vicinanza al passaggio della Notte che recita: «e del tempo fu sospeso il corso». Il piatto non è però ancora immobile, volendosene invece descrivere la tensione oscillante e rallentata prima del punto di equilibrio, in tutta la sua durata («per un meraviglioso attimo»). L’istante in cui si svolge la scena è ancora caratterizzato dal movimento, con il passato e il presente che si alternano in successione «nel tempo e nello spazio» davanti al poeta.

Si è rintracciata nella «bilancia» l’azione del poeta che descrive le modulazioni del tempo e ne soppesa l’alleggerimento. In un passaggio seguente, si stende egli stesso sul «piatto di ferro» («Lo stendersi sul piatto di ferro»,101 rappresentato dal treno in corsa) quasi a vedere se arrivasse, anche per lui, il momento di riposarsi dalla propria corsa; o anche se, una volta sgravato del peso, non possa egli stesso sollevarsi a una definitiva liberazione. Essa non si verifica tuttavia per Campana nel raggiungimento di un equilibrio impossibile.

Non si trova infatti alcun luogo, nei Canti Orfici, in cui l’ago della bilancia si fermi segnando un equilibrio armonico, e perciò una perfetta e definitiva immobilità degli elementi soppesati in sintonia con il poeta. La «bilancia immota» delle venditrici di Genova102 rappresenta piuttosto la fissità immutabile e mitica della città di mare, con le sue figure «uguali a statue». La bilancia delle genovesi è «immota» nonostante i «Frutti di mare con rauche grida cadenti» su essa: come se non vi sia nulla che possa turbarne l’equilibrio, estraneo alla «febbre de la vita». La vita anzi vi rimane aggrappata, trovando intorno a quella immutabilità (dalla quale è però esclusa) una possibilità di trattenersi, dopo essere rimasta come sospesa nel passato («pristina»): «A te aggrappata d’intorno / La febbre de la vita / Pristina».103

Anche dove è finalmente descritto il punto di aggancio, in cui il tempo finora pendente («sospeso», come nella Notte) trova l’appiglio – non per un caso – nell’«orologio verde come un bottone in alto»104 (appunto: ‘come un bottone in alto’), raggiungendo lo stato di «eternità» proprio dello spazio,105 questa condizione di equilibrio definitivo non è, ancora una volta, il riposo vitale per il poeta.


101 Pampa, r. 73, p. 249.
102 Il passo è tratto dalla terza strofa del lungo componimento che chiude i Canti Orfici: «Entro una grotta di porcellana / Sorbendo caffè / Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce / Tra le venditrici uguali a statue, porgenti / Frutti di mare con rauche grida cadenti / Su la bilancia immota: / Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale / Su per l’erta tumultuante / verso la porta disserrata / Contro l’azzurro serale, / Fantastica di trofei / Mitici tra torri nude al sereno, / A te aggrappata d’intorno / La febbre de la vita / Pristina [...]» (Genova, vv. 26- 40, p. 319).
103 Genova, vv. 38-40, pp. 319-320.
104 Piazza Sarzano, r. 44, p. 307.
105 «e l’orologio verde come un bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza» (Piazza Sarzano, rr. 43- 45, p. 307).


Il ricordo fermato nello spazio si mostra allo spettatore al pari della bilancia di Genova, «immota» tra la folla che si muove, o similmente al fiume «impaludato» della Notte, le cui acque ferme sono divenute il luogo della morte. La vita rimane aggrappata al ricordo, fermata anch’essa, ma come sospesa attendendo di riprendere: è «monotona e irritante» per il poeta, che vive soltanto, al contrario, nella propria ansia piena di speranza e nel suo eterno movimento.

Quando si cerchi un momento della sua autentica liberazione, una espressione del suo riposo in armonia con la realtà che ha davanti, li si scopre proprio in una fase non immobile, nell’equilibrio non sottratto al pericolo della caduta. Essi si verificano ancora nello slancio del poeta (sempre espressione della sua vitalità), ma nel punto in cui esso, incapace di durare più di un «meraviglioso attimo», abbandona lo sforzo e il proprio peso al mistero che li prende su di sé, lasciandosene come cullare.

In Scirocco (Bologna), una delle prose in cui è maggiore la sintonia tra il poeta e la città bolognese che «riposava del suo faticoso fervore»,106 è descritto l’invito a riposarsi intravisto nei soffi caldi dello scirocco e nel «ricordo dorato»107 lasciato dall’alba all’orizzonte. Sporgendosi dalla finestra, egli abbandona i ricordi e le speranze ai «riflessi dorati», con l’anima piena di attesa:

Sentivo che tutto posava: ricordi speranze anch’io li abbandonavo all’orizzonte curvo laggiù: e l’orizzonte mi sembrava volerli cullare coi riflessi frangiati delle sue nuvole mobili all’infinito. Ero libero, ero solo.108

La liberazione dal peso del passato («ricordi») e del futuro («speranze») trova una corrispondenza nell’orizzonte, che sembra disposto a un gesto di comprensione totale. Esso prende su di sé ciò che il poeta ha lasciato, accogliendolo come in una culla: «l’orizzonte mi sembrava volerli cullare». Il poeta è finalmente libero («Ero libero, ero solo»). In modo analogo, anche in Pampa, «gettato sull’erba vergine» il poeta si abbandona completamente ai giochi delle costellazioni («io mi andavo abbandonando tutto») che appaiono come «arabeschi», venendone infine cullato:

Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. 


106 Scirocco (Bologna), r. 17, p. 284.
107 Scirocco (Bologna), r. 5, p. 283.
108 Scirocco (Bologna), rr. 19-22, pp. 284-285.


I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti lucidamente trasumanati in distanza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinita maestà della natura. Lentamente gradatamente io assurgevo all’illusione universale.109

Nello stato di oscillazione tranquilla descritto in Pampa, quasi un fluttuamento («i miei pensieri fluttuavano») di corrispondenza perfetta tra i pensieri e l’«infinita maestà della natura», il poeta assurge all’«illusione universale», innalzandosi «lentamente gradatamente» (al pari della bilancia che «sembrava risollevarsi lentamente oscillando») verso l’alto (ad surgere ‘levarsi su, in alto’). In un passaggio successivo, quando il suo movimento accelera fino alla corsa («Ero sul treno in corsa») il poeta «disteso sul vagone»110 si abbandona alla pampa, che infine gli si muove incontro per accoglierlo nel suo mistero.111

Nell’abbandono del proprio slancio verso il mistero sempre inseguito, l’«eterno errante» – incapace «di resistere nell’aderire al presente»112 – trova finalmente il riposo e l’armonia. Egli non può tuttavia fermarsi nella loro immobilità senza vita («immobile [...] come il mio cadavere»).113 Cullato «un brevissimo istante», Campana accetta per sé una condizione vacillante, estranea alla immutabilità: un «equilibrio instabile», per riprendere l’espressione di Bigongiari, che non si sottrae al pericolo della caduta.

Come il battello descritto nella Passeggiata in tram in America e ritorno, il poeta errante, ora rigettato in alto – divenuto anche lui finalmente ‘leggero’ – dalle onde che lo raccolgono e lo cullano (ma non più che «un brevissimo istante»), «pencola terribilmente» sull’abisso,114 sforzandosi di innalzare la propria melodia, sapendo che presto tutto il suo sforzo è destinato a ricadere in un «rombo»:115

Come amavo, ricordo, il tonfo sordo della prora che si sprofonda nell’onda che la raccoglie e la culla un brevissimo istante e la rigetta in alto leggera nel mentre il battello è una casa scossa dal terremoto che pencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro il mare tenace e riattacca a concertare con i suoi alberi una certa melodia beffarda nell’aria, una melodia che non si ode, si indovina solo alle scosse di danza bizzarra che la scuotono!116


109 Pampa, rr. 14-23, pp. 244-245.
110 Pampa, r. 54, p. 247.
111 «la Pampa che mi correva incontro per prendermi nel suo mistero» (Pampa, r. 58, p. 248).
112 G. CONTINI, Dino Campana cit., p. 19.
113 La Verna [10], r. 78, p. 149.
114 È questo il verbo che a nostro avviso descrive la condizione di Campana e della sua poesia. Egli «pencola» perché non ha un appiglio fisso, si solleva meravigliosamente nella sua poesia, e rimane però in un equilibrio instabile, che dura un istante sull’abisso, «terribilmente» in pericolo di cadere.
115 «L’acqua a volte mi pareva musicale, poi tutto ricadeva in un rombo e la terra e la luce mi erano strappate inconsciamente» (Passeggiata in tram in America e ritorno, rr. 25-27, p. 270).
116 Passeggiata in tram in America e ritorno, rr. 27-36, p. 270.